Giorgio Napolitano muore a 10 anni dal suo secondo e celeberrimo discorso di insediamento, pronunciato il 20 aprile del 2013 in occasione della sua rielezione. Una vera e propria reprimenda nei confronti della classe politica italiana, responsabile di un ritardo inaccettabile nel cammino delle riforme istituzionali.
Come presidente della Repubblica, Napolitano non è titolare delle prerogative necessarie per promuovere direttamente un percorso di riforme della Costituzione, che sono del Parlamento, ma aveva a disposizione un potere di moral suasion che non ha mancato di utilizzare. Come oggi sappiamo, invano. Anzi, è proprio la necessità e l’urgenza delle riforme in un momento di paralisi delle forze politiche che lo spinge ad accettare un secondo incarico – “il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità” – un atto eccezionale che avrebbe preferito evitare e che percepisce come un’amara e cruda fotografia della crisi della politica.
“Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – accusa il presidente appena rieletto in quella comunicazione – non si sono date soluzioni soddisfacenti: hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”.
Napolitano fu certamente un tifoso dell’evoluzione della democrazia bloccata italiana in una moderna democrazia dell’alternanza. I referendum dei primi anni ’90, che abolirono il sistema delle preferenze provocando la modifica della legge elettorale, avevano portato all’avvento della logica maggioritaria nella competizione politica. La sterzata partì dai comuni, con la riforma che introdusse la scelta diretta dei sindaci da parte dei cittadini sulla base di un confronto tra due schieramenti alternativi. Successivamente fu la volta delle Regioni. Anche a livello nazionale, la riforma della legge elettorale in senso maggioritario – il celebre Mattarellum – contribuì alla costruzione della nuova Italia bipolare dove un polo di centrodestra e uno di centrosinistra cominciarono a confrontarsi per la conquista e l’esercizio della responsabilità di governo. In questa direzione un contributo determinante fu dato dalla capacità di Silvio Berlusconi di unificare in un unico fronte i partiti del centrodestra e dalla lenta evoluzione dei partiti eredi del Pci e della sinistra Dc verso una coalizione – e poi un partito – capace di far convergere le diverse famiglie del riformismo.
Giorgio Napolitano ha certamente apprezzato questa evoluzione bipolare che consentiva all’Italia di diventare una democrazia matura, nella quale due schieramenti reciprocamente legittimati concorrono per la guida del governo. L’occasione buona per chiudere finalmente la stagione della Guerra Fredda e la conventio ad excludendum nei confronti della sinistra postcomunista. Tuttavia, la riforma della legge elettorale e la costruzione dei due blocchi dell’alternanza non era sufficiente. Anche perché, nel frattempo, la legge Calderoli – il cosiddetto Porcellum – aveva smontato l’efficacia del Mattarellum per resuscitare il proporzionale e introdurre le liste bloccate e il premio di maggioranza. Per completare la transizione democratica italiana serviva anche una riforma della Costituzione. Napolitano – che ben conosceva il dibattito svolto in Assemblea costituente dove gli stessi padri costituenti ammisero i limiti e la ‘riformabilità’ della seconda parte della carta fondamentale – ne era consapevole. Al punto tale da attribuire esplicitamente ai “responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme”, la colpa delle “campagne di opinione demolitorie” rivolte per reazione contro il mondo dei partiti e contro le istituzioni nelle quali questi operano. In realtà, la soluzione era a portata di mano e consisteva nella riforma della parte organizzativa della Costituzione per migliorare il funzionamento e il rendimento delle istituzioni.
Nel discorso del 2013 Napolitano considera “imperdonabile … la mancata riforma della legge elettorale del 2005” che aveva, tra i suoi difetti, l’aver “provocato un risultato elettorale di difficile governabilità e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti”. E ancora: “Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario”. Il messaggio di Napolitano, rivolto contro la “sordità” delle forze politiche, incapaci di “far uscire le istituzioni da uno stallo fatale”, porta con sé la minaccia di dimissioni in caso di ulteriori ritardi. Sappiamo purtroppo com’è andata.
Nel luglio del 2013, proprio per ottemperare ai desiderata del capo dello stato, il presidente del consiglio Enrico Letta istituisce una commissione per le riforme costituzionali, composta da 40 autorevoli studiosi delle più varie provenienze culturali e politiche. Nel settembre successivo la commissione produce una relazione che appare oggi particolarmente interessante in quanto propone, per la modifica della forma di governo, un modello di “premierato forte” nel quale il primo ministro, ricevuto l’incarico dal capo dello stato e ottenuta la fiducia dal parlamento, può proporre la nomina e la revoca dei ministri, può chiedere il voto a data fissa sui disegni di legge del Governo, può essere sostituito solo dopo l’approvazione di una mozione di sfiducia costruttiva. Al presidente del Consiglio è riconosciuto perfino il potere di chiedere lo scioglimento della Camera, con conseguenze da definire nel dibattito parlamentare. Con questo sistema, la commissione proponeva di applicare una legge elettorale con un secondo turno di ballottaggio se nel primo nessuna lista ha raggiunto la soglia per far scattare il premio di maggioranza. Il lavoro prezioso di quella commissione – apprezzato da Napolitano – non arriva alla discussione in parlamento per la caduta del governo Letta.
Successivamente, dopo l’insediamento a capo del governo nel febbraio 2014, Matteo Renzi avvia un processo di riforma che, di fatto, raccoglie buona parte di quelle proposte e, soprattutto, modifica il bicameralismo paritario come Napolitano aveva suggerito. Ma il referendum costituzionale del 2016, svoltosi un anno dopo le dimissioni per motivi di salute del presidente della Repubblica e trasformatosi in un plebiscito pro o contro Renzi, registra la vittoria dei ‘No’ e l’interruzione definitiva del percorso riformatore. Oggi Giorgia Meloni ritorna a parlare di riforme e sembra orientarsi proprio verso quell’ipotesi del premierato forte che rappresentò in qualche modo l’esito degli appelli di Napolitano. L’ex presidente non farà più in tempo a vedere la fine di questo percorso. Ma vista l’impasse attuale della maggioranza – sia sull’autonomia differenziata che sulla modifica dei poteri del presidente del consiglio – è probabile che le speranze di riforma restino lettera morta anche questa volta.