Fin dai tempi della Resistenza al nazifascismo nel nostro Paese le componenti progressiste devono confrontarsi con le forze della conservazione in un contrasto spesso tragico che dura ormai da 78 anni. Ci aspetta un cambiamento o un ritorno alla violenza?
di Mauro De Virgilio
Un celebre passo da “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia metteva a confronto due personaggi, due metafore dell’Italia: da un lato don Mariano Arena, boss locale di una Sicilia in preda al dominio della mafia, e dall’altro il capitano Bellodi, eroico rappresentante dei Carabinieri che portava con sé la tradizione e le speranze della Resistenza di cui aveva fatto parte. Nel brano vi è da un lato l’Italia civile, che ha come suoi fari la Costituzione e il desiderio di una società civile e di una politica sana, che purifichi l’Italia dalla corruzione e dal malcostume che l’hanno da sempre contraddistinta, dall’altro l’Italia feudale, piccolo-borghese, profondamente conservatrice e che ha sempre convissuto con tutti i regimi, come ad esempio quello fascista o quello della peggiore Democrazia Cristiana di allora.
Queste due Italie, quella civile e quella mafiosa-conservatrice, sono due Italie che sin dalla fine della seconda guerra mondiale si confrontano nell’agone politico, sociale, economico, giuridico. Questo confronto, però, è stato privo nei suoi momenti decisivi di un’“etica del discorso” (per usare il concetto introdotto dal filosofo Jürgen Habermas): è mancato di un rispetto reciproco e della condivisione di comuni principi da ambo le parti, portando così non a un confronto trasparente ma a una vera e propria “guerra civile a pezzi”. Questa espressione è qui ripresa dalla celebre affermazione di Papa Francesco su una “Terza guerra mondiale a pezzi”, che manca di un’organicità come l’avevano le due guerre precedenti ma si combatte con uguale violenza in svariatissimi teatri del mondo. La nostra guerra civile è stata mancante (e manca tuttora) di unità di tempo, luogo e azione, ma è visibilissima nella lunga storia della nostra repubblica, sin dalle sue origini. I teatri di guerra non sono trincee, montagne, pianure o fiumi: sono piuttosto strade di città, banche, stazioni, scuole, autostrade, treni, carceri, tutti luoghi della nostra vita quotidiana dove si sono svolti efferatissimi atti di guerra, talvolta pianificati come veri e propri attacchi militari.
Ma dove possiamo trovare le radici di questa guerra civile? A cercar bene, si possono trovare in quella che viene definita propriamente dagli storici la guerra civile italiana: il biennio che va dal 25 luglio 1943 al 25 aprile 1945. Dopo la destituzione e l’arresto di Benito Mussolini, seguito all’invasione angloamericana dell’Italia meridionale, l’Italia entrò nel caos: non si comprendeva bene se l’Italia fosse alleata della Germania nazista o degli Alleati, lo Stato era in via di dissoluzione, c’era addirittura il timore di una rivoluzione di stampo comunista. Quest’ultima eventualità era ciò che tanto gli Alleati quanto la monarchia e i fascisti volevano evitare: mentre nasceva la Resistenza e si ricostituivano i partiti quali quello comunista e la DC. A essere temuta era specialmente la Resistenza, un movimento spontaneo che, pur essendo idealmente “guidato” dai partiti ed essendo egemonizzato dalle sinistre, aveva anche forti elementi di stampo cattolico, liberale, repubblicano: era, insomma, una federazione di persone che, al di là delle differenze ideologiche, rappresentavano una nuova Italia, progressista, europeista e pacifista, che si batteva per la giustizia sociale e lo Stato costituzionale. Un movimento così era pericoloso per tutti: oltre a subire la violenza nazifascista, la Resistenza dovette subire anche le angherie degli Alleati, che spesse volte interruppero i rifornimenti di viveri, armi e denaro, o lasciarono i partigiani al loro destino, fino a richiedere, alla fine della guerra, che i partigiani deponessero le armi. Il rischio di una rivoluzione democratica era troppo grande.
Terminata la guerra, a calare la scure su ogni possibilità di cambiamento vi furono due eventi: la Conferenza di Yalta e gli avvenimenti del 1948. L’Italia era rigidamente sotto l’influenza del capitalismo e delle potenze occidentali, anche se vi era tollerata una imponente presenza di quello che sarebbe divenuto il più grande Partito comunista dell’Occidente: un equilibrio delicatissimo che non andava turbato, pena il disastro. In tutto questo, non si poteva permettere che il Paese cadesse nelle mani di qualunque forza progressiva, fosse anche il Partito comunista, che da allora fu messo in riga e convertito alla democrazia parlamentare: il successo della DC alle elezioni del 19 aprile del 1948 e la repressione dei movimenti seguiti all’attentato a Palmiro Togliatti, segretario del PCI, furono per molto tempo l’ultimo atto della guerra civile a pezzi tra le due Italie. Malgrado il forte senso dello Stato, l’europeismo e i tentativi di riforma sociale operati dal democristiano Alcide De Gasperi, la DC divenne il baluardo della conservazione e della pace sociale, anche a costo di pesanti ingerenze da parte del Vaticano e soprattutto degli accordi con la mafia siciliana, che doveva zittire le occupazioni delle terre da parte dei contadini. Il primo di un lunga serie di fatti di sangue fu, difatti, la strage di Portella delle Ginestre, dove una banda di briganti aprì il fuoco su una manifestazione operaia il 1° maggio 1947.
Mentre la DC si inseriva sempre di più nello Stato e nella sua burocrazia, l’immobilismo di tale partito iniziò a infastidire la società italiana, che vedeva i precetti della Costituzione sempre più ignorati da una politica che, come negli anni del regno d’Italia, tornava a farsi sistema. Fu così che un acuto e onesto esponente della DC decise di cambiare le cose: Aldo Moro. Le sue politiche portarono, negli anni Sessanta, a una collaborazione col Partito socialista di Pietro Nenni, e con un occhio anche al PCI. Negli anni Sessanta, riforme quali la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la scuola media obbligatoria segnarono una svolta verso il progresso: una svolta mal vista dalle forze conservative che temevano una rottura degli equilibri sociali o geopolitici che fossero. Spalleggiate dalla piccola borghesia italiana, le forze della conservazione tentarono nel 1964 un colpo di Stato: il famoso “piano Solo”, che doveva portare a un golpe capeggiato dal generale dei Carabinieri Giovanni de Lorenzo, fallì, ma fu sufficiente a intimidire DC e PSI, che frenarono le loro ambizioni riformiste.
La delusione verso la politica e il suo immobilismo favorirono l’irruzione, sul finire degli anni Sessanta, di nuove forze: i giovani e i sindacati. La contestazione dei giovani era diretta verso strutture ritenute oppressive e “fasciste”: la politica, la famiglia, l’economia, tutto era preso di mira, per una società diversa. I sindacati si scagliarono contro i bassi salari e le pessime condizioni di lavoro in cui versavano gli operai delle grandi industrie. L’alleanza tra questi due movimenti portò a risultati quali la legge sul divorzio e lo statuto dei lavoratori, ma innescò il terrore di una rivoluzione democratica che tagliava fuori i partiti. Ebbero così inizio i famigerati “anni di piombo”, in cui la Reazione tentò di incolpare i movimenti di atti terroristici crudeli, finalizzati ad alienare le simpatie che studenti e operai si erano creati nella società. Furono gli anni di Piazza Fontana, dell’Italicus, di Piazza della Loggia, dell’omicidio Moro (colpevole di aver cercato un “compromesso storico” coi comunisti che metteva in discussione i complessi equilibri della Guerra fredda) e della stazione di Bologna. Vittime innocenti, con la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
In tutto questo, il cancro della corruzione e della mafia si estendevano sempre di più, e la politica (che trovava un “nuovo” protagonista nel democristiano Giulio Andreotti) si dimostrava incapace tanto di autoriformarsi, quanto di cambiare l’Italia. Fu solo con l’avvento degli anni Novanta e la fine della guerra fredda che l’eterogenea coalizione della Reazione dimostrò la sua fragilità intrinseca e fu sul punto di soccombere sotto i colpi della società civile e della magistratura. Il 1992 non fu solo l’anno di Tangentopoli, ma anche l’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le loro scorte. Le due stragi, però, non furono solo una reazione della mafia agli attacchi dei due giudici (peraltro ideologicamente agli antipodi, ma animati da un profondo sentimento di amore per la loro terra e il loro Paese, come i partigiani): il recentemente riemerso rapporto “Oceano” della DIA conferma quanto emerso dai processi negli ultimi vent’anni, ossia che un’eterogenea coalizione formata da mafiosi, servizi segreti deviati, finanza e massoneria avrebbe sostenuto in ogni modo i terribili eventi del 1992-1993. L’ultimo conato di Resistenza da parte della società civile fu il G8 di Genova del 2001, quando il Genova Social Forum (che recava con sé istanze di cambiamento per tutto il mondo, a partire dal nostro Paese, fu brutalmente represso dalle forze dell’ordine, coi tremendi eventi di piazza Alimonda, della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto.
Il nostro Paese, dal 1943 ad oggi, risulta quindi attraversato da una lunga scia di sangue e di conflitti, da una lotta fra cambiamento e conservazione che vede nelle stragi di Bologna e via d’Amelio e nel G8 di Genova (di cui in queste settimane ricorrono gli anniversari) i suoi momenti apicali. La guerra civile a pezzi fra queste due Italie non è ovviamente giunta al termine: le forze progressiste e conservative si confrontano nel governo Draghi, e potrebbero presto tornare a confrontarsi nelle strade, date le forti tensioni sociali che le continue crisi economiche portano con sé. Certo è che l’Italia attende da troppi anni troppi cambiamenti, che devono essere attuati. Pena l’immobilismo nelle sabbie mobili in cui oggi ci troviamo, o peggio, il ritorno della violenza.