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Muti: «Tra noi affetto e stima Ci univa un forte antifascismo»

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«Lui era il nordico taciturno, io il meridionale che raccontava storielle»

di Valerio Cappelli

d Le nostre idee non erano lontane e non scivolavamo in battibecchi politici d Credevamo nel valore della musica con la «m» maiuscola per migliorare la società
«Che tristezza, abbiamo perso un gigante», sono le prime parole che Riccardo Muti dice sulla morte di Maurizio Pollini, che apprende mentre è sul treno, diretto a Roma, dove stasera esegue la Sinfonia che l’americano William H. Schuman nel 1969 scrisse per le vittime dell’eccidio nazista del ’1944 alle Fosse Ardeatine.
Qual è stata la grandezza di Pollini?
«Era un musicista completo, diresse anche un’opera, La donna del Lago di Rossini a Pesaro. Non parlammo mai di quella sua esperienza. Conosceva a memoria, in ogni dettaglio, la Messa Solenne di Beethoven, che ho diretto per la prima volta tre anni fa, dopo averla studiata per 50 anni».
Quando cominciò la vostra collaborazione?
«Alla fine degli Anni 60, ai Pomeriggi Musicali. Poi proseguì a Philadelphia, alla Scala, a Ravenna, a Chicago».
Nell’immaginario, il vostro non sembrava un sodalizio artistico così stretto.
«Agli occhi degli altri la nostra non appariva come una frequentazione quotidiana. Ma abbiamo avuto un rapporto di affetto e di ammirazione reciproca. Sta scomparendo una grande generazione di musicisti, quella degli Anni 40, che ha portato il nome dell’italia alto nel mondo».
Pollini rimanda a Chopin e alla musica d’oggi.
«Si pensa sempre al giovanissimo Pollini vincitore del concorso Chopin a Varsavia. Ma non era uno specialista di questo o quello. Quando suonava la Sonata n.2 di Boulez, nella seconda parte, ci metteva la stessa passione. Anzi, si infervorava e infiammava ancora di più. E’ stato un esploratore delle possibilità timbriche del pianoforte».
Maestro del raziocinio e
del controllo. Però quando perdeva la calma…
«Se c’era qualcosa che non gli andava bene scoppiava di collera, diventata rubizzo, lì altro che raziocinio».
Alle prove dei concerti parlavate molto?
«Lui era il nordico che restava taciturno e riservato, io il meridionale che raccontava storielle per metterlo di buonumore e farlo sorridere».
Lui di sinistra, lei liberale…
«I giornali facevano quei discorsi. Non è così. Eravamo entrambi fortemente antifascisti. Parlavamo di cose sociali, non scivolavamo su battibecchi politici. Le nostre idee, credetemi, non erano lontane, penso alla tirannia, alle diseguaglianze, alla povertà. La pensavamo allo stesso modo sulla necessità della musica con la “m” maiuscola per migliorare la società».
Indossava il frac e diventava Pollini. Fuori dalle sale portava giacche quasi stazzonate.
«Era immerso nei suoni, non ha mai suonato per un ritorno personale. Oggi si impongono musicisti quasi clowneschi sul palco. Pollini invece ha mantenuto quel rigore e quella severità che avevano Serkin e Benedetti Michelangeli, Gilels e Sviatoslav Richter. Fa parte di quell’olimpo».
L’ultima volta che vi siete visti?
«A novembre, alla Fondazione Prada di Milano, per la mia Norma con la Cherubini. Lo vidi tra il pubblico e scesi dal podio per abbracciarlo. Mi disse: non pensavo che una partitura così apparentemente semplice fosse così complessa. Quell’abbraccio diceva tutto».

Fonte: Corriere