Di Ferruccio de Bortoli
d La legge Sulla concorrenza sarebbe annuale ma ne abbiamo approvate solo quattro in quattordici anni d La mappatura generosa I litorali adattati per ridurre le percentuali e non far emergere l’elemento della scarsità del bene
Non c’è inganno più feroce della promessa che si sa di non poter mantenere. I gestori degli stabilimenti balneari dovrebbero esigere persino i danni. Ai tanti che — in vari governi — li hanno illusi e continuano a illuderli che le concessioni (in scadenza teorica alla fine di quest’anno) saranno prorogabili in eterno. Ovvero che si possa evitare di metterle prima o poi a bando, sfidando non solo le regole europee — che abbiamo sottoscritto non subìto — ma anche la stessa giustizia amministrativa italiana. La legislazione è incerta, i Comuni vanno in ordine sparso. Nell’incertezza si investe di meno, c’è minore spinta alle aggregazioni che darebbero più forza competitiva alla categoria, migliori servizi, tariffe più contenute. E i cittadini che sono, fino a prova contraria, i proprietari indiretti dei beni demaniali dovrebbero, a loro volta, chiedere conto allo Stato del perché faccia rendere così poco le aree che possiede, di fatto impoverendo se stesso e i suoi amministrati, cioè noi. I canoni versati sono intorno ai 115 milioni l’anno. Il Comune di Milano, per gli affitti della sola Galleria Vittorio Emanuele, ne incassa 75. Tanto per dare un’idea dello spreco di denaro pubblico.
I balneari che ieri in pochi hanno scioperato simbolicamente (in realtà si trattava casomai di serrata) versano una miseria rispetto al fatturato.
Ed è come se altri operatori, magari tra gli ospiti degli stabilimenti per le loro meritate vacanze, potessero pagare la materia prima a prezzi irrisori (lo fanno per la verità anche le banche sui depositi) indipendentemente dal fatto che sia una risorsa scarsa. Se l’economia si reggesse su questo principio sarebbe ferma al Medioevo. Se il commercio internazionale fosse animato dallo stesso spirito, il made in Italy resterebbe in Italia. Frontiere chiuse. Pensate solo a un Paese con concessioni interminabili degli spazi pubblici, che magari si passano da una generazione all’altra, senza spazio per i giovani fuori dalla famiglia. È come avere strade e piazze occupate da chi ha antiche licenze commerciali, privilegio di inossidabili corporazioni, con affitti bloccati anche in pieno centro (nella Galleria di Milano lo furono per tanti anni, soprattutto per clientele politiche varie). Aggiungiamo che, con l’esplosione post Covid dei dehor, siamo ormai vicini a considerarli alla stregua di «spiagge» urbane. E, infatti, si è scelta la via della proroga.
La concorrenza in Italia non piace. Lo testimonia il fatto che dovendo fare (per legge) una legge annuale sulla concorrenza ne abbiamo approvate solo quattro in quattordici anni. Non piace solo ai balneari o ai tassisti ma anche a chi ha più potere economico e meno visibilità. Le preoccupazioni dei gestori degli stabilimenti sono comprensibili. Ma li inducono a far leva più sulle protezioni politiche che sulle proprie potenzialità imprenditoriali.
Il governo cerca affannosamente di trovare un difficile compromesso con la Commissione europea, guadagnando tempo. Si studia di mettere al bando per prime, ma il più tardi possibile (a fine 2025 l’opzione minima), le concessioni là dove rappresentino una risorsa scarsa, secondo i criteri della contestatissima direttiva Bolkestein. E sulla base, peraltro, di una mappatura generosa di litorali adattabili, in modo da ridurre le percentuali di occupazione e non far emergere l’elemento della scarsità del bene (sarebbero libere al 67 per cento). Gli operatori balneari, comunque, vanno tutelati per gli investimenti fatti, eventualmente indennizzati (allo studio anche la possibilità di prelazioni), magari ispirandosi a quanto è accaduto in Spagna e Portogallo. Il commercio al minuto, quel poco che si è salvato dall’arrivo della grande distribuzione, ha saputo consorziarsi e sfidare, con successo, agguerriti gruppi nazionali e internazionali.
Difficile, se non impossibile, che una forte aggregazione locale di operatori balneari — rappresentanti di una comunità, di una tradizione di accoglienza, di una cultura del territorio — possa perdere una gara. Le economie di scala farebbero bene a tutti e consentirebbero di salvaguardare meglio l’ambiente, pulire le spiagge, difenderle dall’erosione. Anche con qualche non trascurabile vantaggio per i clienti, per i turisti. E non ultimi i cittadini italiani, attraverso i maggiori incassi dello Stato. Quello che non deve più accadere è invece la ripetizione dello scandalo — che la Lega ha sepolto nei suoi archivi — delle quote latte europee che parte degli allevatori non volevano rispettare. E anche allora furono ammaliati da promesse irrealizzabili. Si sa come andò a finire. L’italia, deferita alla Corte di giustizia europea, sopportò oneri per 4,5 miliardi. E le multe, di fatto, le pagarono tutti i cittadini. Anche quelli che non erano mai saliti su un trattore.
Fonte: Corriere