La stentata vita della democrazia parlamentare italiana tra la guerra di Libia del 1911 e il delitto Matteotti del 1924. L’enciclopedico lavoro “Vita e morte della democrazia in Parlamento: 1920-1924” di Domenico Argondizzo e Giampiero Buonomo, edito da Rubbettino, ha il pregio di far parlare largamente i documenti, che altro non sono che gli interventi nelle sedute parlamentari, le mozioni, gli ordini del giorno e gli articoli di giornale a difesa delle prerogative della Camera sempre sotto attacco. Alcuni deputati si battevano contro un sistema che penalizzava fortemente il potere legislativo, lasciando i suoi poteri molto arretrati rispetto alle altre democrazie occidentali: su tutte Inghilterra e Francia. Il Senato, allora di nomina regia, non viene preso in considerazione nel volume. C’è un elemento che balza agli occhi fin dalle prime pagine. Il gruppo politico che si spende di più per la realizzazione delle commissioni permanenti e per difendere le prerogative del Parlamento, davanti alle chiusure forzate e ai silenzi imposti dai vari governi, è quello socialista. Filippo Turati, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani, Arturo Labriola, e poi Giacomo Matteotti, sono i protagonisti principali di questa battaglia. Troveranno di volta in volta come alleati i liberali democratici, i repubblicani e alcuni settori del Partito popolare di don Sturzo. Battaglie premiate da una serie di modifiche regolamentari che, tra il 1920 e il 1922, resero il Parlamento più centrale e autonomo dal potere esecutivo. Tuttavia, sostengono gli autori del libro, “le forze reazionarie, rendendosi conto che non potevano più usare il Parlamento, reso democraticamente efficiente dalle riforme regolamentatrici, come strumento di dominazione, lo svuotarono definitivamente di potere nell’autunno del 1922” con l’avvento del fascismo al potere. Insomma, “si poteva avviare una politica di trasformazione sociale ed economica del paese in senso democratico, la costruzione di un moderno stato sociale entro le strutture di una moderna democrazia parlamentari”, per avvicinare l’Italia ai Paesi più sviluppati. Invece “le pressioni delle oligarchie si fecero stringenti interno al Re” e “la sovversione fascista si presentò come la via di fuga per i poteri oligopolistici dell’industria, del commercio e dell’agricoltura”.
L’Italia aveva un sistema parlamentare fragile, che i liberali di destra e la Corona per primi cercarono di aggirare, e che forse non poteva reggere all’urto dirompente del suffragio universale e delle spinte rivoluzionarie e reazionarie che si scatenarono nel primo dopoguerra. Anche per questo, probabilmente, il fascismo ebbe vita facile a ridurre la Camera “a un bivacco” per i manipoli di Benito Mussolini. Il volume inquadra l’intera vicenda parlamentare di Matteotti (1919-1924) all’interno del processo di soppressione violenta delle istituzioni messe in piedi dallo Stato liberale. Il colpo di stato sabaudo-fascista, per gli autori, venne ideato per chiudere la democrazia parlamentare, alla cui evoluzione in senso occidentale stavano giovando le riforme regolamentari del 1920-22, sostenute in particolare dai socialisti riformisti. Eliminando Matteotti, il duce toglie di mezzo un economista di respiro internazionale e un giurista di valore che sapeva usare le libertà parlamentari con efficacia e sapienza. La strada verso la dittatura, dopo l’omicidio del leader socialista, era spalancata.