Gli ultimi anni ci sono apparsi come una violenta resurrezione della Storia: le immagini della tragica invasione dell’Ucraina, insieme alle macerie di Gaza, hanno rievocato gli spettri di un’umanità bellicosa che credevamo ormai appartenere al passato. La guerra, finita ai margini della nostra quotidianità, è tornata prepotentemente alla ribalta, conquistando le prime pagine dei giornali e rimescolando i fronti tra interventisti e pacifisti a oltranza. Ma la guerra in sé e per sé non era mai scomparsa – si era solo trasformata. Il fatto è che la seconda guerra mondiale ha segnato un prima e un dopo: la rivalità tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la minaccia di un annientamento nucleare, ha fatto sparire dal tavolo l’opzione di una guerra su scala globale, sostituendola con uno stillicidio di piccoli e medi conflitti dislocati in aree di interesse economico o geopolitico, dove le strategie e le tecniche militari hanno potuto mettersi in discussione, rinnovarsi e a volte reinventarsi.
Il generale David Petraeus, ex direttore della Cia e comandante delle forze statunitensi in Iraq e Afghanistan, è stato un grande innovatore in questo senso, trovandosi di continuo nella necessità di operare su territori ostili, in condizioni di guerriglia e mescolanza fra truppe regolari e terroristi, civili e bande armate. Il generale pubblica ora un saggio, ‘L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del Nazismo al conflitto in Ucraina’ (Edizioni Utet, pagg. 656, Prezzo 34 euro), in cui mette le sue eccezionali conoscenze sul campo a disposizione del pluripremiato storico Andrew Roberts, con il proposito ambizioso di tracciare la parabola evolutiva militare dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dalle due guerre del Golfo a quelle nell’ex Jugoslavia, dall’Afghanistan fino al recente conflitto in Ucraina.
‘L’arte della guerra contemporanea’ riflette sulle cruciali intuizioni sulla natura tecnica dei diversi scontri, su quali siano gli elementi determinanti per il successo e quali gli errori più reiterati, sulle conseguenze di ogni conflitto e su quanto, ancora, dobbiamo imparare dalla Storia. Se è vero che la guerra, come scriveva il teorico militare Carl von Clausewitz, “non è che la politica continuata con altri mezzi”, è dunque inevitabile che i conflitti segnino ancora il nostro presente, evolvendosi in modi sempre nuovi che oggi più che mai è necessario comprendere.
“I leader – scrivono gli autori – che in questo libro sono sia politici che militari, devono avere la padronanza di quattro funzioni principali. Innanzitutto devono avere una percezione generale della situazione strategica di un conflitto e formulare l’approccio strategico adeguato, in sostanza avere l’idea giusta. In secondo luogo devono comunicare l’idea, cioè la strategia, in modo efficace alla loro organizzazione in tutta la sua ampiezza e la sua profondità, e alle parti in gioco. Terzo, devono sovraintendere alla realizzazione di quell’idea, guidando con determinazione incessante il piano della campagna. Per finire, devono stabilire come modificare, adeguare e potenziare l’idea, in modo da poter riapplicare le quattro funzioni più e più volte. Il testimone della storia dimostra che una leadership strategica eccezionale è l’unico prerequisito assoluto per il successo, ma che è rara come il cigno nero”.
Di grande interesse la riflessione su come fronteggiare la guerriglia, o guerra insurrezionale, che specificano gli autori “non costituisce affatto un imbastardimento della guerra normale, in cui gli eserciti si fronteggiano in campo aperto, ma in realtà è stata la norma nel corso di tutta la storia”. Si pensi alle operazioni delle forze americane nel Borneo, la vittoria dei Viet Minh sulla Francia in Indocina, all’Algeria caso da manuale su come non combattere una campagna insurrezionale, alla ribellione del Dhofar, che permette di vedere perfezionate le relazioni civili-militari scelta decisiva per vincere una guerra insurrezionale, fino alle operazioni anti-terrorismo in Iraq. Il generale Petraeus ricorda nel libro che “mentre mi preparavo ad assumere il comando in Iraq, ero convinto che il “surge di idee”, l’ondata di nuove concezioni di base che avrebbero rappresentato il rinnovato impegno in Iraq, si sarebbe dimostrata ancora più importante dell’aumento delle forze in campo”.
A iniziare dalla presenza delle forze statunitensi nei sobborghi, insieme a forze di sicurezza irachene, che avrebbero “vissuto con la gente”, perché questo era l’unico modo per proteggere la popolazione e aumentare il consenso. Inoltre si puntò alla riconciliazione “con il massimo numero possibile di ribelli di basso livello”. “Ottenere l’approvazione di un governo iracheno guidato da sciiti alla riconciliazione con arabi sunniti, che avevano sostenuto tacitamente i ribelli non fu facile, ma alla fine ci riuscimmo”, ricorda il generale Petraeus. Si intervenne anche sulle carceri affinché la detenzione non fosse “un’univerisità per l’addestramento di terroristi” in cui i prigionieri si radicalizzavano ancora di più per il contatto con estremisti intransigenti, ma fosse concentrata sulla riabilitazione e l’addestramento dei giovani iracheni per farli reinserire nelle loro tribù.
Insomma cambiamenti importanti che portarono nel corso dei mesi a risultati importanti: il ritiro delle forze Usa dall’Iraq iniziò nel dicembre 2007 e le ultime brigate se ne andarono nel luglio 2008. La violenza etnica e confessionale era stata ridotta di oltre l’85% nei 18 mesi precedenti e nei 3 anni successivi il numero degli attacchi sarebbe anche essi calati lievemente.
Puntuale e interessante l’analisi sulla guerra ucraina. “Il presidente russo sperava che la sua invasione sarebbe stata rapida, travolgente, un attacco lampo delle forze speciali, dell’esercito regolare e di agenti della quinta colonna contro quella che sembrava un governo ucraino debole e con forze armate mal equipaggiate. L’attacco – scrivono gli autori – sarebbe stato sostenuto da minacce nucleari per scoraggiare un intervento occidentale. Un anno dopo l’invasione, il Royal United Services Institute ha pubblicato uno studio in cui si conclude che la Russia aveva pianificato di invadere l’Ucraina in dieci giorni, per poi occupare il Paese e consentirne la piena annessione entro l’agosto 2022. Ma come accaduto molto spesso in passato, Putin non aveva capito quanto si fosse evoluta la guerra dai tempi dei Blitzkriege e come negli ultimi anni il vantaggio fosse passato decisamente ai difensori rispetto agli attaccanti”. E qui la sottolineatura del ruolo di Zelensky di essere “un leader strategico”.
Il libro sottolinea anche gli errori militari: hanno approvato piani di attacco su ben sette assi, anziché sferrare un attacco diversivo e poi concentrarsi sulla conquista di Kiev, l’impresa decisiva e più importante”. Errori e sottovalutazioni che hanno portato una guerra che doveva durare poche settimane a trascinarsi già per due anni e ancora non se ne vede la fine. (AGI)
CAU