Claudio Velardi
Salis e Vannacci sono solo gli ultimi casi, estremi per origini e motivazioni, di un fenomeno che parte da lontano, che ha ormai assunto dimensioni imbarazzanti, e parla – più di mille comizi anticasta – dell’inesorabile esaurimento di una funzione di guida e orientamento della vita pubblica da parte della politica. Perché questo processo si sia messo in moto è cosa da approfondire e studiare, oggi “il Riformista” lo fa affrontando il tema da diversi, qualificati punti di osservazione. Ma il fatto è indiscutibile, come la sua conseguenza principe: agli occhi dell’opinione pubblica, una politica che, invece di esporre al giudizio degli elettori il meglio di sé, preferisce nascondersi dietro simboli luccicanti o alludenti che vengono da altri mondi, sta semplicemente segando l’albero su cui è seduta. Un comportamento insensato, autolesionistico, autodistruttivo. Come un negozio di ferramenta che espone in vetrina dei caciocavalli, o un barbiere che vi si presenta dicendo: “Piacere, sono un accordatore di pianoforti”.
Perché lo fa? Perché la politica avverte questo bisogno intimo e perverso di occultarsi, di travestirsi? La risposta è obbligata, inevitabile anche da parte di chi come noi ama la politica di un amore antico, sviscerato. Perché si vergogna, perché si sente in colpa, perché avverte di non riuscire a corrispondere a bisogni, aspettative, speranze. E non si rende conto che, nascondendosi, non fa che aumentare ogni giorno di più i sospetti e le distanze di coloro cui si illude di trasmettere subliminali messaggi di pacificazione.
Peggio mi sento, poi, quando questi messaggi vengono spacciati, motivati e infiocchettati come “aperture”: alle professioni, alle categorie produttive, agli intellettuali, alla società civile (ahia, avverto un dolore al solo digitare l’espressione). In quei casi si raggiungono vette stellari di ipocrisia. Perché le aperture, se fossero davvero tali, dovrebbero poi tradursi in scambi e condivisioni di esperienze e culture, promozioni e assunzioni di responsabilità in organismi di partito o in ruoli di governo dei bellimbusti della “società civile” (ariahia), per non palesarsi solo come operazioni farlocche, di facciata. Ma, a memoria, è difficile ricordare anche solo qualche innesto riuscito di esterni dentro le strutture di cemento armato dei partiti.
D’altronde, c’è una controprova invincibile dell’inconsistenza del “marketing dell’apertura”. Prendete un partito a caso, e misurate – anche adesso, in vista dell’appuntamento europeo – chi più di altri va in cerca di aperture nelle proprie liste. Sono quelli che arrancano, quelli che hanno bisogno come il pane di qualche 0 virgola in più. Un partito in ascesa, un movimento che ha ambizioni se ne fotte della società civile, i suoi leader ci mettono la faccia. È quando entrano in scena nani e ballerine, influencer, generali e martiri, che la politica muore. L’elettore lo sa.
Fonte: Il Riformista