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L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL RIFORMISMO

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di Renato Costanzo Gatti

Nel 1968 Umberto Terracini, ex Presidente dell’Assemblea Costituente, uno dei fondatori del PCI, concesse una celebre intervista a Giampiero Mughini, allora impegnato nel Movimento studentesco e collaboratore del settimanale “L’Astrolabio”, fondato da Ernesto Rossi e diretto da Ferruccio Parri.

Lui – scrive Mughini nell’intervista – che era stato tra i promotori della scissione di Livorno, afferma lapidariamente: «Aveva ragione Turati». Sensazionale. Se aveva ragione il vecchio leader socialista, avevano torto lui, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, e il partito comunista non sarebbe dovuto nascere. La frase è abbastanza chiara, ma avrei voluto saperne di più. Telefono a casa. Mi risponde la moglie: «Umberto sta male. Per ora non può. Riprovi quando starà meglio». Non faccio in tempo. Mentre sono in redazione, a “Il Messaggero”, le agenzie di stampa battono la notizia della sua morte”.

Quindi Filippo Turati, il vecchio vate del partito socialista, aveva ragione nel ritenere che piccole costanti riforme, nel tempo, testardamente avrebbero creato le condizioni per condizionare un capitalismo prepotente ed egemone, fino al punto di dare alle classi subalterne dignità e protagonismo, scopo finale del socialismo. Costituire un’associazione, creare una casa del popolo è come un fiocco di neve cui nessuno fa caso, ma quando i fiocchi di neve sono tanti e si accumulano fino a divenire un alto cumulo hanno il potere di una valanga che cade a valle travolgendo tutto.

La linea turatiana condannava la via rivoluzionaria che i fatti dell’ottobre del 1917 avevano portato come problema non teorico ma concretamente attuale alle scelte del partito socialista. Ma, invece di formare una valanga, la neve fu spazzata via dall’avvento delle squadracce nere.

Solo dopo pochi mesi dalla scissione di Livorno, la marcia su Roma travolse sia la tesi rivoluzionaria che quella riformista.

L’egemonia culturale e di proposta che la socialdemocrazia ha avuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale si è mantenuta anche quando hanno governato i conservatori. Gli anni di massima affermazione sono stati i decenni ‘50 e ‘60 del Novecento allorché, grazie ad alcuni fattori supplementari connessi al regime monetario internazionale, le politiche redistributive e di regolazione del capitalismo si sono abbinate con un circolo virtuoso di domanda interna ed internazionale, che ha dato luogo al più grande sviluppo di tutta la storia economica occidentale. Già negli anni trenta in Europa aveva cominciato a farsi strada l’idea che i mercati non potessero pervenire da soli a una stabilizzazione, o almeno a una stabilizzazione ottimale in termini di benessere collettivo. A questa idea Keynes dette un contributo fondamentale e grazie all’apparato di pensiero che ne conseguì diventò dominante.

I problemi iniziano negli anni ‘70 a causa della spinta inflattiva dovuta alla crisi energetica e alla conseguente crisi delle condizioni prodotte nel sistema economico mondiale, fenomeni che non vanno disgiunti dalla crisi del dollaro che nel ’71 aveva cancellato la convertibilità in oro. Fino agli anni ‘70 le socialdemocrazie avevano realizzato gran parte dei programmi di welfare e ottenuto ottimi risultati sul versante della occupazione.

La crisi energetica e le conseguenze economiche che seguirono finirono col riversarsi sui conti pubblici e offrirono argomenti a quanti immaginavano che le conquiste socialdemocratiche fossero insostenibili.

Le socialdemocrazie furono investite di nuovi problemi, nuove sfide, cui non riuscirono a dare una risposta in termini adeguati. La conseguenza fu che ebbe terreno fertile la visione monetarista dell’economia e della società guidata nelle università dalle idee di Milton Freedman.

L’errore della socialdemocrazia fu di non capire che a un formidabile apparato di pensiero si risponde con una nuova capacità di elaborazione teorica di egual capacità nell’esercitare l’egemonia culturale. Non seppe rinnovarsi alla luce delle nuove sfide condotte dalle idee neoliberiste che consideravano dovesse essere lo Stato sotto la sorveglianza del mercato, anziché il contrario. Il capitalismo così liberato dalla influenza della politica ha potuto affermare la propria egemonia consolidando la nuova ideologia del mercato.

La conseguenza sul piano politico fu che anche i più recalcitranti socialisti europei si convinsero (salvo alcune eccezioni che trovarono forti resistenze e nemici ben agguerriti) che lo Stato sociale interventista della Vecchia Europa costituiva un modello irrimediabilmente esaurito e null’altro che il retaggio di una ideologia arcaica. Sicché iniziarono le eliminazioni dei vincoli e una impetuosa accelerazione della globalizzazione dei mercati ritenendo che fossero indispensabili alla modernizzazione delle realtà economiche e sociali nazionali.

In una parola, l’effetto è stato la perdita della alternatività del socialismo democratico rispetto alle politiche neoliberiste; ancora una volta quando la crisi incombe il riformismo socialista viene respinto dall’egemonia del capitale.

La crisi finanziaria del 2008 ha pienamente evidenziato la debolezza del pensiero neoliberista, dimostrando quanto fosse ingannevole l’idea del mercato capace di autoregolamentazione e sono ritornate prepotentemente in campo le azioni degli Stati per arginare, almeno in parte, le gravissime conseguenze in campo finanziario, creando ulteriore debito pubblico, gravi conseguenze sul mercato del lavoro, ma non è stata sufficiente per avviare un radicale cambiamento delle politiche economiche e sociali.

Sono rimaste intatte tutte le cause della crisi come il pensiero dominante che l’ha provocata, anche se diversi intellettuali si sono impegnati ad indicare le responsabilità politico-culturali del neoliberismo.

L’attuale crisi pandemica del Covid-19, giunta quando ancora non sono state pienamente risolte le conseguenze della precedente crisi del 2008, ha posto in luce nuove è più devastanti conseguenze. Da un lato la fragilità di un sistema sanitario nazionale, in parte compromesso a causa dei tagli ai finanziamenti e grazie alle privatizzazioni operate anche in questo campo, dall’altro a causa della recessione mondiale, concause che hanno inevitabilmente provocato la gravosità delle azioni di contenimento della diffusione del virus.

Anche questa volta le forze economiche chiedono agli Stati l’intervento per sostenere le attività economiche e finanziarie. Stati che, dopo essere stati considerati di intralcio all’economia, dopo essere stati messi sotto accusa per le politiche sociali considerate insostenibili, ora dovrebbero su richiesta di quelle forze sostenitrici delle magnifiche qualità risolutive del mercato, ulteriormente indebitarsi senza pretendere di riappropriarsi di poteri regolatori, sia del mercato finanziario sia dello sviluppo economico, che siano rispettosi delle condizioni di vita dei cittadini e dell’ambiente.

L’attuale crisi apre, perciò, un’occasione straordinaria di “cambio di passo” alle forze di ispirazione socialista, riformista e progressista. È il momento di ricostruire un ruolo più decisivo della Politica e della funzione dello Stato. Ciò comporta l’adozione di provvedimenti ed un nuovo intervento pubblico che non sia semplicemente composto da erogazioni finanziarie a fondo perduto, ma la ricostruzione, almeno in parte e dove possibile, di quelle partecipazioni statali che furono colpevolmente eliminate e che, come fu nella loro prima fase, siano protagoniste in settori strategici ed innovativi (anche per la latitanza dei “privati”) nonché nei primari servizi di interesse pubblico. La funzione pubblica può anche essere di sostegno per le imprese private, nella misura in cui esse partecipino attivamente allo sviluppo di programmi funzionali alla crescita del sistema nazionale e della occupazione.

Ciò dovrebbe comportare un nuovo pensiero che si sviluppi in una epoca profondamente diversa dal passato, in una società molto più complessa, dove sono aumentate le distanze sociali, le povertà, le precarietà non solo nel modo del lavoro. In questo contesto andrebbe rimodellato il sistema di welfare soprattutto nelle aree della educazione, della sanità e del contrasto alla povertà, superando per quest’ultimo aspetto la tendenza verso soluzioni meramente assistenzialistiche, spesso di impronta elettorale.

In altre parole, l’attuale crisi è una grande opportunità per avviare un profondo cambiamento ben sapendo che questo non comporta e non può essere in alcun modo il ritorno alle politiche del passato, né per la socialdemocrazia, né per il neoliberismo.