Nel sud-est della Sicilia è pronta ad aprire al pubblico la Fabaria, un tragitto di 300 chilometri che attraversa cinque province
Articolo tratto da La Freccia
@VALENTINA LO SURDO
In apertura, il litorale verso la Riserva di Punta bianca (AG)
Un percorso principale di sconcertante bellezza e due varianti secondarie a innervare la ricca esplorazione del mito e della storia normanna a ritmo lento, lasciando impronte nella cuspide orientale della Sicilia. La Fabaria, la via dell’acqua e della lava, è un tragitto di 300 chilometri da percorrere in 14 giorni, che attraversa cinque province (Agrigento, Caltanissetta, Ragusa, Siracusa e Catania) e 20 comuni, dalle spiagge del Mediterraneo fino alle pendici della “Muntagna”, l’Etna, che domina il paesaggio per 250 chilometri.
La strada, che sarà ufficialmente aperta al grande pubblico nel 2023, collega l’antica Girgenti (Agrigento) con Catania e l’alta valle del Simeto, su sentieri bianchi, battigia, trazzere pubbliche e strade a basso scorrimento di traffico che si integrano anche con la mobilità dolce del treno, in caso di eventuali difficoltà a piedi.
Le origini risalgono all’Anno Domini 1105, quando l’isola era ormai da una ventina d’anni normanna e nel centro di Bizini – l’odierna Vizzini, in provincia di Catania – il barone Achinus concesse un terreno in dono all’abate Ambrogio, vescovo della diocesi di Lipari-Patti. E nel testo del lascito in latino emerse la testimonianza di una Via Francigena: «Questa terra appartiene nominalmente a Licodia e in questo modo inizia il suo percorso e va lungo la via francigena Fabaria. Dopodiché, prosegue per una cresta montuosa tagliata da un fico selvatico». Una citazione, dunque, che parla di un territorio ricco d’acqua che motiva il toponimo “favara”, dall’arabo fawar, fonte, sorgente, pozza d’acqua.
Distese di campi ai piedi dell’Etna (CT)
Il cammino, dunque, basato come tutte le vie francigene siciliane su un intricato sistema di percorsi, da Agrigento si dirige a Oriente, compendiando le componenti latina, greco-bizantina, musulmana, normanna, lombarda e levantina. Unisce strade di epoche diverse: dalla via selinuntina del III secolo d. C., che da Agrigentum procedeva verso il porto di Terranova, l’odierna Gela (CL), alla via normanna che collegava la costa con l’interno fino a Lentini (SR). Una via che sin da subito sa offrire assaggi di storia permettendo di scegliere tra una variante di costa, che collega i punti delle stationes di sosta romane come Dedalioo Plintis, e una variante di monte che passa per i castelli di Naro e Ravanusa, in provincia di Agrigento, e Butera, la ribelle, nel comune di Caltanissetta.
Le distese di campi e cicogne portano poi il viandante a Niscemi (CL), quindi nella provincia catanese, a Caltagirone, terra di San Giacomo e delle famose ceramiche, per poi superare Grammichele, Mineo e Militello, giungere alla bizantina Leontini e finalmente a Catania. Da segnalare la magnifica variante verso i Monti Iblei e le barocche Ibla e Modica (SR). La via principale, invece, segue il Simeto, lungo il versante ovest dell’Etna, nel catanese. I castelli normanni di Paternò, Santa Maria di Licodia, Adrano e Bronte testimoniano un controllo del territorio capillare, costellato da testimonianze architettoniche di valore come l’abbazia di Santa Maria di Maniace, con il suo pregiato portale altomedievale, destinazione finale del tragitto.
Si deve all’associazione Amici dei Cammini Francigeni di Sicilia il recupero di questa via, con la pubblicazione di una guida per Terre di Mezzo editore. E se il trend mondiale dei viaggiatori a piedi continua ad aumentare, da dieci anni a questa parte anche camminare in Sicilia sta diventando un fenomeno importante con circa 2000-2200 presenze annue.
Una cuba bizantina lungo la Via nei pressi di Paternò (CT)
«La via Fabaria è un viaggio che conduce in un territorio ricco di sapori e tradizioni di un Oriente qui sentito più vicino», racconta Irene Marraffa, la creatrice del cammino insieme a Davide Comunale e Salvatore Balsamo. «Quando l’abbiamo percorsa per la prima volta l’abbiamo denominata “la bellezza violata”, per sottolineare come il suo incredibile splendore sia stato abusato da opere umane invasive, come il polo petrolchimico di Gela, il Muos di Niscemi, la base aerea di Sigonella. Oltre ai danni dell’alluvione di Licata e la presenza di discariche in prossimità della piana di Lentini-Catania», continua.
«Ma per fortuna il territorio sta facendo molto per restituire ciò che l’uomo ha sottratto ai paesaggi. Per esempio, Gela ospita anche il più grande museo archeologico di Sicilia dopo Siracusa e Palermo. Una parte fondamentale di questo lavoro nasce dalla consapevolezza degli abitanti, che si sono organizzati anche in comitati di accoglienza per supportare il Cammino: verificano i percorsi, ci aiutano con le ricognizioni, organizzano eventi per far conoscere l’itinerario. Sono loro il motore della rinascita».
Da archeologo, Davide Comunale suggerisce di percorrere l’itinerario in due moduli da sette giorni ciascuno: «Il primo tratto è sul solco di antichi tracciati del periodo romano e di quello bizantino, il secondo segmento ricalca invece trazzere alto-medievali che collegavano la costa meridionale con i feudi dell’interno». Dall’alto si può ammirare un magnifico tracciato: «Lasciata Agrigento con la Valle dei templi, si raggiunge la costa in direzione di Punta Bianca, da cui parte il sentiero fino al castello di Palma di Montechiaro, la città del Gattopardo. La pietra arenaria del convento delle Benedettine ci riporta ai colori dell’entroterra contadino fino a Licata, piccolo borgo marinaro, tra fiumi e castelli».
Notte stellata alla Torre di Manfria (CL), sec. XVI
Così prosegue ancora Comunale: «Seguono due tappe lungo la costa, fino al castello di Falconara e alla Torre di Manfria, per un emozionante percorso sulla battigia fino a Gela. L’antica colonia greca, rifondata da Federico II di Svevia, appare oggi come una città in cambiamento, tra desiderio di riscatto e bellezza violata da industrie e noncuranza».
Il percorso continua risalendo la piana di Gela, in direzione di Niscemi (CL), «tra campi di carciofi e nidi di cicogne della colonia più grande d’Europa». Lasciata la costa si arriva nel Catanese, a Caltagirone, patria delle ceramiche di Sicilia, e Grammichele, città dalla pianta esagonale, fondata dopo il terremoto del 1693, che diede vita al barocco siciliano. Seguono le rocche di Mineo e Militello e da lì si comincia a vedere la pietra lavica come colore preponderante: «L’Etna è sempre più vicino e, sulla riva sinistra del Simeto, l’antica Lentini segna un limite dal quale il viandante dovrà usare il treno per raggiungere Catania, la seconda città di Sicilia».
Subito dopo, un nuovo ambiente attende i passi del viaggiatore che, seguendo il fiume, costeggia il vulcano a ovest toccando le roccaforti di Paternò, Biancavilla e Adrano (CT). «Qui la via si affianca ai sentieri di San Nicolò Politi e all’omonimo trekking che ci porta sui costoni lavici fino a Bronte, nel Parco regionale dell’Etna. Un ultimo sforzo guida il pellegrino fino a Santa Maria di Maniace, l’abbazia bizantino-normanna che chiude il percorso alle porte della vicina Randazzo. Terra di castelli e chiese, di boschi e bellezza».
Articolo tratto da La Freccia