L’uscita dell’Italia toglie a Xi Jinping, che avviò il megaprogetto 10 anni fa, l’unica potenza del G7 ad avere aderito. E dopo che, a settembre, il leader cinese aveva scritto a Sergio Mattarella dicendo di tenere «in grande considerazione lo sviluppo delle relazioni Cina-Italia»
Che cosa resta della Via della Seta? L’uscita dell’Italia toglie a Xi Jinping il «trofeo» dell’unica potenza del G7 imbarcata nel progetto. Dal punto di vista pratico però, la rinuncia italiana non vale più di tanto per Pechino e non è una sorpresa.
Nel 2019, quando il governo di Giuseppe Conte firmò il Memorandum d’intesa sulla Belt and Road Initiative (BRI) si era parlato di collaborazione sul campo tra imprese italiane e cinesi in grandi opere da costruire in Paesi terzi, in particolare in Africa, e di investimenti di Pechino nei porti italiani, in particolare intorno a Venezia. Non se n’è fatto niente e presto l’obiettivo primario dell’Italia si è convertito nella richiesta di riequilibrare la bilancia commerciale con la Cina incrementando il nostro export.
Il giudizio del governo italiano oggi è che l’accordo sulla BRI «non ha portato i risultati che ci aspettavamo» (il ragionamento è che Germania e Francia, senza alcun Memorandum, esportano molto più di noi).
Il problema per Roma è non peggiorare i rapporti commerciali con la Repubblica popolare, che nonostante il rallentamento della crescita resta un mercato strategico del Made in Italy (dal lusso alla meccanica) ed è stato scelto come base di produzione e vendita da circa 1.600 imprese italiane. Dopo che per diversi mesi la diplomazia cinese aveva alternato lusinghe e moniti per convincere il governo di Giorgia Meloni a prorogare l’intesa sulla BRI, a fine settembre è intervenuto in modo distensivo Xi Jinping: ha colto l’occasione delle condoglianze per la morte del presidente emerito Giorgio Napolitano per scrivere al Quirinale.
A Sergio Mattarella il leader cinese ha detto di tenere «in grande considerazione lo sviluppo delle relazioni Cina-Italia» e di essere «pronto a collaborare per promuovere uno sviluppo sano e stabile del partenariato strategico globale tra i due Paesi, con reciproco vantaggio». Quel messaggio da Pechino fa pensare che Xi abbia metabolizzato l’archiviazione del memorandum da parte italiana.
Significativamente, quando a settembre il ministro degli Esteri Antonio Tajani è andato a Pechino per preparare i cinesi al nostro ritiro dal Memorandum d’intesa, ha aggiunto che all’inizio del 2024 Mattarella potrebbe tornare in visita di stato nella Città proibita. Non ci sono state esternazioni di disappunto da parte cinese nemmeno quando a ottobre a Pechino si è svolto il terzo Forum della Belt&Road e l’Italia ha disertato la grande celebrazione (nel 2017 era venuto il premier Paolo Gentiloni e nel 2019 naturalmente era stato ospite d’onore Conte).
La grande riunione di ottobre per esaltare il decennale delle Vie della Seta è stata di fatto dominata dalla presenza di Vladimir Putin, invitato nonostante l’incriminazione ricevuta a marzo dalla Corte penale internazionale dell’Aia per la deportazione di migliaia di minorenni dall’Ucraina. Lo zar è costretto a fare da spettatore mentre «l’amico del cuore» Xi tesse la sua rete in Paesi asiatici che una volta facevano parte dell’impero sovietico.
Sono passati dieci anni da quando Xi Jinping, nel settembre 2013, parlò per la prima volta di «Yi Dai Yi Lu», che in mandarino significa «Una Cintura Una Strada» ed è diventata poi il mastodontico progetto geopolitico «Belt and Road Initiative». Quel giorno del 2013, pochi in Occidente avevano prestato attenzione alla proposta di costruire «una cintura economica lungo l’antica Via della Seta per aprire un mercato di tre miliardi di consumatori». Il presidente cinese era un soggetto poco conosciuto, non era ancora leader a vita con il suo Pensiero iscritto nella Costituzione del Partito-Stato della seconda economia mondiale, non era entrato in Guerra fredda con gli Stati Uniti. «Yi Dai Yi Lu» diventò presto un piano di infrastrutture globali che prometteva investimenti per mille miliardi di dollari in linee ferroviarie, autostrade, centrali elettriche, porti, aeroporti e impianti industriali dall’Asia ex sovietica all’Europa, passando per l’Africa. Poi si è scoperto che quei progetti spesso erano cattedrali nel deserto che aggravavano il debito di molti Paesi in via di sviluppo.
Pandemia, chiusura ermetica delle frontiere cinesi per tre anni e rallentamento della crescita di Pechino hanno ulteriormente ridimensionato i piani. Ma ancora oggi, sul sito della Belt and Road Initiative si legge che a giugno del 2023 avevano sottoscritto accordi di partecipazione 154 Paesi e 30 organizzazioni internazionali e che le Nuove Vie della Seta hanno generato contratti per 2.000 miliardi di dollari in tutto il mondo. E al Forum del decennale Xi ha promesso altri 100 miliardi di dollari di investimenti sulle Vie della Seta.
di Guido Santevecchi – fonte: https://www.corriere.it/