Nel preciso giorno del ferragosto 1769 nacque in quel di Ajaccio (Corsica), in maniera alquanto avventurosa, il futuro Imperatore dei francesi. Neppure nella ristrettezza del suo doppio esilio, egli seppe mai rinunciare alla boria del comando e al formalismo araldico di cui s’avvaleva non per diritto ereditario ma per il fatto d’essersene prepotentemente autoinsignito
di Augusto Lucchese
Nel preciso giorno del ferragosto 1769 nacque in quel di Ajaccio (Corsica), in maniera alquanto avventurosa, il futuro Imperatore dei francesi.
Il padre, Carlo Maria Buonaparte, toscano, avvocato, era un patito di nobiltà.
La madre, donna Maria Letizia Ramolino, genovese, lo diede alla luce a mezzogiorno circa, appena rientrata dalla messa, in una situazione di pericolosa emergenza.
Ricevette il Battesimo a distanza di circa due anni, il 21 luglio 1771.
Ajaccio era allora, come adesso, la Città principale della Corsica.
Da pochi mesi l’Isola era stata militarmente occupata dai Francesi dopo che la Repubblica di Genova l’aveva loro ceduta senza tenere conto della contraria volontà degli abitanti, in gran parte di origine toscana e ligure.
I genitori, come prima evidenziato, avevano profonde radici peninsulari e la loro lingua era quella di Padre Dante.
Ambedue avevano avuto una parte attiva nel conflitto determinatosi fra corsi indipendentisti e francesi invasori.
La madre, in particolare, pur essendo in attesa del suo secondo rampollo, Napoleone per l’appunto, aveva partecipato ad alcuni cruenti scontri.
Tale chiaro comportamento anti francese apparirà poi in aperta e conclam
ata contraddizione con quello che sarà, da li a qualche anno, l’effimero destino monarchico -imperiale della numerosa famiglia Buonaparte, cognome poi francesizzato in Bonaparte.Come se si fosse trattato di roba vecchia e in disuso, fu mandata in soffitta ogni cosa che avesse a che vedere con le chiare origini tosco-genovesi (all’epoca non era ancora nata l’Italia) del vasto nucleo parentale del futuro Imperatore Napoleone I.
Ciò non toglie che “i cugini” d’oltralpe lo hanno onorato, specie “post mortem”, come uno dei “migliori” figli della ex Gallia romana, nei secoli divenuta, seppure parecchio cruentemente, l’odierna Francia.
Una sorta di culto napoleonico ha pervaso in passato e pervade tuttora una vasta massa di cittadini d’oltralpe, ponendo in ombra financo Carlo Magno, di provata stirpe franca, nell’800 incoronato Imperatore da Papa Leone III.
Senza avanzare alcuna discrimina di importanza fra i due personaggi, è solo opportuno porre in evidenza che l’arcipotente Carlo Magno, al contrario di Napoleone, non apparve nel cielo della sua epoca come una sorta di sfuggente meteora, ma per circa mezzo secolo fu il propugnatore di un Impero senza frontiere, l’invitto “conquistatore”, pur se a fronte di inqualificabili massacri e devastazioni, il monarca assoluto, malgrado fosse, si dice, un semianalfabeta.
Per quanto attiene al giovane Napoleone, in molti hanno forse dimenticato che, all’inizio della sua avventura di militare di carriera (intrapresa malvolentieri, come si legge in un suo scritto del 1787), più o meno segretamente detestava la Francia e i francesi per il semplice fatto che, spietatamente, osteggiavano l’indipendenza della Corsica.
Tale sua avversione lo pose anche in serie difficoltà, facendogli rasentare un giudizio per diserzione e per tradimento. Si narra, infatti, che recatosi in Corsica per fare visita alla sua famiglia, non aveva più fornito notizie di se al reparto da cui dipendeva e, di contro, aveva assunto il comando di un gruppo di ribelli che combattevano contro i francesi.
Il giovane Bonaparte, malgrado avesse frequentato, sebbene contro voglia, un collegio militare nella Francia del nord dal quale era uscito con il grado di sottotenente, nel suo intimo asseriva di sentirsi più “italiano o toscano che corso-francese”, pur se talvolta si lasciava prendere la mano nel dire ben poco di buono dell’Italia.
Nel corso della strabiliante parabola, che in maniera folgorante lo portò sempre più in alto nella scala del potere gerarchico militare e istituzionale, non poche furono le circostanze in cui ebbe a manifestare, chissà quanto convintamente, valutazioni addirittura dispregiative sul carattere e sulla mentalità degli italiani.
Si narra che, in occasione di una delle frequenti riunioni di famiglia, rivolto al figlioccio Eugenio Beauharnais (figlio di primo letto della concubina e poi moglie Giuseppina Teascher de la Pagerie, vedova del Generale Alessandro Beauharnais – decapitato sol perché ritenuto responsabile di un umiliante fatto d’arme), da lui insediato nella carica di Viceré d’Italia, giunse ad affermare: “avete torto a pensare che gli italiani siano sinceri come fanciulli: c’è del malanimo in loro; non fategli mai dimenticare che io sono padrone di fare ciò che voglio; ciò è necessario per tutti i popoli ma soprattutto per gli italiani che non obbediscono se non alla voce del padrone”.
Che quel ragazzino corso, secondogenito fra 12 fratelli e sorelle, inopinatamente trapiantato in Francia e quasi forzosamente indotto alla carriera militare, sia addirittura divenuto “Imperatore dei francesi”, sembra una incredibile leggenda alla Re Artù, almeno per quanto concerne l’assunta qualifica di “dux bellorum”, pur se parecchio di meno per quel che riguarda la qualità di “avveduto artefice” del benessere del popolo.
Sta di fatto, in ogni caso, che la sua attività in campo civico sembra ben poco permeata dalle sue pur elevate e intrinseche capacità cerebrali e men che meno appare in linea con le spericolate doti di provato stratega e di strenuo condottiero.
Non è da trascurare, in proposito, l’ipotesi che su tale contrasto comportamentale, maggiormente evidenziatosi nel tempo, abbia potuto influire l’impatto giovanile con l’ambiente in cui aveva mosso i primi passi da francese, nell’ambito del quale era visto come un giovane “malinconico e arrogantello”, “egocentrico e un po’ complessato”, “portatore di mille contraddizioni”, oltre ad essere considerato uno “straniero”.
Si racconta che, oltretutto, fosse anche parecchio superstizioso e, in particolare, avesse un incontenibile terrore dei gatti neri.
Tuttavia, la sua rapida ascesa in campo militare e, di riflesso, in quello politico, trovò un terreno parecchio fertile nel tragico periodo seguito al fatidico 1789, anno della “rivoluzione francese” che, come risaputo, vide nascere e propagarsi i ben noti, sanguinosi e crudeli avvenimenti che apportarono un radicale e violento sconvolgimento della struttura istituzionale della Francia.
E’ acclarato che, nell’ambito della famosa epoca del “terrore”, ai tempi della Convenzione Nazionale e del Direttorio di Paul Barras – suo convinto estimatore – si siano succedute parecchie circostanze che permisero e favorirono la folgorante carriera dell’intraprendente Napoleone, sino a farlo assurgere ad astro nascente del firmamento militare francese dell’epoca, abbondantemente dominato da forti principi rivoluzionari e nazionalisti.
Il tracotante e operettistico corso, riuscì a scalare uno alla volta e con rapidità, pur se avventurosamente e spregiudicatamente, gli scalini della scala gerarchica, sino ad insediarsi, da spavaldo giovane militare d’assalto, nei più alti livelli di comando.
L’assedio di Tolone e la prima “Campagna d’Italia”, avvenimenti di cui fu principale e valente protagonista, lo consacrarono “vincitore” e gli fecero ottenere prima i gradi di Colonnello e poi quelli di Generale.
È risaputo, di contro, che dopo l’inutile e dannosa “Campagna d’Egitto e Siria” e dopo avere subito da Horatio Nelson la pesante sconfitta navale di Abukir, mosso dalla convinzione che in Patria si tramasse contro di lui, prese la rischiosa decisione di tornare in Francia quasi di nascosto, con la coda fra gambe. Ivi giunto assunse un atteggiamento di sfida contro il Direttorio in carica e corse il rischio di essere dichiarato fuorilegge e passibile di ghigliottina.
Tuttavia, a seguito del colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) e dei consequenziali quanto autoritari risvolti, le cose si volsero a suo favore.
Mercé l’aiuto del fratello Luciano (Presidente del “Consiglio dei Cinquecento” – una sorta di Senato -), con il sostegno dei reparti militari del Generale Carlo Vittorio Emanuele Leclerc e di Gioacchino Murat, suo futuro cognato, ottenne i pieni poteri di “Primo Console di Francia”. Si trattò, come risaputo, di un potere ottenuto con la violenza. La cronaca di quei giorni, infatti, ha fatto sapere che “a seguito degli ordini di Bonaparte, Murat entrò nella sala dei Cinquecento alla testa dei granatieri e la fece sgombrare a viva forza, violando in sì fatta guisa, le leggi del paese” .
Tali poteri furono consolidati con il plebiscito del 1802 che gli attribuì l’incarico “a vita”.
Pervenuto poi all’apice della sua parabola ascensionale, decise di autoproclamarsi, nel 1804, “Imperatore dei francesi”.
Proprio lui che, come detto, era sostanzialmente di origine toscana e, per tal motivo, aveva inizialmente subito non trascurabili ingiurie di sapore razziale, oltre ad emarginazioni varie.
Fra le tante più o meno importanti onorificenze in quegli anni accumulate, s’era anche insignito (1805) del titolo di “Re d’Italia”.
È da dire, tuttavia e ad onor del vero, che nel corso del pur breve periodo del suo potere assoluto, fu artefice di non poche, rilevanti e valide riforme legislative che portarono la struttura istituzionale della Francia ad eccellere nel campo dello sviluppo economico, urbanistico e monumentale. Una per tutte la avveniristica riforma dei codici che, quindi, assunsero l’appellativo di “codici napoleonici”.
L’unico settore ad essere trascurato fu quello dell’istruzione di massa (particolarmente quella elementare), poiché il cotanto eccellente Napoleone 1° Imperatore era oltremodo convinto che il popolo, al fine di ottenerne la massima ubbidienza, specie per quanto riguardava la componente di base dell’esercito, in gran parte formata da popolani più o meno inculturati, dovesse rimanere in uno stato di pressoché generalizzata ignoranza.
È chiaro, ovviamente, che per portare avanti le sue infinite e cruente campagne militari contro le più potenti dinastie europee, quel geniaccio di un Napoleone avesse necessità di disporre di una notevole massa di fedeli uomini in armi.
I suoi eserciti erano oltretutto costruiti attorno ad un ben preciso e valido schema organizzativo, la cui “ossatura” portante era quella del vari diversificati reparti, affidati al comando di devoti graduati, dal modesto maresciallo di truppa al tronfio colonnello o al magari spaccone, ma bravo, generale. Una scala gerarchica di “esecutori” ben disciplinati, oltre che ben remunerati e parecchio privilegiati nella carriera.
Il suo precipuo fine, evidentemente, era quello di disporre di un organizzato e agguerrito apparato combattente, di una poderosa macchina da guerra che gli garantisse la vittoria, pur se tuttavia non sempre fu così.
I suoi avventurosi proponimenti bellicistici erano chiari a tutti oltre che ben pianificati e, a quest’ultimo proposito, sosteneva che “una guerra o non si fa o la si fa per vincerla”.
Da assertore e propugnatore della forte spinta egemonica che in quel momento storico pervadeva la Francia, concepiva la vita militare e le guerre come un qualcosa d’ineluttabile, di fatale, quasi alla stregua di una delle tante calamità di biblica memoria. Sembrava che fosse afflitto da una virale forma di megalomania psicopatologica.
Tutto ciò, tuttavia, non impediva a Napoleone di circondarsi della più eccitante e lussureggiante vita di corte, fatta anche di intrecci amorosi, più o meno segreti, magari passando con disinvoltura da una alcova all’altra. A parte le rinomate “cocotte”, primeggiavano ben note figure muliebri appartenenti alla pregressa riesumata nobiltà d’antico rango o a quella di recente investitura.
La relazione più longeva e intima fu senz’altro quella con Giuseppina de Beauharnais, mentre il matrimonio con Maria Luisa d’Austria fu, più che altro, un intreccio di opportunismo diplomatico legato alla speranza di assicurare un avvenire dinastico al suo casato imperiale.
I rapporti con la sua numerosa famiglia erano affatto tranquilli ed emergevano spesso motivi di critici contrasti a fronte dei quali non gli rimaneva che sfoderare il suo irruento e drastico carattere che sfociava spesso in una sorta di insolenza affatto raffinata. Era lui a comandare e nessuno, ne i suoi subordinati “attaché” e neppure la sua energica madre, doveva azzardarsi a contrastarlo.
Tuttavia il “nepotismo” più sfacciato predominava sulla scena della corte napoleonica e si estrinsecava mediante l’assegnazione al parentado del potere nei territori occupati e del diritto alla spartizione delle immense ricchezze sottratte ai vinti.
Qualche esempio? Il fratello Giuseppe fu inviato a governare la Spagna, a Gioacchino Murat (marito di Carolina Bonaparte) fu concesso il Regno di Napoli, Girolamo Bonaparte ottenne la Vestfalia, il figliastro Eugenio Beauharnais fu spedito a Milano come vice Re d’Italia e, infine, Luigi Bonaparte ottenne il Regno d’Olanda.
Nella conduzione delle sue battaglie e dei suoi intrighi di potere, spesso basati sul ricatto e sulle ritorsioni militari, non si poneva scrupolo alcuno, ammesso che la sua natura gli permettesse di averne.
Il suo pensiero, sia a livello personale che come principale esponente dello Stato francese post rivoluzionario, si estrinsecava nella velleità di ottenere, con le buone o con le cattive, un sempre maggiore potere fra le Nazioni che allora primeggiavano in Europa.
Non si rese mai conto, di massima, che l’altra faccia delle sfrenate ambizioni da lui poste in essere, fosse rappresentata dalle centinaia di migliaia di soldati condotti a morire per soddisfare incontenibili mire di conquista, oltre che per alimentare la sua sprezzante ed esorbitante voglia di “grandeur”.
Per raggiungere la vittoria poneva in campo ogni energia, ogni tattica e s’avvaleva delle sue indubbie doti di provato stratega.
Ciò, di massima, lo poneva in vantaggio rispetto ai suoi nemici.
I campi di battaglia, però, erano cosparsi da una infinità di cadaveri, sia appartenenti alle sue truppe che agli eserciti avversari.
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Quelli, in verità, furono i decenni in cui anche parecchi non meno efferati suoi “avversari” appartenenti a varie nazionalità – acerrimi nemici – non si soffermavano più di tanto sul fatto che milioni di uomini fossero spietatamente immolati nei campi di battaglia. Chi più e chi meno puntavano essenzialmente a dominare gli scenari europei di inizio ottocento, in gran parte appannaggio di variegate ultrapotenti monarchie assolute. Per costoro, oltre che per lo stesso Napoleone, la vita del fantaccino di bassa forza contava ben poco. Si dice che all’epoca s’avesse maggior rispetto per un quadrupede che per un soldato. In definitiva, né il Bonaparte né i suoi accaniti avversari, dimostravano di avere un briciolo di umanità. Vigeva un sistema e una mentalità che, avulsi dai basilari valori di ogni società civile, seguitava ad avvalersi di schemi coercitivi che trasformavano in veri e propri ghetti i luoghi ove vivevano vaste comunità, a quell’epoca tutt’altro che progredite. Popolazioni dalle quali, peraltro, veniva reclutata la gran parte della “truppa” destinata a formare i reggimenti e i battaglioni degli eserciti condotti in battaglia e molto spesso a morire. La storia fa sapere come le reclute fossero forzatamente “coscritte” per periodi addirittura quinquennali e fossero “immatricolate” non come uomini ma come semplici strumenti di guerra. Esseri umani inquadrati in rigidi reparti militari che lasciavano ben poco spazio a comportamenti soggettivi o a esigenze personali di sorta. Esseri umani avviati senza scrupolo alcuno verso i campi di battaglia dei vari conflitti incentivati da assurde velleità egemoniche.
I signori della guerra agivano, di massima, da despoti senza anima e senza coscienza, seminando terrore e morte e affidando la loro tracotanza alla violenza dell’impatto bellico, oltre che ai più subdoli raggiri.
L’ambigua diplomazia, di contro, era confinata in settori marginali ove disimpegnava compiti più formali che sostanziali, del tutto ininfluenti rispetto alle velleità di dominio dei capi. Era relegata, di fatto, in una sorta di dorato Eden.
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Sarebbe prolisso redarre una seppure sintetica rassegna delle tante cruente lotte, vinte o perse, svoltesi in ogni spazio d’Europa, oltre che fra le dune desertiche del lontano Egitto (ove abbandonò al suo destino una intera armata), nei gelidi territori russi 2/3 dei suoi uomini non tornarono in Patria ne da vivi ne da morti (400/mila deceduti e 100/mila prigionieri), nei vasti e infidi mari, non solo europei, in cruente battaglie navali contro la strapotente Royal Navy inglese, furono perse circa 200 navi di linea e vascelli vari, con decine di migliaia di morti fra gli equipaggi.
Il suo proponimento di invadere anche l’Inghilterra si infranse, tuttavia, con la cocente sconfitta della flotta francese a Trafalgar (21 ottobre 1805), ancora una volta ad opera dell’Ammiraglio Lord Horatio Nelson, Visconte d’Inghilterra, Duca di Bronte che ivi, però, trovò ad attenderlo la morte, materializzatasi per mano di un semplice fuciliere francese che, sparando da un pennone della nave “Redoutable”, lo colpì senza scampo.
Quando la curva ascensionale della strabiliante ascesa di Napoleone verso le più alte vette del potere politico e militare s’incrinò, facendolo precipitare verso la clamorosa sconfitta di Lipsia (ottobre 1813), i coalizzati avversari lo relegarono con tutti gli onori nella accogliente Isola d’Elba.
Non rassegnato ad una ingloriosa fine, riuscì ad evadere dalla dorata prigione, riconquistò per 100 giorni il potere ma, alla fine, dopo il disastro di Waterloo (18 giugno 1816), non poté evitare d’essere definitivamente esiliato nella lontana isola di Sant’Elena, poco più che uno scoglio fosco e tetro sperduto nella vastità dell’Atlantico. Una attutita ma dura cattività che doveva condurlo alla morte, il 5 maggio del 1821.
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Neppure nella ristrettezza del suo doppio esilio, Napoleone seppe mai rinunciare alla boria del comando e al formalismo araldico di cui s’avvaleva non per diritto ereditario ma per il fatto d’essersene prepotentemente auto insignito.
“… Fu vera gloria? … Ai posteri l’ardua sentenza”, …. ha lasciato scritto il Manzoni nella sua preziosa e toccante lirica sul “5 maggio” di quel 1821, data che segnò la fine terrena del controverso, sbalorditivo e per molti versi indefinibile, “Imperatore dei Francesi”.
Quel che c’è di certo è che gli si può attribuire la veste di precursore di parecchi “autocrati”, succedutisi nel tempo in varie Nazioni dei cinque Continenti. Autocrati, talvolta di origine popolare, più o meno casualmente pervenuti alle alte vette del potere e magari poi, dimenticando le proprie origini, divenuti tiranni più o meno riprovevoli. Non certamente illuminati governanti dei propri popoli.
Da allora parecchia acqua è passata sotto i ponti ma sembra che taluni aspetti della “forma mentis” di stampo militarista, oggi invalsa negli ambienti decisionali delle ben poco affidabili odierne “superpotenze” ricalchino i concetti espansionistici dell’era napoleonica e siano più che altro protesi verso l’abominevole aspirazione a dominare egemonicamente, anche cruentemente, il Pianeta. Ne sta andando di mezzo il futuro stesso dell’umanità.
Nell’ambito della galassia politico militare di parecchi stati dominanti e influenti, prevale un errato modo di concepire i rapporti fra le nazioni, a parte il fatto che la vita umana seguita ad essere considerata alla stregua di un valore marginale.
P.S. Alcune notizie e informazioni di cronaca storica, riguardanti il presente testo, sono state tratte dalla edizione tascabile (cm.9 x 6) “Storia di Napoleone – compilata sulle di lui proprie memorie da LEON. GALLOIS”, data alle stampe in Napoli nel 1832 (appena 11 anni dopo la morte) dagli editori R.Marotta & Vanspandoch, della quale posseggo una copia autentica.