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L’integrazione delle seconde generazioni passa dal sei in italiano

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di Giuseppe Russo

La padronanza della lingua del paese di arrivo è fondamentale nel percorso di integrazione degli immigrati. Per le seconde generazioni la scuola è il luogo dove acquisirla. Secondo uno studio, servono però ingenti investimenti per risultati non immediati.

La seconda generazione a scuola

Negli ultimi mesi molto si è discusso sulle condizioni e sul ruolo dei bambini immigrati nella scuola italiana. Il dibattito verteva soprattutto sull’opportunità di applicare un tetto al numero di alunni stranieri in aula. Anche se raccomandazioni ministeriali in merito esistono già nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli studenti stranieri del 2014, è importante che l’argomento abbia attirato l’attenzione. Per contribuire al dibattito presentiamo qui gli esiti di un’analisi empirica sui risultati scolastici degli immigrati di seconda generazione alla fine della scuola elementare.

Lo studio definisce “immigrati di seconda generazione” i bambini nati in Italia da genitori entrambi stranieri. La ratio di una definizione così restrittiva è la necessità di escludere la possibilità che i risultati siano dovuti all’influenza di altri sistemi educativi, cosa possibile per bambini nati all’estero e arrivati in Italia in età scolare o prescolare. In questo modo, si ha la certezza che il percorso formativo formale si sia svolto interamente nel nostro paese.

Studiare la seconda generazione di immigrati dice molto sulla capacità di un paese di integrare le minoranze, problema tanto più rilevante in Italia, dove gli immigrati sono l’unica componente demografica in crescita. Un’integrazione socio-economica riuscita crea adulti capaci di produrre ricchezza, contribuire al welfare, alla crescita economica e alla coesione sociale. Al contrario, la mancata integrazione genera minoranze permanentemente svantaggiate, destinate a precarietà, disoccupazione e marginalità.

Capire l’italiano per capire le altre materie

La strada per l’integrazione passa dall’istruzione. Nelle parole di Barry Chiswick, un eminente studioso delle migrazioni, “la padronanza della lingua del paese di arrivo è la forma di capitale umano più importante per gli immigrati”, perché è preliminare all’interazione con i nativi e all’acquisizione di ogni altra conoscenza. Ovviamente, è vero a maggior ragione per i bambini della scuola primaria, per i quali l’italiano è una lingua veicolare, necessaria per seguire le lezioni e capiretutte le altre materie. Il lavoro di cui riportiamo i risultati ha sfruttato i dati dei test Invalsi, con l’obiettivo di stimare l’effetto della padronanza dell’italiano sull’apprendimento della matematica. Sorprendentemente, l’effetto stimato è risultato negativo. In altri termini, i bambini che parlano meglio italiano hanno risultati peggiori in matematica. Il risultato vale tenendo conto delle differenze territoriali, familiari, socioeconomiche, e sembra contraddire le premesse teoriche del ragionamento. Apparentemente, qualche meccanismo più profondo è all’opera e la linguistica suggerisce una possibile soluzione: i benefici della padronanza di una lingua tendono a manifestarsi solo dopo il superamento di una soglia di sufficienza. In altri termini, se la sufficienza è 6, passare da 3 a 4 non dà benefici apprezzabili. Questa è la ratio sottostante i criteri di ammissione per stranieri nelle scuole e università di tutto il mondo: si richiede l’attestazione di un livello minimo di conoscenza linguistica (ad esempio, B2), considerato necessario per accedere al curriculum. Su questa base, l’analisi è stata ripetuta separando i bambini con un’insufficiente conoscenza dell’italiano da quelli con conoscenza almeno sufficiente, verificando che sono proprio i primi a produrre il risultato inatteso. La conclusione è che questi bambini, all’età di dieci anni, non padroneggiano l’italiano abbastanza da seguire agevolmente le lezioni di matematica e sono quindi costretti a tralasciarla se vogliono migliorare in italiano (e viceversa). Non sono disponibili dati sulle altre materie, ma non si vede perché il meccanismo dovrebbe penalizzarli solo in matematica.

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Forse lo svantaggio è temporaneo e può essere recuperato in futuro. Tuttavia, dopo la scuola primaria, tutti i corsi di studio danno per scontata un’adeguata padronanza della lingua, e lo svantaggio acquisito in età infantile può facilmente diventare permanente. Segnatamente, recuperare lo svantaggio educativo diventa sempre più difficile e più costoso con l’età. Gli esiti dello studio sono quindi abbastanza allarmanti: i bambini al disotto della sufficienza sono il 60 per cento del campione e il dato tende probabilmente a sottostimare il fenomeno perché sono stati considerati solo i nati in Italia. Di norma, infatti, i bambini nati all’estero sono assegnati alla classe corrispondente alla loro età, anche se arrivati da poco in Italia. È presumibile, quindi, che includerli tenda a peggiorare il quadro. In altri termini, la seconda generazione potrebbe essere già condannata.

Il meccanismo per cui la comprensione dell’italiano è preliminare alla comprensione delle altre materie vale per tutti, quindi anche per gli italiani. Purtroppo, l’analisi non può essere replicata per i bambini italiani, perché sfrutta un metodo basato sulla distanza tra l’italiano e la lingua effettivamente parlata a casa. Partire da questa informazione dà evidenti vantaggi, ma sfortunatamente preclude l’applicazione ai madrelingua. Possiamo solo riportare che, adottando lo stesso metro usato per gli immigrati, i nativi con un’insufficienza in italiano sono il 39,5 per cento del campione, una percentuale tutt’altro che trascurabile.

In generale, questi risultati ribadiscono l’importanza di un’adeguata formazione linguistica in età infantile ma, soprattutto, indicano che investimenti marginali darebbero risultati deludenti: per sostenere davvero l’integrazione, tutti i bambini devono raggiungere la sufficienza; nella misura in cui se ne allontanano, gli investimenti al margine sono inutili.

L’integrazione linguistica richiede investimenti massicci e precoci, investimenti che danno ritorni sociali apprezzabili – giorno più, giorno meno – in una ventina d’anni.

Esiste qualcuno in Italia disposto a sostenere interventi del genere?

Fonte: La Voce