«L’Occidente dosi dialogo e fermezza per un nuovo ordine mondiale di pace» dice Minniti. «Israele torni alla politica»
Aldo Torchiaro
Il filo rosso tra le due guerre? Putin è interessato alla destabilizzazione del mondo Israele deve ricostruire un sistema di alleanze nel mondo e con i paesi arabi
Marco Minniti, oggi presidente della Fondazione Med’Or, è stato ministro dell’interno con il governo Gentiloni, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel governo D’Alema I e II, sottosegretario al Ministero della difesa (governo Amato II) e viceministro dell’Interno (governo Prodi II), sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti nel governo Letta e nel governo Renzi.
Med’Or è riuscita a mettere insieme, in un incontro pubblico di questi giorni, un esponente emiratino e uno israeliano.
«È la forza delle idee. Una fondazione ha, par excellance, soltanto la forza delle idee. Ed è stato bello che per il mondo arabo ci fosse una donna, con la sceicca Ebtesam Al Ketbi presidente del policy center di Abu Dhabi. Dall’altra parte c’era David Meidan, alto dirigente dell’intelligence israeliana con incarichi importanti dal punto di vista “politico”. Ricordo l’incarico per liberare il caporale Shalit. L’obiettivo era quello di dialogare e di farlo davanti a un pubblico, anche nei momenti più difficili è possibile trovare uomini e donne coraggiosi che discutono, senza compromettere le loro posizioni, ma riconoscendo il loro interlocutore senza demonizzarlo. Piccolo ma importante segnale».
Perché, in che momento siamo?
«In un momento del corso del mondo, come avrebbe detto Hegel, in cui sembra impossibile il dialogo e il confronto. La trappola delle identità appare evidente: una identità si definisce per antinomia contro un’altra indentità. Un fatto particolarmente destrutturante già per società omogenee: figuriamoci se messo a supporto di un conflitto armato. Mai il mondo non è mai stato come adesso sull’orlo di un precipizio».
C’è un filo rosso che lega la vicenda della guerra in Ucraina al Medio Oriente?
«Sì. Il filo rosso, come appare oggi evidente, è che Putin è interessato a una destabilizzazione del mondo».
E ci sta riuscendo…
«Sì, diciamo che ci sta lavorando. Mentre siamo nel punto più delicato della crisi tra Israele e la comunità internazionale, incarnata dalle Nazioni Unite, il fatto che oggi Putin in Turkmenistan incontri il presidente iraniano Pezeshkian è icastico».
Così come il bacio della pantofola dei leader di Hamas al Cremlino all’indomani del sette ottobre.
«Esattamente. Il problema è che Putin lavora alla destabilizzazione perché sa che un mondo destabilizzato dà più carte al suo nazional-imperialismo. A partire dall’Ucraina. Questa non è la stessa scelta strategica della Cina. Mentre la Russia ha perso definitivamente il ruolo di potenza mondiale, la Cina vuole assumere un ruolo di protagonista nello scenario glabale. E sa bene che la destabilizzazione del mondo sarebbe per Pechino un colpo difficilmente metabolizzabile. Xi sa bene che un mondo destabilizzato colpirebbe al cuore il modello cinese, basato sull’accettazione della non democrazia e crescita economica per uscire dalla povertà. Se non c’è la crescita economica non ci sono le risorse per le politiche sociali. Così salta il modello cinese».
Putin e Xi sono su piani strategicamente diversi?
«Ed è evidente. Parto da qui per dire che siamo davanti a un passaggio delicatissimo. Israele, la cui legittimità di risposta all’attacco di Hamas non può e non deve essere messa in discussione neanche per un secondo, adesso non deve sbagliare le sue mosse. Nel momento in cui attacca contingenti delle Nazioni Unite come Unifil, e siamo davanti a due nuovi feriti, di cui uno grave, ci si colloca fuori e contro qualunque regola del diritto internazionale. Israele, in questi anni ma anche in questi giorni e in queste ore, dice che va applicata la risoluzione 1701 del 2006, che stabiliva quella linea blu che portava Hezbollah
a spostarsi dal confine israeliano oltre il fiume Litani. Quella risoluzione vede in Unifil il soggetto attuatore. Se Israele attacca chi difende quella risoluzione, crea un corto circuito drammatico».
Rimane che quella forza di interposizione viene vista come un intralcio fastidioso.
«Sì, ma non può essere vista così. Se vogliamo evitare una guerra totale in Libano, e quindi una occupazione del Libano, chiederei a Israele di non dimenticare il 2006. Invasione che ha portato a uno stallo militare. Sicuramente non un successo. Se il Libano dovesse collassare l’onda d’urto sarebbe drammatica in due direzioni: nei confronti dell’Europa, perché dovremmo affrontare una ondata umanitaria come quella delle guerre avvenute ai confini orientali dell’Europa o nella Siria della guerra civile. E una seconda che impatterebbe sui paesi arabi e sulla Turchia. I paesi arabi moderati non sono alleati di Hezbollah per ragioni storiche. E sono paesi sunniti, mentre Hezbollah è sciita. Se collassa il Libano, il rischio è di mettere sotto tensione il mondo arabo moderato».
E poi c’è la Turchia…
«Che nei confronti di Israele ha espresso una posizione radicale. Erdogan ha pronunciato parole inaccettabili verso Gerusalemme. Una posizione, quella turca, che ci fa capire come si sia rovesciato un paradigma».
Quale?
«Con due guerre in corso, una nel cuore dell’Europa e una nel cuore del Mediterraneo, il rapporto tra economia e finanzia e collocazione geopolitico-strategica viene capovolto».
Abbiamo sempre pensato che è la finanza che comanda il mondo…
«La Turchia aveva fino a pochissimo tempo fa il 90% di inflazione. Non è fallita perché l’Occidente non può permettersi che la Turchia fallisca. Perché svolge un ruolo geopolitico spregiudicato ma importantissimo. Un Paese Nato che chiede di entrare nei Brics nella riunione di San Pietroburgo. Ma Erdogan è la stessa persona che ha trattato lo scambio dei prigionieri tra Stati Uniti e Russia, uno scambio storico. E Erdogan ha protetto i corridoi per il grano, facendo arrivare in Nord Africa le derrate indispensabili a sfamare milioni di persone dall’Ucraina, trovando l’accordo dei russi. L’inflazione in Turchia rimane alta ma nessuno pensa che l’economia turca possa collassare. Mi auguro che questo messaggio arrivi presto anche in Europa».
Per questo va scongiurata una invasione totale del Libano?
«Certo, perché farebbe precipitare Israele in un drammatico isolamento internazionale. E se la missione Unifil fosse colpita duramente e costretta a ritirarsi, Israele si troverebbe con un serio problema. Le forze armate e l’intelligence israeliana hanno recuperato, con straordinarie operazioni, un rapporto di fiducia con il popolo israeliano. E hanno dimostrato una capacità offensiva – colpire duramente le organizzazioni che minacciano Israele – e difensiva, rispetto ai missili iraniani, dando ad Israele una sorta di aurea di inattaccabilità».
Recuperato il rapporto di fiducia, il governo israeliano non deve strafare?
«Esatto. Per una ragione semplice: pensare che i colpi subiti da Hezbollah – sono del tutto legittime le operazioni mirate nel Libano – oggi ripropongono come legittimo e possibile uno scenario che si può verificare anche in tempi rapidi. E cioè: Hezbollah costretta a ritirarsi al di là del fiume Litani. L’esercito libanese che prende il controllo della linea blu insieme con Unifil. E settantamila sfollati israeliani che riprendono possesso delle loro case nel Golan: un chiaro successo per Israele ed il suo popolo».
Ma il governo libanese può reggere questa sfida?
«Sì, proprio per questo bisogna metterlo di fronte alle sue responsabilità. Si tratta di rendere evidente il grado di autonomia del governo libanese rispetto a Hezbollah. È un governo debole e permeabile, è vero. Ma una azione congiunta di Israele con l’intera comunità internazionale, con l’Occidente, può farlo diventare più forte. La risposta di Israele è legittima, ma non basta la sola risposta militare. Occorre una intelligenza politica per costruire un punto di arrivo più avanzato. E il sette ottobre è stato il segnale di una crisi profonda: dell’insufficienza di una deterrenza costruita soltanto su intelligence e capacità militare.
Solo con questo Israele non ce l’ha fatta. Va costruito un sistema di alleanze nel mondo e con i paesi arabi».
Non bastano le armi, quindi?
«Nel mondo moderno la sicurezza è un insieme di capacità militari e di forza diplomatica. Strada che Israele aveva già intrapreso con gli Accordi di Abramo. Nel momento in cui si rialza in piedi, Israele deve mostrare di avere una visione politica».
Un salto di qualità necessario e oggi finalmente possibile.
«Proprio perché nessuno può più pensare che Israele venga spazzato via. Il problema dell’attacco a Unifil è la rottura con il cuore pulsante dell’Occidente. Dentro Unifil ci sono sedici paesi europei. E rompere con Unifil rischia di mettere in discussione un legame indissolubile, quello tra Israele e Stati Uniti. Si creerebbero le premesse per un mondo permanentemente più instabile. Il governo israeliano non può correre neanche per un minuto il rischio di essere in qualche modo coinvolto, politicamente, in una delle campagne elettorali più drammatiche della storia degli Stati Uniti. Dimostrare l’ininfluenza degli Stati Uniti non è una questione che riguarda questa o quella amministrazione, è soltanto giocare con gli equilibri del pianeta».
L’Iran sembra sull’orlo di due crisi, interna ed esterna. I missili israeliani colpiranno al cuore del regime?
«L’Iran non aveva alcun titolo, sul piano del diritto internazionale, per attaccare Israele. E la risposta di Gerusalemme è e sarà legittima. Fermo restando che l’Iran ha utilizzato i proxys come elemento di pressione non solo nei confronti di Israele ma dell’intero Occidente, basti pensare agli Outhi. Quella che viene chiamata enfaticamente pazienza strategica è in verità prudenza strategica. Un’altra cosa. Al di là dei proclami degli ayatollah, in Iran sanno benissimo che una guerra regionale sarebbe l’inizio della fine del regime teocratico».
Ma anche qui, Israele non deve eccedere…
«Non deve commettere errori. Non deve attaccare gli impianti di arricchimento dell’uranio, che non risultano ancora minacciosi. E non deve bombardare le piattaforme petrolifere: le conseguenze sarebbero inimmaginabili su scala mondiale. Anche perché l’Iran ha già fatto sapere che l’eventuale ritorsione potrebbe anche colpire le piattaforme petrolifere nei paesi arabi, creando un drammatico choc petrolifero globale che spegnerebbe tutti i motori del mondo. Non dobbiamo spingere il popolo iraniano, che odia i suoi dittatori, a identificarsi con loro».
E torniamo così da dove eravamo partiti, come Cicerone. Dalla destabilizzazione.
«Da quando c’è stata l’invasione russa dell’Ucraina, mentre l’Europa e l’Occidente hanno risposto con fermezza, i paesi “non allineati” hanno preso come punti di riferimento organizzativo i Brics e la Shanghai Cooperation Organization. E lì è entrato anche l’Iran. Ci sono insieme India e Cina, due paesi in competizione strategica tra loro. I “non allineati” del terzo millennio non hanno una comune visione strategica. Vogliono soltanto contare di più nel mondo. L’Occidente, avendo questa consapevolezza, deve saper dosare dialogo e fermezza. Bisogna costruire con loro un rapporto: un nuovo ordine mondiale, dopo che quello precedente è entrato in crisi, non si può costruire senza il global South. Lasciarlo nelle mani di Russia e Cina sarebbe peggio di un delitto, sarebbe un errore».
Fonte: Il Riformista