Autore: Simone Rapaccini
Uno dei valori fondamentali della riflessione politica è indubbiamente il concetto di giustizia, un argomento trattato più volte dai classici, a partire da Platone e da Aristotele il quale, nel libro V dell’Etica Nicomachea, ne traccia un’analisi considerata per secoli un immutato punto di riferimento, con la sua classificazione tra la giustizia distributiva e quella commutativa.
Il concetto di giustizia è subito accostato da Aristotele ad altri due termini dai quali è praticamente impossibile separarlo, “legge” ed “uguaglianza”: «Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza. Dunque la nozione di “giusto” sarà di “ciò che è conforme alla legge” e “ciò che rispetta l’uguaglianza”» [1].
Se, dunque, giusto è ciò che è legale, corrispondono a giustizia tutte le azioni che sono compiute rispettando la legge, così come è giusto tutto ciò a cui possiamo attribuire il titolo di legittimo. Sarà legittimo un proprietario, ad esempio, quando l’oggetto in questione gli appartiene in base a quanto prescritto nella legislazione. Allo stesso modo un decreto o una sentenza sono giusti quando esprimono e impongono ciò che la legge prevede in determinati contesti. Così un potere è riconosciuto come legittimo – e quindi esercitato a giusto titolo – quando è stato attribuito da chi di competenza, sia esso una qualsiasi autorità, non esclusa quella divina, una norma, come potrebbe essere quella costituzionale, o la stessa volontà popolare. Una cosa diversa, ma rientrante in questo discorso, è la considerazione di un giusto potere quando esercitato nel rispetto delle leggi e non in maniera arbitraria.
Si potrebbe continuare a lungo, fino a quando il discorso non ci porterà a mettere in questione lo stesso metro per la valutazione della giustizia – la legge – e, quindi, a chiederci: quando una legge è giusta? E se una legge fosse da considerarsi ingiusta, partendo dal presupposto che giusto è quanto è conforme alla legge, obbedire a tale legge ingiusta sarebbe ancora un atto di giustizia?
Sul significato di legge giusta si possono dare più risposte. Bobbio ne individua due, una fondata ancora una volta sul concetto di giustizia come legalità, un’altra facente riferimento all’eguaglianza [2], il secondo termine che lo stesso Aristotele affiancava a quello di giustizia – insieme a legge, appunto. Infatti, se rispondiamo che una legge è giusta quando è in corrispondenza con un’altra legge superiore – come può essere una legge ordinaria rispetto ad una norma costituzionale o, ancor di più, il diritto positivo rispetto al diritto naturale – rimaniamo nell’ambito della classificazione della giustizia come legalità, anche se abbiamo raggiunto un livello superiore. È il punto di vista tipico del giusnaturalismo, che postula l’esistenza di un diritto di natura intrinsecamente giusto e per questo superiore al diritto elaborato dagli uomini. Pertanto, la legge prodotta dagli esseri umani è giusta quando non contrasta con i principi di tale diritto. Una tal concezione si ravvisa anche in Aristotele, quando afferma che «del giusto in senso politico ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha dovunque la stessa validità e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro» [3].
La seconda possibile risposta, secondo Bobbio, fa riferimento all’eguaglianza e, dunque, riconosce che una legge sia giusta quando elimina una discriminazione o un privilegio. A ben vedere, anche in questo caso, si giudica della bontà della legge umana in relazione, se non proprio ad una legge superiore, quantomeno ad un ideale che si possiede e si ritiene a sua volta prioritario rispetto alla legge stessa. È un po’ come dire che l’eguaglianza in questo caso è un articolo di quella legge naturale alla quale si deve adeguare la legge positiva. Assumendo anche questa considerazione, i termini del ragionamento non cambiano: una legge, espressione della volontà dell’uomo, non è giusta in quanto tale, ma deve a sua volta corrispondere ad un’altra legislazione, che risiede nella natura stessa e, quindi, è al di sopra degli artifici umani.
A questo punto la nostra attenzione si deve spostare sulla legge naturale, che Aristotele definisce come «ciò che è per natura [ed] è immutabile ed ha ovunque la stessa validità […] mentre le norme di giustizia sono mutevoli» [4]. Non ha importanza, allora, che le leggi umane siano diverse da luogo a luogo e di epoca in epoca, ma per poterle giudicare giuste, bisogna che almeno i contenuti del diritto di natura siano il più possibile uniformi, affinché una medesima legge non sia ritenuta giusta da alcuni e ingiusta da altri, in definitiva, affinché ci sia una criterio oggettivo per giudicare della giustizia della legge.
Una pretesa del genere risulta, però, del tutto problematica. Infatti, che gli uomini non riconoscano unanimemente dei principi naturali ai quali conformare i propri principi giuridici, è un dato di fatto, riscontrabile in ambito storico – sia da un’epoca all’altra, sia nella divergenza di opinioni all’interno della stessa epoca. Ci sono dei valori che vengono riconosciuti come tali da tutti o dalla quasi totalità, ma ce ne sono altrettanti, forse di più, sui quali non c’è convergenza o sui quali, nel tempo, c’è stato un mutamento di posizione. Facendo degli esempi, il concetto che gli uomini siano per natura uguali in quanto tali, non è sempre stato ritenuto un fondamento dei rapporti sociali, poiché altrimenti non sarebbe stata tollerata la schiavitù. La stessa cosa per la parità tra uomo e donna.
Ritenere giustizia l’osservanza di una legge e dare alla legge l’attributo di giusta se risulta conforme alla legge naturale, senza poter riconoscere a quest’ultima criteri di oggettività, non conduce ad una conclusione univoca. D’altronde «la nozione di “natura” è cosi equivoca, che sono stati considerati come naturali diritti diametralmente opposti» [5], anzi, secondo Bobbio, anche se ci fosse unanimità su ciò che è naturale, non ci sarebbe unanimità su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Infatti, constatare che la natura e l’uomo sono fatti in un dato modo e possiedono determinate caratteristiche, è un giudizio di fatto, ma se si prosegue asserendo che tutto questo sia giusto o non giusto, che sia bene o male, si compie un passo ulteriore, perché si dà un giudizio di valore [6]. Dire o constatare che le cose stanno in un certo modo è una questione diversa dal dire che le cose vanno bene così come sono.
Tornando al punto di vista giusnaturalistico, il problema non cambia molto neppure prendendo in considerazione quella scuola di pensiero che non considera il diritto naturale come un insieme di concetti giuridici immutabili nel tempo, ma al contrario come un panorama che si arricchisce progressivamente, si amplia e che l’uomo giunge a comprendere sempre con maggiore determinatezza. La riflessione continua della ragione umana sulla natura dell’uomo, sui suoi diritti e dignità conduce progressivamente ad una comprensione più completa e puntuale dei diritti già riconosciuti o al riconoscimento di nuove garanzie giuridiche. In questo modo il diritto naturale è liberato da una rigidità che mal si concilia con il fatto che non c’è concordanza sui suoi contenuti, ma mantiene le distanze dal legalismo e nello stesso tempo continua ad essere il giudice del diritto positivo, stabilendo quando una legge sia giusta o ingiusta e, di conseguenza, diventa legittimo rifiutarne l’obbedienza. In questo modo «l’istanza giusnaturalistica specifica non è tanto (nonostante le apparenze) quella dell’eternità e dell’immutabilità dei precetti del diritto naturale, quanto quella della non-arbitrarietà» [7]. Il ricorso ad una legge naturale di riferimento è un modo per evitare che la legge positiva sia arbitraria, ossia sia costruita sull’esclusiva volontà e, quindi sul potere, di chi è chiamato ad elaborarla. Il legislatore avrà veramente agito bene se ne rispetterà i principi generali. Ora, quest’ultimo modo di vedere la legge naturale la rende più flessibile, giustifica le interpretazioni e le letture diverse che ne sono state date nel tempo, ma ai fini della valutazione della giustizia di una legge positiva ancora non è in grado di fornire una risposta univoca e universale.
A conclusioni diverse giungiamo se seguiamo altri autori, tra i quali Hobbes, il quale pur tuttavia si inscrive ancora nel filone del giusnaturalismo. Secondo l’autore, le due leggi – naturale e civile – si contengono reciprocamente «poiché le leggi di natura che consistono nell’equità, nella giustizia, nella gratitudine e nelle altre virtù morali da queste dipendenti, nelle condizioni di mera natura non sono propriamente leggi, ma qualità che dispongono gli uomini alla pace e all’obbedienza» [8]. La giustizia, dunque, è una virtù morale contenuta nella legge naturale, ma quest’ultima non si può definire propriamente legge finché non si tramuta in legge civile, cosa che può avvenire solo all’interno di una organizzazione statale, poiché il potere sovrano che obbliga ad obbedire è il potere dello Stato. Ed occorrono delle ordinanze del potere sovrano per dichiarare, nelle controversie, che cosa siano l’equità e la giustizia. Quest’ultima consiste, secondo Hobbes, nell’adempiere ai patti e nel dare a ciascuno il suo, ed è un dettame della legge di natura [9]. Siccome ogni suddito, in uno Stato, ha pattuito di obbedire alla legge civile, ne consegue che il rispetto della legge civile è un adempimento di giustizia ed una parte della legge di natura. Per l’autore tra le due legislazioni vi è uno stretto legame, poiché quella naturale è la legge non scritta e quella civile è la legge scritta, per questo può dire che l’una è parte dell’altra. Anche nel De Cive, Hobbes aveva espresso la convinzione che la legge naturale comanda di obbedire a tutte le leggi civili in virtù della medesima legge naturale che impone il rispetto dei patti [10]. Considerando, quindi, che con un patto viene costituito lo Stato, nell’atto stesso della sua costituzione è insito l’obbligo di sottostare a tutte le leggi civili che da esso saranno emanate. E allora, se è giusto rispettare i patti, è giusto obbedire a tutte le leggi civili e non si pone il quesito circa la giustizia di una legge. E se una legge civile contrastasse apertamente una legge naturale? Non esiste il problema, poiché secondo Hobbes, in virtù di quel medesimo obbligo all’obbedienza, nessuna legge civile può essere contraria alla legge naturale. E «per quanto la legge naturale proibisca il furto, l’adulterio, ecc., se poi quella legge civile comanda di commettere qualche usurpazione, tale usurpazione non è più furto, adulterio, ecc.» [11]. Se la legge ti permette di appropriarti di alcuni beni che appartengono ad altri, automaticamente quei beni diventano tuoi, quindi viene meno il delitto del furto.
Il concetto di giustizia nasce, dunque, dalla legge di natura, che impone agli uomini di rispettare i patti e, di conseguenza, l’ingiustizia è il non adempimento del patto. Tuttavia, nello stato di natura non è possibile parlare propriamente né di giustizia né di ingiustizia, poiché non vi è un’autorità che possa controllare il rispetto di tale patto da ambo le parti. Ciò è possibile solo dopo l’istituzione di uno Stato, all’interno del quale risiede un potere coercitivo che può costringere gli uomini al rispetto dei patti, prospettando loro una punizione in caso di infrazione. In conclusione, senza una legislazione civile non si può nemmeno parlare di giustizia, e siccome la legge civile deriva da un potere a cui è stato dato il proprio consenso attraverso un patto, rispettare tale legge è la natura della stessa giustizia, perché quella legge a cui si deve obbedire esiste in virtù di quel patto che tutti hanno stipulato.
Rispetto alla concezione precedentemente esaminata, secondo la quale una legge può definirsi giusta solo se corrispondente e non in opposizione alla legge di natura, nel caso di Hobbes, le due parti sono strettamente legate, per cui non si pone il quesito. È una posizione vicina alla concezione legalistica della giustizia che, appunto, ne riduce la questione al problema della legalità: non può mai essere arbitraria una legge, perché in quanto tale è giusta e deve essere rispettata.
Provenendo da un altro percorso, ma muovendo in una direzione simile, il positivismo giuridico sostiene che la giustizia ha una validità esclusivamente storica e non è un valore giustificabile con la ragione. Infatti, secondo questo punto di vista, nel momento in cui qualcuno afferma che una certa norma è ingiusta non fornisce alcuna giustificazione razionale per sostenere il suo discorso, perché non si riferisce ad alcuna qualità che sia riscontrabile all’interno dell’ordinamento giuridico, ma si limita ad esprimere un’emozione, semplicemente la sua contrarietà alla norma. La conoscenza razionale può rivolgersi solo ad un ordinamento positivo, il diritto così come è, senza tutelarlo come giusto o condannarlo come ingiusto. E allora la giustizia è identificabile con il diritto vigente oggi, come lo era con il diritto vigente ieri e lo sarà con quello di domani. La giustizia, secondo Kelsen, è un ideale irrazionale, non suscettibile di conoscenza. Dal punto di vista razionale esistono interessi che confliggono tra loro e ogni ordinamento può soddisfarne uno a scapito degli altri o al limite può cercare di mediare tra interessi diversi, ma «che solo uno di questi due ordinamenti sia “giusto” non può venir stabilito dalla conoscenza razionale», il cui compito è la ricerca del «diritto reale e possibile, non quello esatto» [12]. Questo poiché, a parere dell’autore, il valore del diritto è oggettivo, mentre il valore di giustizia è soggettivo, nonostante talora un gran numero di persone abbiano lo stesso ideale di giustizia. I giudizi di giustizia intenderebbero esprimere un valore oggettivo, ma in realtà sono determinati dal desiderio del soggetto che giudica. In pratica, se si esce dal campo del diritto positivo non è più possibile dare una risposta razionale ai problemi. [13].
Riflettiamo, ora, sull’assunto che la giustizia sia un ideale irrazionale e la richiesta di un ordinamento giuridico giusto sia una mera pretesa emotiva. È pur vero che, come sostengono i fautori del positivismo giuridico, non è possibile pervenire ad una visione univoca del concetto di giustizia, come del resto abbiamo constatato prendendo in considerazione il punto di vista del giusnaturalismo. L’istanza alla giustizia può anche nascondere una componente emotiva, ma come abbiamo ricordato proprio all’inizio del nostro discorso, è una tematica che coinvolge la riflessione filosofica fin dai primordi. Possiamo quindi asserire che una delle discussioni più ampie del dibattito razionale dell’uomo occidentale sia stato mosso da spinte emotive? Certamente, in questa riflessione non abbiamo parlato della giustizia in quanto tale, ma l’abbiamo circoscritta al suo rapporto con la legge, tuttavia non si può non considerare che si tratti di una parte di un ambito più esteso. Non ci pare sufficiente dire che il diritto è oggettivo perché è qualcosa di dato, formulato, mentre la teoria della giustizia è almeno in parte soggettiva, per concludere che il primo sia un valore accertabile dalla ragione e la seconda appartenga al mondo dell’irrazionalità. Il positivismo giuridico studia il diritto come fatto (un insieme di norme), in termini avalutativi, per cui non è contemplata alcuna distinzione tra il giusto e l’ingiusto. Quando si affronta il diritto come insieme di valori, allora ci si pone il problema della giustizia e si può, come fa il giusnaturalismo, accettare la validità di una norma quando essa è giusta. Secondo la visione del positivismo giuridico il diritto ha sempre valore in sé a prescindere dal contenuto delle leggi e la sua validità coincide con la sua giustizia. Da tali argomentazioni si trae la risposta alla domanda che ci eravamo posti nelle battute iniziali del nostro ragionamento: si deve obbedire ad una legge ingiusta? Alle norme giuridiche si deve obbedire per se stesse, poiché sono giuste in quanto valide. Bobbio trae due massime opposte, attribuibili rispettivamente al positivismo e al giusnaturalismo; per il primo suona così: «Si deve ubbidire alle leggi in quanto tali», mentre per il secondo «si deve ubbidire alle leggi solo in quanto sono giuste», in modo tale che nel caso del positivismo giuridico «le leggi sono esse stesse criterio del giusto e dell’ingiusto; nel secondo caso, le leggi sono alla loro volta esposte ad un criterio superiore di valutazione» [14].
Il positivismo giuridico, dunque, prende in considerazione le norme in quanto poste in essere dal legislatore, a prescindere dai contenuti e quindi dalla valutazione sulla loro giustizia. Tuttavia, è bene che un ordinamento giuridico e ogni parte di esso siano sempre osservati con la lente del giusto e dell’ingiusto, poiché «non esiste potere in seno alla società la cui influenza non diventi dannosa quand’esso regni incontrollato, non appena divenga esente da qualsiasi necessità di essere nel giusto». [15].
Come abbiamo già visto, il concetto di giustizia è legato a doppio filo con quello dell’eguaglianza e, nel tentativo di individuare un possibile criterio per valutare la giustizia di una legge, non si può fare a meno di tenerne conto. Il paradigma su cui ora si fissa la nostra attenzione, declina l’eguaglianza come quel «valore intrinseco della eguale dignità di chiunque e di ciascuno», in virtù della quale, secondo Salvatore Veca, «siamo tenuti a trattarci mutuamente in modi che siano coerenti con le ragioni che chiunque accetterebbe o non rifiuterebbe» [16]. L’eguale dignità di chiunque e di ciascuno è senza dubbio un ideale che merita di essere preso in considerazione all’interno di un complesso legislativo, anche se, almeno in un primo momento, risulta troppo astratto e indecifrabile, aperto a contenuti di ogni genere. L’esemplificazione di Veca ci offre un modello in relazione al quale possiamo intendere secondo giustizia una legge o un provvedimento che, sulla base di motivate ragioni, non incontri il rifiuto di qualcuno. Anche in questo modo, però, non risulterebbe facile determinare univocamente quando si possa parlare di “motivate ragioni”, seppure queste ragioni vadano nella direzione di «includere gli esclusi, rendere visibili gli invisibili, abilitare alla presa di parola chi è socialmente o istituzionalmente sanzionato come afono o afasico» [17].
Nel tentativo di esplicitare ulteriormente il senso dell’eguale dignità di ogni individuo, che la legge deve rispettare e non può ledere, per poter essere definita giusta, facciamo riferimento a John Stuart Mill e alla massima secondo cui «il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. […] Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causar danno a qualcun altro» [18]. L’eguale dignità di chiunque e di ciascuno sarebbe garantita, allora, quando non si impone dall’esterno una limitazione che comprometta la libera espressione, nemmeno per un presunto benessere fisico o morale che, evidentemente, non può essere individuato da qualsivoglia autorità né dalla comunità nel suo insieme né dalla maggioranza dominante. Diverso è il caso dell’intervento correttivo che ha lo scopo di evitare che l’azione dell’individuo sia mirata a causare il danno altrui. Ma anche in questa evenienza si deve trattare di un danno accertato, ineluttabile, non di una supposizione o di un’ipotesi, per quanto accreditata. Su questa linea si pone ancor con maggior vigore Nozick, il quale rileva che il potere coercitivo dell’autorità dello Stato non possa proibire «alle persone determinate attività in vista del loro stesso bene o protezione» [19].
Si potrebbe ancora obiettare che un’infinità di azioni individuali, o forse tutte, potrebbero avere in un modo o in un altro un impatto negativo sulla collettività, magari non immediato o non visibile in maniera istantanea. Ad esempio, alcuni stili di vita, compresi quelli alimentari, hanno un impatto ecologico più alto rispetto ad altri e, in definitiva, finiscono per pregiudicare la vita collettiva. Ribadendo che, per porre significative limitazioni alla libertà, per incidere in maniera poderosa sulla vita del cittadino, si deve trattare di danni sociali fondati su basi reali e inequivocabili, non su una semplice presunzione, magari impostata sul pensiero dominante o sull’onda emotiva del momento, possiamo replicare, anche stavolta con le parole di Mill, che «per quanto concerne il danno puramente contingente o, come lo si può chiamare, costruttivo che un individuo causa alla società con una condotta che non infranga alcun dovere specifico verso il pubblico, né leda percettibilmente alcuna persona precisa salvo l’individuo stesso, si tratta di un fastidio che la società può permettersi di sopportare, negli interessi di un bene maggiore, la libertà umana» [20].
È conforme al rispetto dell’eguale dignità il non voler imporre le opinioni e i sentimenti che primeggiano nel pubblico sentire, piegando ad essi chi dissente, imponendo alle individualità discordanti, come le chiama Mill, di conformarsi al modello dominante, ma rispettando la piena legittimità della minoranza, la cui sussistenza e il cui diritto di cittadinanza sono elementi essenziali ancor più in un sistema politico che voglia qualificarsi democratico. È la difesa dell’eccentricità, che non di rado per Mill coincide con il vigore intellettuale e il coraggio morale. Gli uomini, infatti, necessitano di condizioni diverse per il proprio sviluppo spirituale: i fattori che favoriscono l’emergere della natura più elevata di una persona possono risultare di ostacolo per un’altra, poiché gli esseri umani risultano assai diversi nella loro sensibilità e nella statura morale ed estetica.
Il grande bene della libertà umana, dell’espressione della individualità peculiare, salvo quando questa nuoccia direttamente e indiscutibilmente ad un bene o ad un diritto appartenente ad un altro individuo o alla collettività, può ben considerarsi come la stella polare di quella “eguale dignità” che la legge deve sempre rispettare affinché sia considerata giusta.
Rivendicare il diritto di poter contestare una legge quando sia ingiusta è un po’ come ribadire che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» [21] – ossia la legge è al servizio dell’uomo e non viceversa – ricordando che proprio per questo principio Gesù ha invitato il malato guarito a prendere il suo lettuccio e camminare, trasgredendo la legge che di sabato gli proibiva «di prendere su il lettuccio» [22].
1] Etica Nicomachea, V,1,1129a 32-1129b 1 (la traduzione che proponiamo è di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993), il corsivo è nostro.
2] Cfr. N. BOBBIO, Sul concetto di giustizia, in ID., a cura di M. Bovero, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 2009, p. 259.
3] Etica Nicomachea, V,7,1134b 19-20.
4] Ivi, V,7,1134b 26-27.
5] N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 53.
6] ID., Locke e il diritto naturale, Giappichelli, Torino 1963, p. 70.
7] J. MARITAIN, L’uomo e lo stato, Marietti, Genova 2003, p. 93.
8] Th. HOBBES, Leviatano, trad. it. di Gianni Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 261.
9] Ivi, p. 262.
10] Th. HOBBES, De Cive, XIV, 10.
11] Ibidem.
12] H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, a cura di S. Cotta, Comunità, Milano 1984, p. 13.
13] Ivi, pp. VIII e ss.
14] N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, op.cit., p. 115.
15] J. S. MILL, Sulla “Democrazia in America” di Tocqueville, a cura di D. Cofrancesco, Guida editore, Napoli 1971, p. 166.
16] S. VECA, L’eguale dignità, in G. BOSETTI, a cura di, Sinistra punto zero, Donzelli, Roma 1993, pp. 154-155.
17] Ivi, p. 158.
18] J. S. MILL, Saggio sulla libertà, trad. it. di Stefano Magistretti, Il Saggiatore, Milano 1991, pp. 12-13.
19] R. NOZICK, Anarchia, Stato, utopia. I fondamenti filosofici dello “Stato minimo”, trad. it. di G. Ferranti, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 17.
20] J. S. MILL, Saggio sulla libertà, op. cit., p. 94.
21] Mc 2, 27.
22] Cfr. Gv 5, 1-16.
Fonte: Pensiero Filosofico