Era una causa pera: né gli sforzi e i miliardi messi sul piatto con urgenza negli Stati Uniti durante il fine settimana né le dichiarazioni dei politici su entrambe le sponde dell’Atlantico sono bastati lunedì 13 marzo a calmare i mercati mondiali. È come se gli investitori avessero all’improvviso preso coscienza delle minacce che potrebbero scatenare una nuova grande crisi finanziaria.
Le autorità statunitensi hanno garantito tutti i conti correnti della Silicon Valley Bank (Svb), l’istituto californiano fallito dopo che i suoi clienti hanno prelevato i loro depositi, e quelli di un’altra banca crollata, la Signature Bank. E hanno stanziato 25 miliardi di dollari (23,3 miliardi di euro) per rispondere alle eventuali emergenze di altri operatori finanziari. Così la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti), il dipartimento del tesoro e la Federal deposit insurance corporation (Fdic, l’agenzia governativa che assicura i depositi bancari fino a 250mila dollari e gestisce la liquidazione delle banche insolventi) hanno cercato di evitare il peggio: un contagio rapido e fuori controllo del sistema finanziario del paese, a partire dalle banche regionali, considerate più fragili.
I politici statunitensi sono scesi in campo quando il presidente Joe Biden ha assicurato che i cittadini potevano fidarsi delle loro banche, mentre a Bruxelles i ministri delle finanze dell’eurozona sfilavano davanti ai microfoni per rassicurare risparmiatori, aziende e investitori. “Non vediamo rischi di contagio per la Francia”, ha ribadito il francese Bruno Le Maire, sottolineando che le banche transalpine sono più sicure grazie alla loro capacità di diversificare i rischi e a un sistema di controllo “solido”.
Tutto questo, però, non è servito a molto: il 13 marzo, in chiusura di giornata, la borsa di Parigi aveva perso il 2,9 per cento, quella di Francoforte il 3 per cento e quella di Londra il 2,6 per cento. I titoli bancari europei, già in sofferenza il 10 marzo, hanno accelerato la loro discesa: le francesi Bnp Paribas e Société Générale hanno perso rispettivamente il 6,8 e il 6,2 per cento, la svizzera Credit Suisse il 9,6 per cento e la tedesca Commerzbank il 9,9 per cento. Nelle sedute di borsa del 10 e del 13 marzo l’indice di riferimento delle banche europee quotate in borsa è sceso del 10,2 per cento.
La giornata si è conclusa meglio alla borsa di New York, con una flessione dello 0,2 per cento dell’S&P 500, l’indice della cinquecento principali società quotate. L’intero comparto bancario, tuttavia, ha perso quasi l’11 per cento. Le quotazioni di First Republic Bank, uno degli istituti considerati più a rischio, sono precipitate addirittura del 79 per cento.
Per sottrarsi ai crolli in borsa molti investitori si sono rifugiati nei titoli di stato, considerati più sicuri, provocando una brusca inversione di rotta dei rendimenti: quelli dei titoli di stato tedeschi a due anni, punto di riferimento per l’eurozona, sono scesi quasi di mezzo punto percentuale nell’arco della giornata.
Davanti a questi scossoni improvvisi è difficile non ricordare la grande crisi finanziaria del 2008, scatenata dal fallimento della banca statunitense Lehman Brothers. Certo, lo shock attuale non è minimamente paragonabile a quello di quindici anni fa. Da allora, inoltre, la vigilanza sul settore bancario è molto più severa: negli Stati Uniti e ancora di più in Europa gli istituti devono rispettare livelli più elevati di solvibilità (la capacità di far fronte agli impegni finanziari assunti nel breve, medio e lungo periodo) e di liquidità (la capacità di rispondere ai bisogni immediati), proprio per evitare che si ripeta un terremoto come quello del 2008. Tuttavia, la vicenda della Silicon Valley Bank fa tornare la paura di un rischio sistemico, una crisi generalizzata che priverebbe governi, imprese e famiglie degli strumenti per finanziarsi.
“Il rischio sistemico è quello che porta il sistema bancario alla paralisi: nessuno presta più niente a nessuno, il denaro non circola più”, spiega Sebastian Paris Horvitz, responsabile della ricerca presso la Banque Postale Asset Management. “Nel 2008 è successo proprio questo”. In un contesto di questo tipo le difficoltà di uno o più istituti di credito possono spingere i clienti a correre agli sportelli per prelevare i loro soldi dal conto. Si tratta di condizioni che per il momento non si sono assolutamente verificate, dice Simon Outin, direttore della ricerca sul credito per il settore bancario della Allianz. “In Europa il contagio è limitato ai mercati azionari. Non abbiamo ancora visto prelievi importanti dai conti correnti delle banche europee e non credo che arriveremo a questo punto”, aggiunge Outin. “Le banche europee hanno norme più severe di quelle statunitensi e i comportamenti e la cultura finanziaria in Europa favoriscono la stabilità dei depositi”, conclude l’analista.
Il sistema bancario, sia in Europa sia negli Stati Uniti, oggi è più protetto, ma resta esposto alla stessa tendenza di fondo: l’aumento dei tassi d’interesse avviato nel 2022 dalle banche centrali per cercare di frenare l’inflazione. Il rischio di una politica simile è che una parte dei depositi bancari sia trasferita su investimenti tornati a essere più redditizi e che di conseguenza rallenti il credito, soprattutto quello sul mercato immobiliare. Anche in questo caso però gli analisti ritengono che un attacco di panico non sia giustificato.
“Il settore immobiliare in Europa subirà sicuramente una correzione legata all’aumento dei tassi d’interesse, ma le banche conoscono il mercato. Sanno come reagire in caso di un rallentamento dell’economia, si sono protette contro questo rischio man mano che i tassi salivano. Di conseguenza non possiamo parlare di una minaccia grave, in grado di destabilizzare le banche”, dichiara Stéphanie Rheinboldt, analista dell’Atlantic Financial Group.
Il suo collega Bruno Jacquier indica un altro fattore che dovrebbe tranquillizzare gli investitori: se è vero che la lotta all’inflazione è da mesi la priorità delle banche centrali, la strategia potrebbe essere messa in discussione senza alcun preavviso, insieme all’aumento dei tassi d’interesse.
“Tutti credono che l’obiettivo principale delle banche centrali sia la stabilità dei prezzi, ma in realtà è la stabilità finanziaria”, osserva Jacquier. “Se domani fosse la stabilità finanziaria a correre rischi, l’inflazione non sarà più la priorità: l’obiettivo sarà stabilizzare il mercato interbancario, che consente alle banche di continuare a prestarsi soldi a vicenda sulla base della fiducia reciproca. E pazienza se per farlo sarà necessario abbassare i tassi d’interesse e lasciar correre l’inflazione”.
Il compito della Banca centrale europea (Bce) potrebbe quindi complicarsi. Le sue decisioni e le dichiarazioni della presidente Christine Lagarde sono particolarmente attese, tanto più che l’istituto di Francoforte sul Meno è responsabile anche della regolamentazione delle banche dell’eurozona. La Bce potrebbe dunque intervenire in qualsiasi momento per tentare di placare i timori dei mercati.
“Il suo silenzio è un po’ assordante e difficile da comprendere”, commenta Paris Horvitz. “La Bce dovrebbe dire pubblicamente che le banche sono ben capitalizzate, che sono in grado di affrontare una situazione economica particolarmente difficile e che attualmente non hanno alcun problema sistemico. In questo momento è essenziale rassicurare”. ◆ gim