Siamo all’ultima stazione di Cosa Nostra, quella di palchi e cantanti. Ma per i professionisti dell’antimafia è sempre emergenza
Il Foglio Quotidiano
marzo 2021
Riccardo Lo Verso
Si è giunti allo stadio neomelodico di Cosa Nostra. Ultima tappa di un lungo percorso, segnato da vittorie e sconfitte che bruceranno per sempre. Un tempo c’erano i morti, centinaia di morti ammazzati per le strade. Poi arrivò l’orrore delle stragi con i corpi di giudici e poliziotti ridotti a brandelli dal tritolo e con esse la reazione veemente dello Stato.
I Riina, i Provenzano, i Brusca e quelli come loro non ci sono più. Morti o arrestati. Anziani boss scarcerati e picciotti dai cognomi evocativi tentano il colpo di reni in una Cosa Nostra che arranca. Convocano la cupola nella speranza di serrare i ranghi e finiscono, tutti, puntualmente in carcere.
Ma la fiamma dell’emergenza va tenuta perennemente accesa. Analisti, giornalisti e antimafiosi di mestiere si cimentano in una eterna rilettura del passato, tra trattative che perdono pezzi, servizi segreti deviati, traditori di Stato che restano sempre senza volto e pentiti che si guadagnano la pagnotta con rigurgiti di memoria fuori tempo massimo. Forse è la prospettiva che andrebbe cambiata se davvero si vogliono trovare le risposte che mancano.
Oppure, come è giusto che sia, si guarda al presente, ma non ci si rassegna. Nell’ultima trincea dell’antimafia ci si confronta con boss che esercitano il potere autorizzando gli ambulanti a vendere frutta e verdura o stabilendo la scaletta dei concerti dei neomelodici in piazza.
Rimasugli di mafia per merito delle continue batoste, eppure c’è chi vede nei testi delle canzoni pericolosissimi messaggi mafiosi. Manco fossero i pizzini che Bernardo Provenzano, vecchio e malconcio, scriveva a macchina nel suo ultimo covo nelle campagne di Corleone. Senza la mafia non esisterebbe l’antimafia e allora la mafia va cercata e trovata anche laddove non c’è.
Continuando così a qualcuno, prima o poi, verrà davvero l’idea di proporre una modifica del codice penale. Articolo 416 bis: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione, della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri o per promuovere la canzone neomelodica napoletana”.
Una rivisitazione compulsata dalla narrazione, mediatica e scandalistica, che ha trasformato i palchi allestiti per i concerti nelle borgate delle città in luoghi di altissima simbologia mafiosa. Stonehenge contemporanei che il tramonto non carica di suggestioni e colori, ma di decibel, fumo delle interiora cucinate sulla griglia rovente, calia e semenza, zucchero filato e fiumi di birra.
Suvvia, altro non sono che pacchiane feste di piazze. E del cattivo gusto la mafia di oggi, la mafia dei rimasugli, si alimenta.
Il palco come nuovo tempio di Cosa Nostra serve ai santoni dell’antimafia, che altrimenti dovrebbero impegnarsi su altri fronti. Più comodo proseguire nel perenne richiamo delle gesta orride dei padrini di un tempo, da don Saro Riccobono da Partanna al principe di Villagrazia Stefano Bontade, dai corleonesi di Totò Rina, che marciarono su Palermo e seminarono morte, agli scappati in America per salvarsi la pelle durante la guerra di mafia degli anni Ottanta.
Archiviare definitivamente quella stagione significherebbe dovere correre il rischio di ammettere che se quella mafia è stata sconfitta – perché la storia dice che è stata spazzata via – e le macerie sociali sono ancora sotto gli occhi di tutti vuol dire che non c’è solo la mafia da combattere.
Non solo, ma anche la mafia. Che resiste, condiziona la vita di grosse fette di popolazione, ma inserirla per forza anche quando non c’è è diventata una moda che sconfina nel grottesco.
Senza mafia la narrazione mediatica si affloscia, perde l’appeal necessario per finire in prima pagina e in prima serata. Chi sostiene il contrario non può essere tacciato di negazionismo, a meno che non ci si spinga a credere nell’esistenza di una nuova e potentissima cosca, quella dei neomelodici, a cui attribuire, ed è già accaduto, la patente di mafiosità.
Come si affiliano i nuovi boss? Magari una dedica o una frase strappalacrime nel testo di una canzone hanno soppiantato il santino, l’immaginetta sacra che brucia sul palmo della mano nell’obsoleto rito della punciuta e della goccia di sangue, mentre il nuovo uomo d’onore recita la formula del rito.
I cantanti neomelodici, molti ma per fortuna non tutti, si nutrono dello stesso humus che consente ai mafiosi di borgata di resistere. Addirittura di essere promossi da malacarne al rango di boss. Ed è per il comune substrato culturale che i neomelodici fanno a gara per accreditarsi agli occhi di quel mondo, ritagliandosi con il coltello fra i denti uno spazio ai confini della malavita. Senza l’amicizia del boss nessuno li vuole sul palco. Pane e mafia è il cibo che sazia chi campa di questo mestiere.
Come il catanese Niko Pandetta, le cui quotazioni musicali sono in continua ascesa. Qualche settimana fa ha comunicato ai suoi fan, con un immancabile post su Facebook, di essere stato inseguito da una macchina tanto da perdere il controllo della sua auto. Un brutto incidente che in Pandetta ha fatto crescere la convinzione di essere perseguitato, preso di mira. Da chi? Alla luce della sua certezza il cantante si sarà fatto un’idea più o meno precisa di chi potrebbe essere stato e sarà andato certamente a riferirlo in commissariato. Parlare con un poliziotto non gli rovinerà la reputazione. Stando alle sue ultime uscite, infatti, sostiene di avere preso le distanze dal suo passato burrascoso, specie dopo che un sindaco di una città del Nord, Bollate, gli aveva cassato un’esibizione già programmata.
Certo Pandetta resta sempre – non lo rinnega e nessuno gli chiede di farlo – il nipote del boss catanese Turi Cappello detenuto da vent’anni al 41 bis, ma la parentela non è un reato. E non lo sono neppure i post di dolore per la morte di un amico ammazzato nel rione Librino, periferia catanese, né i riferimenti ai poveri detenuti al carcere duro e agli infami che non rispettano il vincolo dell’omertà, caposaldo dell’organizzazione Cosa Nostra.
Per riconquistare il pubblico del Nord Pandetta potrebbe seguire il consiglio di un suo carissimo amico palermitano. Quel Jari Ingarao, figlio di un boss ammazzato dalla mafia nel 2007, che le recenti cronache giudiziarie indicano fra i personaggi che meritano rispetto al Borgo Vecchio, quartiere popolare a due passi dalle vie dello shopping palermitano.
Ingarao sembra uscito dal film di Franco Maresco “La mafia non è più quella di una volta”, pellicola che ha vinto il premio speciale della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia. Ha ragione il regista quando dice di avere avuto la sensazione di essersi spinto in un territorio in cui la distinzione tra bene e male, tra mafia e antimafia, si è azzerata e tutto precipita in uno spettacolo senza fine e senza senso. Un vortice che rischia di risucchiare le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Alle commemorazioni sono tutti “amici di Giovanni e Paolo”, cresciuti con il loro metodo di lavoro. Il momento del ricordo per molti resta genuino mentre per altri è frutto di una manipolazione. Persino il fronte antimafia si è spaccato e alcuni parenti delle vittime delle stragi hanno smesso di presenziare alle cerimonie. Hanno le scatole piene delle passerelle a buon mercato. Cercano giustizia ormai da decenni.
Maresco affida al personaggio di Ciccio Mira, impresario di concerti neomelodici, il compito di frantumare le certezze, di disorientare il pubblico. Già protagonista della precedente pellicola “Belluscone”, dove era strenuo difensore dei costumi mafiosi, l’impresario osa organizzare un concerto in onore di Falcone e Borsellino.
La mafia stracciona e neomelodica che diviene antimafia da avanspettacolo. L’antimafia come tratto esistenziale che in quanto tale esiste solo se c’è la mafia, che va cercata e trovata anche a costo di divenire grotteschi, nella certezza che tanto un rigurgito di mafiosità a buon mercato salta sempre fuori, lo si trova persino nel testo di una canzone neomelodica.
Qualche mese dopo l’uscita del film di Maresco la realtà superò la fantasia. Pandetta dedicò una canzone allo zio Turi Cappello “purtroppo al 41 bis”, e rivendicò la sua scelta in tv. Ed ecco che Ingarao, impresario e mafioso di nuova generazione, consigliava a Pandetta di tatuarsi i volti di Falcone e Borsellino per ritrovare la verginità perduta e sperare nella clemenza del sindaco del profondo Nord.
Altrimenti sarebbe rimasto confinato al di qua dello Stretto, a Catania come a Palermo, dove la mafiosità resta un vanto. Bisogna piacere agli impresari che per scegliere i cantanti si rivolgono ai mafiosi, o sono essi stessi mafiosi. E allora via al repertorio dei “cari saluti allo zio Giovanni” che alla Noce, altro quartiere di Palermo, si godette affacciato al balcone sulla piazza l’ultimo spettacolo da uomo libero, dei baci indirizzati “a tutti quelli che stanno a villeggiatura”, e cioè in carcere. Il film di Maresco ha finito per assumere un valore documentaristico, più che narrativo.
Di fronte al dolore del lutto bisogna fare di più. La giovanissima e affranta Daniela dedicò una canzone allo zio Franco Inzerillo, soprannominato u nivuru, il nero, per via della sua carnagione scura.
Così cantava: “Zio Franco a Passo di Rigano stanno piangendo come se fosse calato l’incantesimo ci manchi tu… ricordo come se fosse ieri quando il dottore disse che non c’era niente da fare”.
Una canzone neomelodica per un boss della vecchia mafia, uno scappato. Una mesta dolorosità, una rivisitazione moderna dei canti funebri delle antiche prefiche che in processione ricordavano i momenti della vita del defunto. Non più canti e lamenti, ma canzonette neomelodiche sotto i riflettori di un palco di borgata.
Lo Zio Franco era parente di Totuccio Inzerillo, che nella guerra di mafia degli anni Ottanta credeva di poterla fare franca forte dei milioni di dollari accumulati con gli affari della droga. Ed invece i killer inviati da Totò Riina attesero che scendesse dall’appartamento di via Brunelleschi dove si era intrattenuto con una donna. Non fece in tempo a salire sulla sua Alfetta blindata. I kalashnikov sfigurarono il suo corpo.
La caccia all’uomo si spostò anche in America. Il 14 gennaio del 1982 un funzionario di Polizia del New Jersey ricevette una telefonata anonima. Una voce gli indicava di andare all’hotel Hilton di Mount Laurel perché c’era una bomba in una macchina. Ed invece nel portabagagli trovarono il cadavere congelato di un altro Inzerillo, Pietro. Gli Inzerillo furono confinati oltreoceano.
Era un’altra mafia per fortuna. Alcuni scappati hanno fatto via via negli anni rientro in Sicilia. Periodi più o meno lunghi di libertà e poi di nuovo tutti arrestati. Oppure morti, ma senza piombo. Ma volete mettere il valore evocativo di una canzone neomelodica per ribadire che il passato non passa manco quando si muore.
Quella mafia non c’è più, sepolta dagli arresti e dalla riposta dello Stato. Esiste un’altra mafia che arranca, ma che non va sottovalutata. Lo sanno per primi magistrati e forze dell’ordine che monitorano vecchi mafiosi, sin dal primo istante della loro scarcerazione, nuove leve e malacarne che si atteggiano a boss. Basta la dedica di una canzone per farli sentire importanti. Non ci sono, per fortuna, nuovi Totò Riina fra di loro.
Siamo all’ultima stazione di Cosa Nostra, quella dei neomelodici, su cui si è abbattuta, come per tutti, la maledizione del Covid che ha bloccato gli spettacoli e la sottintesa persecuzione che colpisce i buoni e i cattivi.
E poi c’è la maledizione dell’uomo, che è costata la vita a Piera Napoli, giovane mamma e artista neomelodica palermitana uccisa dal marito che ha infierito sul suo corpo con un coltello mentre era nel bagno di casa. Aveva 32 anni, ma questa è un’altra storia. Una storia di morte e dolore, l’ennesimo femminicidio.