di Claudio Negro
I dati del mercato del lavoro relativi al mese di ottobre sono ottimi, ma si accende qualche spia di allarme relativa soprattutto al fenomeno del mismatch tra domanda e offerta. Per mettersi al riparo da problemi futuri, per il Paese sarà cruciale promuovere (con i giusti mezzi) il binomio produttività-contrattazione
Claudio Negro
Solo cose belle (come avrebbe proclamato Carosello) nel report Istat sull’occupazione relativo al mese di ottobre. Come del resto ormai da qualche mese, leggendo le tabelle e confrontandole con le serie storiche, si incontra tutta una serie di nuovi record: innanzitutto, il tasso totale di occupazione tra la popolazione in età da lavoro, che tocca il 61,8%, con 23.694.000 occupati (entrambi dati record). Record anche per il tasso di occupati maschi (70,8%) e soprattutto per l’occupazione femminile: 10.017.000 lavoratrici, per un tasso pari al 58,1%. Vale la pena notare che è dal primo trimestre del 2021 che il tasso di occupazione sale costantemente con una progressione quasi geometrica.
Un altro indicatore, perfino più significativo di quello sull’occupazione, è il tasso di attività, cioè sulla somma delle persone che cercano lavoro e quelle che già sono occupate: un dato che dice quanto sia alta la partecipazione al mercato del lavoro. Anche in questo caso abbiamo un record, 76,1%. Specularmente (ma non è così ovvio come potrebbe sembrare) rileviamo un calo significativo del tasso di inattività (persone che non lavorano e non cercano lavoro), anche in questo caso un primato: 32,9%. Infine, il tasso di disoccupazione: a ottobre 2023 è in lieve crescita, come esito dell’aumento di persone che escono dall’inattività e cercano lavoro e della domanda da parte delle imprese, che è inferiore all’offerta. L’insieme di questi valori parla di un sistema ancora in crescita, e che soprattutto è ancora credibile per interpretare il mercato del lavoro.
È tuttavia probabile che nei prossimi rilievi Istat i dati non siano altrettanto positivi: la congiuntura economica (e non solo italiana) tende a rallentare dopo l’esplosione post-COVID, in parte fisiologicamente e in parte per choc esterni. Si rende allora opportuna al proposito un’osservazione: la crescita dell’economia italiana in tutti suoi parametri (PIL, expo, produzione industriale, occupazione, ecc.) è stata generata dal rimbalzo economico planetario dopo la pandemia, particolarmente favorito in Italia dal traino di settori ad alta intensità (e bassa stabilità) di manodopera, come il turismo-ristorazione-alberghiero e dalla duttilità dell’industria manifatturiera. Sciocco è rivendicarla e attribuirla a particolari interventi di politiche promosse dai governi più recenti, sostanzialmente consistenti in sgravi fiscali e/o contributivi. Il rapporto annuale INPS 2023, ripreso da LaVoce.info, mostra i risultati delle misure di agevolazione: complessivamente, i contratti agevolati aumentano da circa 1 milione nel 2020 a circa 2,207 milioni, con un impiego di risorse pubbliche nel 2022 pari a circa 7,5 miliardi. Sia nel 2021 sia nel 2022, circa 1 attivazione su 4 è agevolata, considerando anche le trasformazioni a tempo indeterminato.
Il punto è: quanto hanno spostato questi interventi rispetto alla spontaneità del mercato? Non parrebbe moltissimo: Decontribuzione Sud (30% di esonero contributivo) ha prodotto un +10% di assunzioni nelle provincie al confine dell’area rispetto a quelle al di là: un incremento ovviamente positivo ma marginale, rispetto a una crescita occupazionale che, nei territori considerati, ha sfiorato il 40%. Esonero Giovani (100% di esenzione contributiva per 36 mesi) ha prodotto una crescita marginale tra il 5% e il 15%, ma in un contesto in cui le assunzioni aumentavano fino al 130%.
Un altro aspetto positivo rilevato dall’Istat è quello relativo al lavoro “precario”, ossia quello a termine nelle sue varie declinazioni: i contratti a tempo determinato in essere scendono ormai stabilmente sotto i 3 milioni del 2021 e 2022, pari al 15,6% dei lavoratori dipendenti. Dato, questo, che fornisce due indicazioni opposte ma non incompatibili: le imprese tendono a stabilizzare i dipendenti più utili (non necessariamente coincidenti con quelli più qualificati) per far fronte alla tendenza, per la verità in Italia non dirompente ma comunque presente, dei lavoratori a dimettersi perché hanno trovato un posto di lavoro meglio pagato, o più rispondente alle loro esigenz, quali che siano. Secondo, fisiologicamente le assunzioni a termine aumentano quando le imprese scommettono sulla crescita e diminuiscono nella situazione opposta; secondo il Centro Studi Confindustria sia la curva del PIL sia quella degli investimenti è destinata a rallentare nel 2024 e il livello di occupazione a stabilizzarsi, e queste prospettive inducono a prudenza le imprese circa il fare nuove assunzioni.
Ma questa situazione, apparentemente contingente, induce a considerare un altro aspetto della questione: quello per cui un’alta domanda di lavoro resta in buona parte insoddisfatta nonostante un’alta offerta, rappresentata in primo luogo dal numero dei disoccupati (1.998.000) ma potenzialmente anche dai NEET, cioè giovani tra 15 e 29 che non lavorano e non studiano (circa 2.000.000) e dagli “scoraggiati” (coloro che non cercano lavoro poiché convinti di non trovarlo, circa 1 milione e 100mila. È il fenomeno noto come mismatch, che in Italia è puntualmente monitorato dall’Osservatorio Excelsior del sistema Unioncamere, che si basa sulle comunicazioni aziendali riguardo alle assunzioni previste. Per il trimestre novembre 2023 – gennaio 2024 le imprese intendono fare 1.300.000 assunzioni, ma valutano che il 48% saranno di difficile o impossibile realizzazione. Attenzione, non si tratta di professionalità rare ed elevatissime: la categoria che presenta più difficoltà di reperimento (tra i 52% e il 68%) è quella degli operai specializzati e conduttori di impianti, che costituiscono quasi la metà della manodopera necessaria, mentre quella di dirigenti e professioni intellettuali ha difficoltà di reperimento tra il 33% e il 46%. È importante notare che perfino nella categoria delle professioni non qualificate (circa il 15% della domanda) la difficoltà di reperimento tocca il 37%. Non è un trend nuovo, ma sta crescendo senza sosta: il tasso di posti vacanti nelle imprese è costantemente salito da poco meno dell’1% di inizio 2016 fino al 2,2% di fine 2022 (con l’eccezione ovviamente del periodo di lockdown). A questi dati viene obiettato che i tassi di posti vacanti sono anche più alti in alcune economie sviluppate dell’UE: in Germania per esempio siamo al 4,7% nei servizi e al 2,6% nell’industria, e in Olanda ancora di più. Ma si tratta di Paesi nei quali il tasso di disoccupazione è quasi frizionale e quello di inattività molto basso, quindi il mismatch è da attribuire essenzialmente all’eccesso di domanda rispetto a un’offerta scarsa. Ben diverso il nostro caso, nel quale una domanda di lavoro quasi compulsiva corrisponde a un’offerta di lavoro disperata che non riescono a incontrarsi.
Un problema strutturale, che non si può pensare di risolvere facendo appello alla spontaneità del mercato, e neanche ricorrendo a scorciatoie, come quelle cui, come detto all’inizio, sembra interessato il governo Meloni, ossia incentivi economici sul lato del costo del lavoro: come già parzialmente dimostrato dai dati del 2021 e 2022, a fronte di questo tipo di interventi “il cavallo non beve”, o beve molto poco. E questo per un motivo ben fondato. Il costo del lavoro, che per molti anni è stato un freno alla crescita, è calato sensibilmente: è ora di 29.400 euro per addetto, a fronte di 30.500 della media UE, quando nel 2008 era di 3.600 euro più alto; nel 2008 era di 2.700 euro inferiore al costo/addetto tedesco, mentre ora è inferiore di 9.000 euro; nei confronti della Francia era 6.000 euro e ora, sempre stando ai dati Eurostat, è a quota 11.400. Sulle retribuzioni vi sarebbero altre considerazioni da fare, ma occorrerebbe più spazio. Però è evidente anche a un esame superficiale che, da un lato, è stato proprio il costo del lavoro in discesa a favorire (ovviamente insieme ad altri fattori) la crescita monstre del dopo COVID, soprattutto nel comparto dei servizi e delle costruzioni, dove i salari sono più bassi; così come l’impaludamento della dinamica retributiva deprime il lavoro soprattutto nelle fasce più professionalizzate. Tentativi di affrontare questi due problemi con ulteriori sgravi fiscali e/o contributivi, anziché affrontarli alla radice, rischiano di essere patetici e destinati solo alla propaganda.
Il mismatch, ben lungi dal poter essere considerato fisiologico in queste dimensioni e con questa dinamica di crescita, è la spia di una situazione che fa ormai fatica a crescere ancora e rischia di andare in crisi non appena gli indicatori economici generali dovessero flettere. Promuovere il binomio produttività-contrattazione e mettere in campo politiche attive del lavoro adeguate, e non imitazioni burocratiche, è la strada per rendere efficiente il mercato del lavoro ed evitare che i migliori professionisti scappino all’estero.
Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali