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Preti che ballano sull’altare, vescovi in bicicletta fra le navate. L’indignazione per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi non è credibile. Ad aver banalizzato ogni riferimento al divino è chi avrebbe dovuto difenderlo

di Matteo Matzuzzi

La “riscoperta” cristiana dopo lo show parigino, l’invocazione di guerre culturali e lo sdegno dei vescovi. Fuori tempo massimo Scriveva il teologo Bouyer: “In un mondo finalmente consacrato nella sua stessa profanità, Dio è diventato il vocabolo più vuoto di significato” Anni passati a rendersi appetibili al mondo nell’utopia di contare qualcosa hanno portato la Chiesa all’irrilevanza. Altro che “valori” da difendere Il Cristo senza braccia e a testa in giù lodato dal vescovo di Innsbruck è meno horror di quanto visto nella cerimonia inaugurale dei Giochi?
La riproposizione in chiave per così dire moderna, fluida e contaminata (citazione da Repubblica) dell’ultima cena di Leonardo ha destato la bolla social che indefessa era rimasta attaccata al video dopo quasi quattro ore di cerimonia lungo la Senna, per l’inaugurazione dei Giochi olimpici. Qualcuno ha cercato di aggiustare la rotta, spiegando che trattavasi del Banchetto degli dèi e non dell’ultima cena. Che c’era Dioniso e non Gesù. Si sono dimenticati però di avvertire la protagonista, quella che faceva il cuoricino con le mani: “Avevo i brividi, ero orgogliosa. Questa immagine della Cena, tutti pensano a questa scena religiosa ma è anche un messaggio. ‘Ci amiamo l’un l’altro, tutti sono accettati nella casa di Dio’. In effetti, su questa scena c’erano tutti i generi, tutti i volti, tutti i francesi. Fa molto parlare, ma la nostra Francia oggi è quella”. Commenti indignati, proteste vibrate – “Fatelo con i musulmani”, si leggeva – lo sguardo ammiccante della “Cristona” posizionata al centro del quadro finiva in tutte le timeline. “A qualcosa tutto questo male è giovato: dopo questa serata apocalittica, sono diventato credente”, ha detto Alain Finkielkraut. Conservatori che attaccavano Emmanuel Macron, che se ne stava al coperto sulla tribuna mentre la pioggia inzuppava l’ultraottantenne Mattarella (quando c’è da indignarsi, l’amor patrio torna sempre buono), cattolici militanti (per lo più americani) inneggiavano a Trump come giustiziere dello scempio, lui che come noto è salvo per intercessione della Madonna di Fatima che a Butler ha deviato la pallottola come con Wojtyla quaranta e più anni fa (secondo Ivanka, però, è stata la mano di mamma Ivana, dall’alto dei Cieli). Qualche sedicente ateo compariva per dire che quanto visto era disgustoso, si vedevano perfino bambini e pure un pezzo d’appendice scrotale – evidentemente l’immagine è stata vivisezionata con cura e somma attenzione. Altri invocavano addirittura l’intervento del Papa, se non proprio in presa diretta, quantomeno all’angelus domenicale. Sono intervenuti i Fratelli d’italia e come sempre Salvini, defensor fidei. Avvenire, il solitamente correttissimo quotidiano della Conferenza episcopale italiana, vergava un commento durissimo: “Se volevano stupirci con la loro proverbiale grandeur, beh gli organizzatori, registi, coreografi, i nani e le ballerine della cerimonia d’apertura di Parigi 2024 ci sono riusciti, ma niente affatto alla grande (…) Questa necessità ossessiva di sbandierare a ogni costo il vessillo della “diversità” e appendersi delle medaglie al collo che diventano delle ineleganti collane bisex da far luccicare in mondovisione”. I vescovi francesi, non proprio campioni in fatto di guerre culturali, hanno diffuso una Nota in cui chiarivano che “la cerimonia di apertura proposta dal Comitato organizzativo dei Giochi olimpici purtroppo prevedeva scene di derisione e di scherno del cristianesimo, che deploriamo profondamente. Pensiamo a tutti i cristiani di tutti i continenti che sono rimasti feriti dall’eccesso e dalla provocazione di certe scene. Vogliamo che capiscano che la celebrazione olimpica va ben oltre i pregiudizi ideologici di alcuni artisti”. Il vescovo di Fréjus-tolone, mons. Dominique Rey, ha diffuso un video in cui ammette quanto sia stato “doloroso vedere queste bestemmie durante la cerimonia d’apertura. Non accettiamo insulti. Invito ogni cristiano a entrare in un processo di riparazione e preghiera”. Proteste da un capo all’altro dell’oceano, presuli americani hanno manifestato tutto il loro sdegno in scritti, audio, podcast, blog. Sono rispuntate fuori perfino le radici giudaico-cristiane d’occidente e anche i monarchici hanno avuto da ridire per quella combinazione kitsch e horror fra la testa mozzata della regina Maria Antonietta e l’ennesima cannonata giacobina sparata contro la derivazione divina dell’assolutismo regio.
Ma è credibile tutto ciò? Da decenni il sacro – e il senso del sacro – è divenuto qualcosa di opzionale, un sovrappiù nell’occidente distratto. Qualche volta pure un retaggio di un passato che si vorrebbe seppellire in qualche museo o libro di storia. Oggetto persino di derisione. Un po’ come il gregoriano che qualche rarissimo prete dell’antico regime s’ostina a far cantare in chiesa, nonostante coriste della domenica e laici attivissimi spingano per il classico repertorio tardo anni Sessanta-settanta che s’ode a ogni messa nell’orbe cattolico.
Le chiese, da tempio di Dio, luogo di silenzio in cui pregare e ritrovarsi, sono sempre più una sorta di mega salone parrocchiale: c’è la messa, sì. Ma c’è molto altro. Un giorno diventa il teatro per un qualche incontro con un laico impegnato che parla di psicologia e arte. Quando va bene. Quando va male, magari sotto elezioni, ci si ritrova il parrocchiano “impegnato” che presenta le sue tesi per “il bene comune”. Oppure i dibattiti – sempre più frequenti – angosciati e angoscianti con cristiani lgbtq+ vessati, tra veglie di preghiera, alte riflessioni e commenti del parroco di turno che di solito chiede scusa. E che dire poi dei preti battaglieri, quelli che prima della celebrazione eucaristica addobbano l’altare con bandiere della pace (il fu don Gallo ci mise quella del Venezuela chavista, noto lido di pace e prosperità e, come s’è visto pochi giorni fa, di democrazia compiuta) o altri vessilli da giungla boliviana. Che riducono l’edificio sacro a casermone dove sfogare vecchi istinti d’antan, declamando il proprio catechismo così diverso da quello ufficiale fatto di rivendicazioni para sessantottine e ovviamente lontane da un minimo senso di sacralità, sia mai. C’è poi il parroco che pensa di attirare le giovani generazioni accorciando la messa e rendendola più attraente, tra battimani all’alleluja, battute di spirito in apertura e chiusura, rimbrotti ai parrocchiani insolenti o rompiballe, quelli che telefonano in canonica all’alba chiedendo l’orario della messa domenicale che da cinquant’anni è sempre alla stessa ora. E giù risate, quasi che quei quarantacinque minuti una volta ogni sette giorni siano la tortura suprema, peggio che farsi togliere un molare distesi sul lettino del dentista. Ci sono vescovi che entrano in chiesa in bicicletta e sacerdoti sullo skateboard tra le navate (e sempre tutti a ridere di gusto). In Europa centrale, dove le chiese si vendono perché non ci entra più nessuno – salvo che da morti, il più delle volte – e non si sa come mantenerle, sovente i celebranti si travestono da clown, organizzano spettacolini con suore che danzano (male), intermezzi leggeri pre e post consacrazione. Sia mai che qualcuno si distragga o s’addormenti. La messa che perde il senso del sacrificio ma diventa un intermezzo festivo, una specie di sobrio party da dopolavoro ferroviario. Insomma, perché mai dato questo contesto il regista della cerimonia d’apertura dei Giochi parigini, Thomas Jolly, avrebbe dovuto sentire nel suo intimo un richiamo al rispetto, a non calcare la mano su certi temi, a ricordarsi che quelle sono cose serie ben più del drapeau tricolore e che possono anche toccare nel profondo la coscienza di miliardi di persone? Magari, capitando qualche volta su un canale televisivo italiano, si sarà trovato davanti un prete che durante un matrimonio, in piedi dietro l’altare vestito dei paramenti liturgici, canta “Mamma Maria” dei Ricchi e poveri, saltando come una cavalletta dall’ambone al tabernacolo, invitando gli astanti a battere le mani come fosse a un concerto di Taylor Swift (o, data l’età, di Albano), tra le risate collettive e urla di gradimento e – magari – di commiserazione.
Scriveva alla fine degli anni Sessanta il teologo Louis Bouyer, che “questi cattolici che non vogliono più guardare che il punto omega, non possono conservare il Cristo che volatilizzandolo nella pura mitologia. Ciò che ha detto, che ha fatto, ciò che è e che rimane per sempre, non li interessa più. Simile a un simbolo tribale, privo di ogni contenuto proprio, e col quale sono pronti a siglare qualsiasi cosa, lo conservano solo per quel tanto che possa essere o apparire una novità. Non domandate – aggiungeva Bouyer in “Cattolicesimo in decomposizione” – a questi cattolici se ancora credono nella sua divinità: vi risponderanno con fierezza che loro sono al di là di questo problema; interessa loro soltanto l’avvenire dell’umanità, vale a dire ciò che può diventare la nostra umanità d’oggi, giunta all’età adulta, capace da sola di prendere in mano il suo destino (qualunque esso sia, poco importa che si tratti di un superuomo o di una scimmia con un occhio sulla punta della coda, purché sia qualcosa di nuovo o almeno lo sembri!)”. Insomma, scriveva ancora, “si è messa sulla bilancia la religione dopo aver venduto il sacro sul mercato. Ma come in un cristianesimo desacralizzato, non si sapeva più che cosa fare del Cristo e della fede, e ancor meno del Cristo della storia, in un mondo areligioso, finalmente ‘consacrato’ nella sua stessa profanità, Dio è presto diventato il vocabolo più vuoto di significato”. Anno, appunto, 1968. E’ passato più di mezzo secolo in cui anche sacerdoti, tanti sacerdoti, sostengono che il sacro non è una categoria evangelica e che, in fin dei conti, tutto ciò che aiuta a vivere da figli amati di Dio va bene. Relativizzazione suprema, dunque: siamo noi a valutare ciò che è accettabile e ciò che non lo è, criteri universali di valutazione non esistono più. Il foro interno è preservato, la coscienza – quella sì – è sacra. I vescovi s’indignano e richiamano al rispetto, ma sono fuori tempo massimo. Chiudono la stalla quando i buoi sono già scappati. Il cardinale arcivescovo di Montevideo, Daniel Sturla, ha scritto che “questa presa in giro della fede cristiana è l’espressione del suicidio collettivo della cultura un tempo cristiana. E’ un esempio di vuoto che altri riempiranno ma, come diceva Chesterton, il cristianesimo conosce la morte e la risurrezione”. Qualche anno fa, il vescovo di Innsbruck, mons. Hermann Glettler, balzò agli onori delle cronache per la sua passione artistica: fece recuperare una vecchia statua lignea del Crocifisso, ordinò che fossero staccate le braccia e che fosse appesa sul muro della chiesa dell’ospedale, a testa in giù. Ecco il nuovo orologio: un braccio segna le ore, l’altro i minuti. Fu data anche una spiegazione tecnica: “Man mano che il tempo scorre, le braccia formano le diverse costellazioni e il corpo statico del Cristo morto prende all’improvviso vita, il che rappresenta un momento di liberazione dalla croce e un superamento della stessa morte”. Per un po’ di tempo, lo stravagante presule fece anche proiettare sulla facciata della cattedrale la scritta “Finché Dio avrà la barba, io sarò femminista”. Frase di Katharina Cibulka, ideata per schernire “i simboli del potere patriarcale”. Elementi, orologio e slogan, che non avrebbero affatto sfigurato nella cerimonia parigina ideata da Jolly. Il Cristo smembrato sarebbe stato a suo agio con la Maria Antonietta senza più testa. Qui il buon gusto tanto deprecato a Parigi è garantito? Un Cristo disarticolato a testa in giù è meno horror di quanto visto nella cerimonia inaugurale dei Giochi? I valori cristiani da difendere quali sono? Perché mentre si scrivono comunicati scandalizzati e offesi contro il Dioniso color blu puffo e la donna barbuta ci sono sacerdoti, e neppure troppo distanti dalla Senna, che con stola arcobaleno sul camicione benedicono coppie (non singoli, coppie) dello stesso sesso nel nome dell’amore che tutto e tutti unisce e del fatto che Gesù non discriminava nessuno. Le reazioni lette e udite confermano semmai una difficoltà per la Chiesa di capire come va il mondo: il problema, ha scritto Rodolfo Casadei su Tempi, è che “a monte ci sta la negazione della permanenza dell’identità delle cose, l’affermazione della loro plasmabilità infinita e della fungibilità dei significati: non c’è più nulla in natura che sia naturale, ma non c’è nemmeno più nulla di artificiale e storico che debba rimanere nei limiti dell’identità e delle funzioni che chi l’ha creato ha assegnato nel corso della storia”. Si capisce allora che la polemica sulla parodia olimpica, fatta perfino di lettere indignate agli ambasciatori, è qualcosa di scoordinato e non sincronizzato. Aver passato anni e anni a rendersi appetibili al mondo nell’utopia di contare ancora qualcosa e di conquistare nuovo popolo fedele, anche quando il mondo andava in tutt’altra direzione rispetto alla via verso la Verità, abbracciando wokismo e sfinente politicamente corretto, ha portato all’irrilevanza. Non solo sul piano dei numeri e della “forza” della presenza cristiana nella società, ma anche nella sua presenza più culturale e dialogante. Quella dei cortili dei Gentili, per capirsi. O quella dei dibattiti d’inizio secolo fra Ratzinger e Paolo Flores d’arcais, personalità che più distanti non si potrebbe, ma che portavano centinaia di persone in teatri ad ascoltarli mentre discutevano di Dio. Una Chiesa che ha sempre più abbracciato le istanze del mondo per paura di scomparire o – peggio – d’essere tacciata di insopportabile spirito retrogrado, può indignarsi di colpo per le pensate di Jolly? Cosa c’è di strano, di imprevedibile o di sorprendente in tutto ciò? Niente. Non a caso, nel profluvio di reazioni al baccanale parigino, il Papa è rimasto zitto. Non per pavidità, come taluni (quelli che dicono di difendere i “valori cristiani” e poi non mettono piede in chiesa dalla cresima, ammesso che l’abbiano fatta) hanno sostenuto in questi giorni. Più banalmente, per la consapevolezza che si tratterebbe solo d’una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento. Non sarà un metaforico pugno papale tirato dalla finestra del Palazzo apostolico al termine d’un Angelus domenicale di fine luglio a invertire il corso di una storia che pare ormai ben segnata.

Fonte: Il Foglio