Tensioni in Sahel
A dieci anni dallo scoppio del conflitto in Nord Mali, gli equilibri politici e militari nel Sahel centrale non accennano a stabilizzarsi. Se l’attivismo armato di gruppi jihadisti e milizie etniche è all’origine di una incessante escalation di violenze politiche nel Liptako-Gourma, al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso, la graduale regressione autoritaria nella regione e la destituzione di governi civili eletti in Mali, Ciad, Burkina Faso, hanno aggravato la dimensione politico-istituzionale di quella che tutti gli analisti definiscono una crisi multidimensionale. Pur a fronte di specificità proprie e contesti peculiari, i due colpi di stato succedutisi a Bamako tra agosto 2020 e maggio 2021, la presa di potere dei militari a N’Djamena seguita all’uccisione del presidente Idriss Déby, e il putsch che ha destituito Alpha Condé in Guinea costituiscono un campanello d’allarme per la Comunità Internazionale e per i governi africani, prefigurando i rischi di un contagio su larga scala delle dinamiche di instabilità politica regionale.
Il golpe di gennaio 2022 in Burkina Faso aggiunge un tassello ulteriore al complesso mosaico regionale. L’intervento dei militari a Ouagadougou non giunge inaspettato: negli ultimi mesi, le manifestazioni popolari di protesta nella capitale e nelle principali città del paese hanno restituito il segno di una progressiva delegittimazione del regime di Marc Roch Christian Kaboré, presidente eletto per un secondo mandato soltanto nel dicembre del 2020, al termine di elezioni che sembrarono accreditare la repubblica burkinabé su un cammino promettente – seppur intrinsecamente fragile – di consolidamento democratico, a cinque anni di distanza dalla rivoluzione che nel 2015 aveva rovesciato il regime di Blaise Compaoré. La diffusa insicurezza legata all’incremento delle violenze jihadiste, profonde diseguaglianze sociali, elevati livelli di corruzione e una crescente intolleranza nei confronti delle forze militari esterne hanno contribuito ad aggravare le profonde fratture sociali e politiche nel paese, garantendo alla giunta del colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba un discreto sostegno popolare. In tal senso, la saldatura tra le istanze della cittadinanza e le rivendicazioni dei corpi militari nei confronti del regime hanno plasmato un contesto favorevole al colpo stato, sottoponendo il governo a pressioni incrociate difficili da gestire.
L’insufficienza della risposta statale alla minaccia jihadista – che ha fatto del paese il nuovo epicentro dell’insicurezza regionale, scalzando il Mali per numero di eventi violenti nel 2021 – ha costituito una evidente e immediata ragione di insoddisfazione nei confronti di Kaboré. A novembre, le forze armate burkinabé furono vittime del più grave mai subito: a Inata, nella provincia settentrionale di Soum, un distaccamento della gendarmeria fu preso d’assalto dagli insorti di Ansaroul Islam, un’organizzazione jihadista affiliata al network Jama’a Nusrat ul-Islam wa al-Muslimin’ (JNIM)) e attiva principalmente nel nord del Burkina Faso. All’attacco di Inata, che causò la morte di 53 militari, fece seguito la reazione rabbiosa delle popolazioni civili contro il governo, incapace di reagire efficacemente alla minaccia terroristica, e contro i partner occidentali, considerati un fattore ulteriore di destabilizzazione. Pochi giorni dopo, un convoglio francese in transito dal territorio burkinabé e diretto verso Gao, in Mali, per garantire rifornimenti logistici alle truppe di Barkhane, fu bloccato a Kaya, nel nord-est del Burkina Faso, da manifestazioni popolari spontanee in cui si accusava la Francia di fornire armi agli insorti jihadisti – leit motiv delle campagne di disinformazione in Sahel – e di depredare le ricchezze del paese.
Tra le principali ragioni di malcontento si denunciava una strutturale carenza di equipaggiamenti e risorse a cui le forze armate dispiegate nel nord contro i gruppi jihadisti erano costretti a far fronte. Per ragioni analoghe, alcuni mesi prima, la stabilità del regime era stata messa a dura prova: il massacro di Solhan, nella provincia nord-orientale di Yagha, e un impressionante bilancio di oltre 160 vittime civili, spinsero le opposizioni e i membri della società civile a richiedere con insistenza le dimissioni del presidente Kaboré. Il fallimento delle strategie di difesa nazionale e delle misure di protezione delle comunità civili si riverberò sugli equilibri di governo: Kaboré cercò una parziale via d’uscita dall’impasse politico in cui si trovava attraverso la rimozione dei ministri di Sicurezza e Difesa, e la nomina di un alto ufficiale militare, Aimé Barthélemy Simporé, alla guida della difesa nazionale.
Il 25 novembre, parlando alla nazione in seguito ai fatti di Inata, Kaboré ammise di comprendere le ragioni delle proteste. Annunciò un piano di riforme per il rafforzamento delle capacità operative dell’esercito e il potenziamento della sicurezza nel nord, garantendo interventi immediati per il pagamento dei salari delle forze armate e la fornitura di armi, munizioni e generi di sussistenza alle unità di polizia ed esercito nelle aree periferiche del paese. Il 3 dicembre prese il via un ampio piano di ristrutturazione degli apparati militari: di fatto, si dava attuazione a un progetto di riforma del settore di sicurezza che per lungo tempo era stato sollecitato, e rispetto al quale, tuttavia, Kaboré si era sempre mostrato reticente. La svolta rispondeva chiaramente alla necessità di recuperare consenso tra i militari, a fronte di un evidente stato di fibrillazione che lasciava presagire possibili scenari di intervento. Sul piano strettamente politico, il capo di stato reiterò la volontà di combattere la corruzione e le reti di affari clandestine: un rimpasto di governo – in particolare, la sostituzione del primo ministro Christophe Dabiré– accompagnò il lancio dell’operazione ‘mani pulite’ per un miglioramento generale della governance e della democrazia in Burkina Faso.
Di fatto, però, le riforme e i provvedimenti adottati dal presidente Kaboré – probabilmente fuori tempo massimo – non hanno prodotto alcun impatto significativo sulla situazione politico-militare del paese, di cui il colpo di stato del 24 gennaio costituisce un naturale approdo.
La sospensione di pratiche e prassi democratiche e il sovvertimento dell’ordine costituzionale è, in molti casi, diretta implicazione del deterioramento delle condizioni di sicurezza. In Mali come in Burkina Faso, l’insufficienza della risposta assicurata dai governi eletti alle violenze politiche di insorti jihadisti, il fallimento delle misure di protezione delle comunità civili e una governance generalmente disfunzionale hanno contribuito a delegittimare le autorità statali, favorendo al contrario la creazione di basi di consenso per gli attori militari golpisti. E il supporto popolare riconosciuto ai membri della giunta al potere, guidata dal colonnello Damiba – ironia della sorte, tra gli ufficiali promossi da Kaboré a capo di una regione militare nel dicembre del 2021 –, si fonda su queste basi.
Impossibile dire quali prospettive politiche attendano il Burkina Faso. Le caratteristiche e la durata della transizione incideranno inevitabilmente sulla natura delle relazioni con gli alleati occidentali, e la Francia in particolare. Le bandiere russe sventolate tra le strade della capitale evocano scenari di radicale discontinuità, e il diffuso sentimento anti-francese offre a Mosca (e altri attori rivali) uno spazio d’azione importante per erodere ulteriormente il primato politico e militare francese nella regione. D’altronde, la presenza incombente dei contractor di Wagner Group nel vicino Mali offre ai militari burkinabé una importante occasione di negoziazione (al rialzo) delle condizioni di agibilità politica della giunta con la Francia e i partner tradizionali. Indubbiamente, infine, l’instaurazione di un regime militare, seppur provvisorio, priva Parigi di un interlocutore legittimo in Sahel e costringe le autorità francesi a valutare l’opportunità di un ripensamento generale del dispositivo nella regione, aggravando le incertezze politiche in un contesto regionale sempre più ostile.
Di camillo casola fonte ispionline.it
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