Type to search

LO SPAZIO DELL’UTOPIA. LA FORMULA PER REDIMERE TUTTO

Share

Di Massimiliano Perrotta

Caratterista per l’industria cinematografica, cabarettista da pub nel quartiere San Lorenzo di Roma, Remo Remotti è un artista lucidissimo. Cantore brillante delle proprie nevrosi, Remotti nel pezzo Noi non riusciamo più a vedere scrive: «Il problema signori è che noi non riusciamo più a vedere / crediamo di vedere, ma in realtà vediamo delle cose / che già sono state viste, da altri… / Io vedo laggiù una ragazza, una donna con i capelli rossi / ma per me che sono anche un pittore, / una donna con i capelli rossi è Munch / se fosse bruna, nuda, stesa su un divano, è Modiglioni / su un prato di margherite è Klimt / una puttana signori, una puttana è Otto Dix / una puttana che si riscalda con dei copertoni / sull’autostrada è Fellini / un accattone è Pasolini / un albero, un albero è Mondrian / un prato verde con dei papaveri rossi è Monet / con dei girasoli è Van Gogh».

Remotti ci sa dire mirabilmente il cul de sac nel quale l’ultimo Novecento ci ha ficcati.

Le opere autentiche sono il campo della battaglia per la redenzione tra lo spirito dell’arte e lo spirito del mondo. Concorrendo a determinare le nostre coordinate culturali, il nostro modo di leggere le cose, l’arte trasforma la realtà. Eppure gira voce che non serva a nulla…Nell’atto della creazione l’artista non sa fino in fondo quello che fa: ignora se si tratti di un puro gioco estetico, oppure di una missione metafisica tesa a scovare la formula che d’un tratto redima tutto.

 

Ci salvano certi oscuri uomini di provincia che disinteressatamente si fanno apostoli delle di provincia che e si fanno glorie locali; ci salvano quelli che sanno stare con un piede dentro e un piede fuori; ci salvano i non arresi, quelli che dormono nelle botti, i paciosi che si godono l’ombra.

 

L’artista autentico in un cantuccio recondito ambisce alla corona di spine, non a quella di alloro.

L’aspetto più problematico del mio lavoro creativo è frugare nel cuore dei personaggi: pudore e pietà suggeriscono cautela. Eppure è bello, dal momento che il cuore degli uomini è impenetrabile, svelare almeno il mistero di persone fittizie.

 

Cammino per le strade di un’antica borgata romana che va diventando un anonimo quartiere periferico della metropoli universale. Mi commuove il ricordo di alcuni versi di Franco Califano, versi di spietata poesia: «Non è detto che adesso che si vive nel chiasso / Si stia meglio che nel silenzio! / È aumentata la gente / Ma si è soli ugualmente, / Il progresso sei tu, poi niente».

L’età del fighettismo, la nostra, è quando in una società sparisce definitivamente l’orizzonte della redenzione. Non tutti gli artisti di sinistra chiusero gli occhi. Sergio Endrigo cantò i suoi dubbi in Se il primo maggio a Mosca: «E non più feltri grigi in testa / E rigidi attenti da pompieri / E far finta che sia festa / Con medaglie parate e sonagliere / L’importante è sapere se ci resta / La speranza di altre primavere // Ah se il socialismo fosse solo un fiore / Da portare nei capelli / O da mettere all’occhiello / Quanti bravi giardinieri / Con la falce ed il martello». Endrigo non era un pentito, non si era convertito al liberismo sovrano. Al contrario nella sua seconda fase creativa, quella osteggiata dall’industria musicale, scrisse ispirate canzoni intrise di tensione utopica: «Balliamo balliamo / Sugli ex prati verdi / Sui tappeti persiani / Sugli aghi di pino / Che portano al mare / Ci aspetta una nave / Da ormai troppo tempo»…

Dietro la faccia da uomo comune, Endrigo celava un coraggio non comune. Così a metà degli anni Ottanta volle tornare al Festival di Sanremo per proporre una Canzone italiana in cui riaffermava orgogliosamente le ragioni della propria poetica e sfotteva garbatamente i colleghi ubriachi di esterofilia. Lo spirito dell’epoca non dovette apprezzare quella provocazione giacché, mentre Endrigo cantava in diretta televisiva, una specie di sordità psicosomatica lo mise in difficoltà rendendo imperfetta la sua interpretazione.

Un altro punto a favore dei produttori discografici nella loro battaglia per emarginarlo.

Lo spazio dell’utopia è il teatro vuoto prima che cominci lo spettacolo. Il teatro è il luogo della libertà, dell’esame di coscienza collettivo, del sentimento di una fraternità diversa per costruire insieme qualcosa di nuovo.

A spettacolo finito si riaccendono le luci in sala, ci si guarda intorno… non c’è più nessuno. Carmelo Bene non aveva torto: teatro autentico è l’evento, l’eccezione, quello che ci porta al di là dello spettacolo. Una delle preziose eredità di Max Horkheimer che la sinistra ha pensato bene di non raccogliere è quella racchiusa in La nostalgia del totalmente Altro. Quando il vecchio Horkheimer formulò i suoi ragionamenti che prefiguravano una sorta di ritorno alla metafisica, fu trattato alla stregua di un povero rimbambito. «La teologia è – devo esprimermi con molta cautela – la speranza che, nonostante questa ingiustizia, che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»: figurarsi, un filosofo di sinistra che esprimeva nostalgia per il divino come strumento di redenzione dell’esistente!

È la parola redenzione quella che emoziona di più.

Ho trascorso infanzia e adolescenza a Mineo, in provincia di Catania, un paese ricco di civiltà e di cultura che molto mi ha dato nella fase formativa. Di Mineo ha lungamente parlato nella sua opera il mio maestro Giuseppe Bonaviri. Tanti conservano la sua immagine degli ultimi anni, quella del nonnino simpatico e un poco bizzarro. Io non dimentico l’altro Bonaviri: il nemico dell’industria letteraria che insegnava a non confondere il successo con il valore.

Di Mineo sono Giuseppe Bonaviri e Luigi Capuana, ma anche il minore Gino Raya. Critico letterario accademico, filosofo dilettante, Raya edificò un castello culturale denominato famismo. Un’opera costituita da una serie di scritti filosofici che fanno sistema, da decine di volumi critici che applicano a livello estetico i principi del famismo, da lavori di discepoli che sotto la guida del maestro sviluppano il discorso di Raya.

Per il filosofo di Mineo è la fame il motore del mondo: tutto è cieco istinto fagico e la cultura non è che una sovrastruttura tesa a nascondere questa evidenza. Non sono d’accordo ma Raya mi è simpatico: egli ebbe il coraggio della propria opera. Baciato dall’insuccesso, affrontò imperturbabile il cammino che lo condusse a morire a Roma isolato e misconosciuto. Del resto probabilmente aveva ragione Borges: «La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore».

 

Sono seduto nella piazza di Mineo: una piazza ideale, di perfetta semplicità. La statua di Luigi Capuana sorveglia con indulgenza la tranquilla vita dei miei concittadini. Contemplo anche io i loro minuti commerci e per contrasto mi viene di pensare ai fuoriusciti, a quanti seppero trovare il varco verso qualche dimensione altra.

 

spazio dell’utopia è dentro di noi: sono i momenti in cui avvertiamo l’attesa come necessaria, in cui ci attanaglia come una nostalgia di futuro… Sono quei momenti in cui sappiamo essere qui e altrove, in cui la nostra vita oscura viene rischiarata dal soffio dello spirito liberatore.