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L’italia torna ambigua sulla Cina e cede alle lusinghe di Pechino

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Giulia Pompili

Roma. Sulle relazioni con la sempre più autoritaria Repubblica popolare cinese, la politica italiana è precipitata di nuovo in un limbo, a metà tra l’ambiguità, la superficialità e l’ordine sparso. Se la strategia dell’equilibrismo con Pechino sembra essere, per il momento, prevalente a Bruxelles, in Italia l’impressione è quella di una confusione piuttosto allarmante, di una minimizzazione del problema, alla luce soprattutto dei due appuntamenti cruciali della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che avranno al centro proprio la Cina: il Consiglio europeo che inizia oggi e il viaggio a Washington da Joe Biden a luglio. Ieri, durante le comunicazioni alla Camera, Meloni ha dedicato un breve passaggio alla questione. Ha detto che non bisogna essere dipendenti dalla Cina ma che sul piano geopolitico il paese è “un interlocutore imprescindibile”: “Per queste ragioni”, ha detto Meloni, “intendiamo perseguire con la Cina un rapporto che, lungi dall’essere ostile, vuole però essere maggiormente equilibrato”. Sì, ma in che modo? C’è ormai un certo consenso, tra gli studiosi e gli osservatori internazionali che studiano da mesi un sistema di derisking efficace con la Cina: non basta usare di tanto in tanto gli strumenti come quello del Golden power per mettersi in sicurezza dai rischi sistemici. C’è bisogno di più attenzione a non prestare il fianco alla propaganda di Pechino – una propaganda che per esempio, nel caso della Russia, ha fatto molti danni. Tra tutti i leader presenti in Aula, è stato allora solo Giuseppe Conte, leader del Movimento cinque stelle, il partito considerato più vicino a Pechino, a porre la questione cruciale: “La presidente Meloni è stata capace di parlare per vari minuti della Cina; ora, c’è qualcuno, in quest’aula, che può anticiparci la posizione del governo sul rinnovo dell’accordo con la Cina sulla Via della seta?”. Conte difende la scelta di aver firmato per l’ingresso dell’italia, nel 2019, nel grande progetto strategico cinese, da cui sembra che Palazzo Chigi vorrebbe uscire ma nessuna decisione è stata ancora presa. Al G7 di Hiroshima Meloni ha annunciato che ci sarà “un passaggio parlamentare” prima della scadenza naturale del memorandum a dicembre di quest’anno, passaggio di cui però ancora nessuno sa nulla. Se il governo Meloni non comunicherà l’uscita, l’accordo ItaliaCina – tutto politico, e molto poco vantaggioso sul piano del business – sarà automaticamente rinnovato. Oggi però i segnali che l’esecutivo stia cedendo alla pressioni di Pechino ci sono.
Basterebbe guardare a una macroscopica differenza di accoglienza diplomatica: il 17 giugno scorso il ministro degli Esteri di Taiwan, Joseph Wu, per la prima volta nella storia democratica del paese ha fatto una visita a Milano. E’ stato ricevuto da quattro parlamentari, due di Fratelli d’italia e due della Lega. Ieri invece si è conclusa la visita di una nutrita delegazione cinese guidata da Liu Jianchao, capo del dipartimento per le relazioni internazionali del Partito comunista cinese, che tra Milano e Roma è stato accolto praticamente come un ministro degli Esteri. Nel capoluogo lombardo Liu ha avuto un incontro con il business dell’associazione Italia-cina e il suo presidente, Mario Boselli, fervente sostenitore delle relazioni con la Cina. Poi a Roma un convegno alla Fondazione Italianieuropei con l’ex presidente del Consiglio Massimo D’alema, che appare spesso sulla stampa cinese con elegie del modello di Pechino, e Giulio Tremonti, presidente della Commissione affari esteri della Camera. Tra gli altri appuntamenti, la delegazione cinese ha avuto un incontro con la segreteria del Partito democratico e alla Camera con i parlamentari dell’associazione “Amici della Cina”.
Poi c’è stata una passeggiata a Palazzo Giustiniani con il presidente del Senato Ignazio La Russa e infine alla Farnesina, ospite del ministro degli Esteri Antonio Tajani in persona. La missione di Liu era finalizzata: da settimane l’ambasciata della Repubblica popolare cinese è attivissima per cercare di convincere il governo Meloni a restare nella Via della seta. “Non mi aspettavo un’accoglienza così”, dice una fonte diplomatica al Foglio, e riassume le preoccupazioni che si raccolgono anche in alcune ambasciate di paesi alleati.
Non a caso, ieri il Global Times, quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese, titolava sull’incontro tra Tajani e Liu e riassumeva le parole del vicepresidente del Consiglio così: “L’italia è disposta a diventare un ponte di collegamento tra l’europa e la Cina e a continuare a svolgere un ruolo positivo nelle relazioni Ue-cina”. E poi rilanciava le parole di minaccia lanciate dall’ambasciatore cinese in Italia, Jia Guide, che in un’intervista a Fanpage ha detto: se l’italia sceglierà di ritirarsi dalla Via della seta, questo avrà un impatto negativo sull’immagine, sulla credibilità e sulla volontà di cooperazione con il paese.

Fonte: Il Foglio