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L’Italia (di oggi) non è un Paese per pensatori

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di Antonello Longo
direttore@quotidianocontribuenti.com

Agosto di lavoro per la politica italiana. Mentre l’opinione pubblica si esalta per le grandi imprese dei nostri atleti alle Olimpiadi di Tokio, si trascinano con toni ambigui e stanchi le polemiche su vaccini e “green pass”, sul reddito di cittadinanza e sul salvataggio del Montepaschi.
Le condizioni e le scadenze poste dall’Europa per rendere effettivo il trasferimento di risorse dal bilancio comunitario all’Italia nel quadro del Next Generation EU fanno correre il governo Draghi per la definizione, dopo la riforma del processo penale (per la cui approvazione definitiva manca solo il voto del Senato), delle altre riforme ritenute necessarie: fisco, concorrenza, sistema degli ammortizzatori sociali.
Nell’affrontare le questioni di merito tutte le forze in campo tendono a marcare un’area di consenso elettorale che comprenda il “centro”, cioè quel grande ventre molle dell’opinione pubblica italiana che da decenni, ormai, è in cerca d’autore e premia, di volta in volta, chi riesce a interpretare meglio non una visione precisa dell’economia e della società, ma una promessa di rinnovamento della classe dirigente, di salto di qualità sul terreno della moralità e della competenza.
“Le masse – diceva Mao – in qualunque posto, sono generalmente composte da tre categorie di elementi: i relativamente attivi, gli intermedi e i relativamente arretrati. I dirigenti devono perciò avere la capacità di unire il ristretto numero di elementi attivi intorno alla direzione e devono fare affidamento su di essi per elevare il livello degli elementi intermedi e conquistare gli arretrati.” (Mao Tse-Tung, da “Opere scelte”, Vol. III).
È un concetto che in qualche modo si avvicina alla visione gramsciana dell’egemonia culturale sulle masse popolari. Senonché oggi questa egemonia è totalmente nelle mani del pensiero liberista e neoliberale. La sinistra, intesa come prospettiva di trasformazione del rapporto di forza tra le classi sociali, sia col metodo rivoluzionario che con quello gradualista del riformismo socialista, sembra del tutto scomparsa. Nei fatti, non fa più parte dell’offerta politica rivolta alle elettrici ed agli elettori italiani.
Quanti appartengono alla mia generazione (quella degli studenti del ‘68) hanno ragione di chiedersi quando e con quanta responsabilità propria siano andate perdute le radici ideali, il cuore “antico” della sinistra, che fine ha fatto il progetto di una “ricostruzione” che, nato dopo la caduta del muro di Berlino, ogni giorno che passa sembra più vicina al mondo dei sogni che alla realtà politica italiana ed europea.
Si tratta di una generazione di “pensatori”, ma la realtà, intesa come attualità, non aspetta i pensatori. Soprattutto, il quadro politico che si è determinato non è fatto per andare per il sottile, non tollera (quindi esclude) chi vuole “sottilizzare”, cioè riflettere, ragionare, discutere. Queste fastidiose operazioni, anche quando richiamano il più ordinario buon senso, vengono chiamate “ostruzionismo” “resistenza al cambiamento”, “volontà di conservazione dell’esistente”. La più vasta opinione pubblica concorda con i politici che rappresentano la cultura egemone, non con gli astratti ragionatori.
Una volta, i “padroni del vapore”, per far passare l’ammonimento, datato ma sempre efficace, “qui non si fa politica, si lavora!” si servivano del mondo mass-mediatico, tutto nelle mani dei mandanti economici del ceto politico dirigente. Oggi, è questo l’effetto più appariscente del “cambiamento”, l’ingresso dirompente nel mondo dei media del web e dei nuovi social networks, che rende meno controllabile l’informazione. Dunque la leadership politica si è adeguata a diventare essa stessa protagonista dell’uso dei nuovi media, un uso abilmente guidato dalla scienza della comunicazione.
Risultato: quanti si sono abituati in questi anni, magari con qualche stento, come accade alla mia generazione, a “vivere” la rete Internet come spazio libero e aperto alla discussione, ad un’informazione plurale e democratica, un modo, insomma, per (cercare di) “difendersi” dai messaggi (sempre, sempre mirati e tendenziosi) di giornali e TV, vedono quel loro spazio assediato, talvolta soggiogato dalle stesse fonti che ispirano ed elaborano le strategie informative del potere.
Opinion leaders costruiti da opinion makers. Complicato eh? Ma qual’è il messaggio che “deve” passare?
Uno: che la sinistra politica ha la funzione di assicurare la tenuta del quadro sociale mentre il mondo capitalistico ricompone i suoi equilibri dopo la crisi da esso stesso provocata, ricomposizione che produce l’effetto collaterale della rinuncia a pezzi più o meno consistenti (a seconda delle esigenze del mercato) di democrazia, di welfare, di diritti.
Due: che “decidere”, “governare”, “semplificare”, “stabilizzare”, sono esigenze che comportano ne-ce-ssa-ria-men-te il sacrificio della rappresentatività del sistema. Assioma che ha come portato il concetto che una politica pluralista, una democrazia a potere diffuso, una “governance” legata a una programmazione delle linee di sviluppo ed ai metodi della concertazione non hanno diritto di cittadinanza in una realtà economica dove i governi, centrali e locali “devono” rispondere alle dinamiche globali dei mercati finanziari.
Ed ecco, anch’io mi metto a sottilizzare…