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L'ospedale di provincia dove i medici devono sdoppiarsi

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AGI –  Sono sei letti: un uomo è a pancia in giù, gli altri hanno il viso rivolto al soffitto, senza sguardo. Il fischio dei respiri avverte che c’è ancora tanta vita qui, straziata, ma vita.  

“La donna di 39 anni si sta riprendendo molto bene. Non ha altre patologie e le hanno tolto il tubo. Il resto dei pazienti, età media sui 60 anni, è in uno stato di sospensione. La loro situazione può evolvere in bene o in male”. Di loro sa tutto, tranne come andrà a finire, Francesco Cipriani, il capo infermiere della Rianimazione dove c’è la piccola terapia intensiva dell’ospedale di Cernusco sul Naviglio, a cui spetta un compito esorbitante: prendersi cura della Milano popolosa che si ‘allunga’ fuori dalla città, nella provincia trafitta in modo cruento dal secondo ‘giro’ del virus.

“Il momento devastante è quando li intubiamo”  

Cipriani mantiene il sorriso di chi ha fiducia nel proprio mestiere per tutta la conversazione, tranne quando deve ammettere “che c’è una cosa che ci taglia le gambe, a cui non eravamo preparati a marzo, non lo siamo ora e non lo saremo mai. E’ quel momento devastante in cui sono coscienti, prima che li intubiamo. Sanno che magari non si sveglieranno e allora ci lasciano in custodia messaggi d’amore per chi sta fuori, i familiari che, dopo averli accompagnati qui, sono costretti a ‘sparire’. Per le altre malattie, questa è una differenza importante nel nostro approccio, intubavamo ma immaginavamo come sarebbe andata in base all’esperienza clinica, qui navighiamo nell’ignoto. Quando qualcuno di loro si risveglia per noi – ecco, non mi viene una parola più adatta – è ‘ossigeno’, necessario per andare avanti”.

I medici devono sdoppiarsi tra il pronto soccorso e i ricoverati

In questa elegante villa che nel 1859 l’esuberante conte Ambrogio Uboldo destinò nel suo testamento a “ospedale per i bisognosi”, altri cinque posti per la terapia intensiva Covid, prima destinati ai cardiopatici, sono stati ricavati al piano sopra di questo, il secondo.

La particolarità dell’ospedale di Cernusco, uno dei Comuni affacciati sul naviglio fatto costruire dal duca Francesco Sforza per portare a Milano le acque dell’Adda, è che per una questione di numeri del personale, a differenza di quanto accade nei grandi ospedali, i medici devono ‘sdoppiarsi’ per contenere l’urgenza.

“I colleghi del reparto di Medicina da me diretto che si occupano dei ricoverati – racconta Lorenzo Vitali – spesso vanno a dare una mano giù in pronto soccorso, con un enorme dispendio di energie. A volte vanno lì anche in due-tre ad aiutare l’unico medico previsto dalle 8 alle 20, ci sono stati momenti che non bastavano mai ma nessuno è mai stato abbandonato”. Nella marea di primavera qui sono stati accolti pazienti provenienti soprattutto da Bergamo, ora c’è quasi solo Milano. 

 “Rispetto ad allora, abbiamo un numero maggiore di accessi di positivi a fronte di una minore gravità, almeno iniziale – continua Vitali .- Nell’ultimo mese la situazione del pronto soccorso è stata davvero critica. Nella normalità quando superiamo i venti accessi andiamo già in difficoltà ma ora siamo arrivati anche a quaranta persone. In questi ultimissimi giorni registriamo un leggero miglioramento, ma è presto per dire che siamo a una svolta”. Quella del Covid “è la prova più difficile dei miei 40 anni da medico e credo lo sia per tutta la mia generazione di colleghi”. 

Dentro questa fatica ci mette soprattutto “il dolore di non poter venire a contatto coi familiari pur sapendo che la prognosi dei loro cari è infausta. E’ molto duro da accettare per me. Considero una fortuna  invece non avere dovuto derogare ai nostri principi etici scegliendo se curare o no, com’è accaduto altrove. La terapia intensiva ci ha dato il suo supporto tutte le volte che lo abbiamo chiesto”.

“Nel cuore i volti di chi sembrava spacciato e ce l’ha fatta” 

 
Massimo Zamboni, che a 44 anni dirige la Rianimazione, ammette “la sensazione, a volte, che gli eventi siano superiori alle nostre possibilità”.

Lui riesce a non portarsi a casa il macigno emotivo delle lunghe giornate a fronteggiare la pandemia. “Quando chiudo la porta, non ne voglio più sapere fino all’indomani. Ho sempre fatto Terapia Intensiva, forse è un lato del carattere che ho sviluppato negli anni, sono un po’ più abituato. Ci sono colleghi, magari più anestesisti e rianimatori, che sono andati in burnout”.

Della trafila di volti passati nella sua Rianimazione, alcuni li ha impressi: “Quelli dei pazienti entrati in condizioni criticissime, sulla cui sopravvivenza nessuno avrebbe scommesso un centesimo, che sono usciti sulle loro gambe. E, purtroppo, quello di persone che sembravano stare meglio, tanto che ci eravamo sbilanciati coi familiari, che sono morte improvvisamente il giorno dopo. In questo tipo di patologia succede”.

Ci tiene a precisare una cosa. “Ora sento dire che intubare fa male. Lo sappiamo da 30 anni che fa male. Ma se una persona sta morendo per insufficienza respiratoria non possiamo fare altro che ventilarlo dando tempo al paziente per riprendersi. Molto, poi, dipende dalla reazione del singolo organismo”.
A questo medico alto e sottile, dai modi pacati, preme anche avvertire che “in Lombardia la disponibilità dei posti letti nelle terapie intensive è praticamente nulla. Sono occupati più di 900 posti, siamo in una situazione assolutamente fuori controllo. Il rischio è di trovarci di fronte alla scelta se non fare nulla o ventilarli in condizioni non idonee, magari in sala operatoria o nel pronto soccorso. Non c’è terapia intensiva perché c’è un monitor, ci vuole anche la presenza di un certo numero di medici e infermieri per paziente”.

Il direttore sanitario, Ferruccio Mazzucchi, annuncia che presto arriveranno i rinforzi selezionati attraverso un concorso, preziosi perché anche qui medici e infermieri si sono ammalati. “Io non glielo dico mai – confessa – ma quando penso a quello che fanno…”. Non riesce a finire la frase, ma non ce n’è bisogno.   

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Fonte: cronaca agi


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