L’orgoglio civico del Duecento ha dato una forma ancora visibile alle nostre città
Una veduta aerea delle torri medievali di San Gimignano
Nell’agosto 1964 tre ragazzi francesi in vacanza in Italia su una Citroën Due Cavalli approdarono in un campeggio vicino a Spoleto. Svegliati all’alba da un temporale estivo, decisero di visitare la città ancora addormentata e deserta, ognuno per conto proprio, secondo la regola che si erano dati fin dall’inizio del viaggio. Uno di loro prese il Ponte delle Torri e quasi subito si ritrovò in cima alla scalinata che scende verso piazza del Duomo. E lì provò un’emozione che gli avrebbe cambiato la vita. Nelle settimane precedenti aveva visto Pisa e Roma, Pompei e la Sicilia; ma lì gli si rivelò qualcosa di diverso. «Mi trovavo per la prima volta davanti a una scenografia urbana la cui stupefacente armonia era dovuta, lo intuivo confusamente, non all’intervento di un qualche genio dell’arte o dell’architettura, ma alle ripetute iniziative di generazioni di cittadini tutti desiderosi di aggiungere un tassello alla bellezza della loro città».
Quel ragazzo si chiamava Jean-Claude Maire Vigueur, e dopo essere stato normalista negli anni ’60 riuscì a farsi trasferire all’Ecole Française di Roma, dove da allora vive, e dove ha insegnato Storia medievale all’Università di Roma Tre, diventando uno dei massimi esperti della storia delle nostre città nel Medioevo. E tutto grazie alla folgorazione di quella mattinata spoletina, come lui stesso racconta nel nuovo libro che ha dedicato all’oggetto del suo lungo amore: Così belle, così vicine: viaggio insolito nelle città dell’Italia medievale (Il Mulino). L’Italia è un paese di città, assai più di altri grandi Paesi d’Europa, non tanto per le dimensioni ma per la diversità delle storie e la forza dell’orgoglio civico: né in Francia, né in Gran Bretagna, né in Spagna esistono, come in Italia, dieci città che per secoli e fino all’Ottocento sono state capitali di Stati indipendenti. Ma la differenza era ancora più sbalorditiva nel Medioevo, quando le città italiane che si governavano da sole e costituivano a tutti gli effetti delle città-stato si avvicinavano al centinaio. Certo, lo stesso discorso si potrebbe fare per le polis greche; ma la loro epoca è così remota che di quasi tutte non resta più traccia, mentre le città italiane del Medioevo sono ancora qui, e noi ci abitiamo.
Proprio questo è il messaggio fondamentale del libro, e spiega il suo titolo. Basta aprire gli occhi per accorgerci che in tante nostre città il maggior patrimonio monumentale è quello ereditato dai comuni medievali; che molti centri storici conservano l’impronta con cui sono stati plasmati nel Medioevo; e che accanto ai palazzi e alle cattedrali si possono ancora riconoscere le case, le strade e le piazze in cui formicolava la gente comune. Il che non significa che tutto sia rimasto “come allora”, perché non c’è mai stato un “allora” in cui tutto fosse immobile: noi oggi visitando la Firenze medievale incontriamo quasi solo edifici che Dante non ha mai visto, perché al suo tempo erano cantieri aperti; e molti di quei cantieri, basti pensare al Duomo di Firenze o a quello di Milano, sono rimasti incompiuti fino all’Ottocento – monumenti mai ultimati, sui quali ogni epoca si è sentita autorizzata ad apporre il proprio sigillo.
Girare per le nostre città con questo libro in mano significa scoprire la logica di una pianificazione urbana che non era quella geometrica degli architetti rinascimentali o barocchi, e tuttavia non era meno carica di senso. Perché mai in tante città ci sono una chiesa di San Francesco e una di San Domenico, e sono spesso immense e con campanili altissimi. e agli occhi nostri appaiono parte del centro storico, ma a guardar bene non sono mai molto vicine al vero centro del potere ecclesiastico e comunale, la cattedrale e il palazzo civico, e sono sempre piuttosto lontane fra loro? Ma perché gli ordini mendicanti sono nati nel Duecento, quando il centro delle città era già sovraffollato, e hanno costruito le loro chiese in quella che allora era la periferia. Le hanno volute grandi, perché si rivolgevano all’intera popolazione, e con campanili ben visibili, perché erano in competizione fra loro, e lontane l’una dall’altra per tenersi alla larga dalla concorrenza.
Con tutto questo, ovviamente, molto della città di allora è scomparso. Non sono più visibili le pitture infamanti che spiccavano sulle facciate dei palazzi pubblici, in cui venivano raffigurati, preferibilmente impiccati a testa in giù, i traditori del comune. È sparita quasi dappertutto, interrata e cementificata, la rete dei canali che faceva di città come Milano o Bologna autentiche città d’acqua, anche se mai quanto Venezia (che, «va ricordato, non è un’isola, ma un insieme di edifici costruiti su una immensa foresta di tronchi d’albero immersi nell’acqua salmastra della laguna»). Sono sparite, tranne nel caso eccezionale di San Gimignano, le moltitudini di torri che svettavano sul centro urbano (e delle poche superstiti una, la Garisenda a Bologna, come sappiamo rischia di lasciarci). E chissà che non siano spariti, cancellati dalla pruderie di epoche più represse, tanti affreschi esposti in pubblico come quello, qui riprodotto, di Massa Marittima a celebrazione della fertilità, con le sue ragazze intente a contendersi i frutti di un grande albero carico di falli.
Così come sono spariti dal radar, ma non dall’attenzione dell’autore che li rievoca uno per uno, i nomi dei maestri a cui era affidata la progettazione e la realizzazione di quegli edifici. Si dice, di solito, che il Medioevo, epoca poco individualista, non si curava di registrarli. Ma i contemporanei di quel Buschetto che creò la cattedrale di Pisa si preoccuparono eccome di celebrare il suo nome, se la sua tomba venne murata nella facciata del Duomo con un’epigrafe che lo elogiava come geniale architetto e ingegnere: è colpa nostra e di un malinteso culto del Rinascimento se di tutti questi geni ci siamo preoccupati poco, pur continuando ad ammirare a bocca aperta le loro opere.
Di Alessandro Barbero – fonte: https://www.lastampa.it/