di Amedeo Lepore
In quest’ultimo periodo stanno riemergendo timori per l’andamento dell’inflazione negli Stati Uniti. Al tempo stesso, si è aperto un confronto sulle prospettive di crescita economica all’interno dello scenario europeo e internazionale: un contributo in questo senso è il volume di Daniel Susskind dal titolo Growth: A Reckoning.
Sul primo versante, i dati USA sui prezzi al consumo – il cui indice a marzo ha toccato il 3,5% su base annua (con una media trimestrale dei prezzi “core” a oltre il 4%) – e quelli sulle aspettative di inflazione in un orizzonte triennale mostrano segnali poco incoraggianti, facendo interrogare gli analisti sulla possibilità che i mercati reggano la combinazione di un’inflazione persistente, una crescita resiliente e tassi di interesse elevati.
Il quadro che emerge dai mercati obbligazionari, secondo il Financial Times, denota una situazione nervosa nel breve termine, con una minore volatilità in un arco di tempo più ampio. Inoltre, se si fa riferimento agli aumenti dei prezzi di singoli settori (petrolio, oro, metalli industriali e, d’altra parte, servizi ospedalieri, alloggiativi e automobilistici), si comprende chiaramente la varietà di condizionamenti che pesa su questa fase dell’economia e la comparsa per i servizi primari, dove l’inflazione rilevata a marzo è stata del 6% su base annua, di previsioni a lungo termine più allarmanti.
Alcuni degli aspetti che destano preoccupazione sono di carattere geopolitico e riguardano la disponibilità di materiali e prodotti, altri dipendono dalla ripresa della domanda mondiale. Mentre il rallentamento della crescita salariale può ridurre la pressione sui prezzi, seppure non nell’immediato. Del resto, anche le aspettative hanno la loro importanza e il rapporto statunitense sugli indici dei prezzi al consumo rischia di assestare un colpo all’ottimismo diffuso per un rapido processo di disinflazione.
La Federal Reserve, peraltro, potrebbe decidere di non diminuire i tassi di interesse nel 2024, mantenendoli stabilmente più alti, come nota Bob Prince di Bridgewater quando afferma che le speranze di un loro taglio si sono “spente”. Infatti, il presupposto per un calo dei tassi, agli attuali livelli di PIL e inflazione, sarebbe un forte impulso alla produttività dell’economia – derivante da un incremento dell’immigrazione o della forza lavoro – in modo da permettere una crescita non inflazionistica.
La Banca Centrale Europea, al momento, sembra non voler seguire l’impostazione della Fed, proseguendo nel piano dei tagli da giugno, nonostante i paventati effetti dell’inflazione d’oltreoceano. I membri della BCE, infatti, ritengono che abbiano influito sul risveglio di questo fenomeno un miglioramento economico relativamente intenso e la politica fiscale espansiva dell’amministrazione Biden.
Eppure, alcuni economisti ed esperti sono convinti che la scelta di continuare nella riduzione dei tassi non sarà “aggressiva”, per evitare di indebolire l’euro, e hanno manifestato, a loro volta, apprensione per una trasmissione dell’inflazione all’Europa ritardata solo di qualche mese. In ogni caso, gli indici dei prezzi al consumo (e lo spread registrato rispetto alla spesa per consumi personali) evidenziano una divergenza tra le economie degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, dove il contenimento dell’inflazione sta portando gli investitori, persuasi che la BCE abbasserà i tassi, ad acquistare obbligazioni europee anziché titoli del Tesoro americano.
Per quanto sia rilevante questo fattore, va considerato, però, che gli Stati Uniti sono in fase di rilancio economico, eccetto che nell’edilizia, e godono di alcuni singolari punti di forza (risorse naturali, demografia, tecnologie avanzate e gestione manageriale), mentre non appare agevole la condizione dell’Europa, che vive una stretta significativa. In due recenti articoli dell’Economist si fa riferimento a un’economia europea sotto attacco da oriente a occidente e al triplo shock che può abbattersi sul Vecchio Continente, a causa delle conseguenze ancora in atto della crisi energetica, dell’innalzamento delle importazioni cinesi e della minaccia di un inasprimento dei dazi del 10% da parte di Trump.
L’economia europea è cresciuta solo del 4% in questo decennio rispetto all’8% di quella USA, conoscendo una stagnazione a partire dal 2022, con una diminuzione del PIL pro capite in Germania e Gran Bretagna. Le previsioni di crescita sono inferiori all’1% per quest’anno e non si spingono oltre. Quest’assenza di dinamismo, che potrebbe essere invertita, almeno in parte, dalla tempestiva attuazione delle strategie di ripresa economica della UE, dipende, tuttavia, da ostacoli di lunga data, come una popolazione in rapido invecchiamento, forme oppressive di regolamentazione e un’integrazione economica insufficiente. Innescandosi su questi fattori, la tripla sfida in corso per l’Europa potrebbe indebolire l’intero continente.
Perciò, secondo il prestigioso settimanale britannico, sarebbe necessario non ripetere l’errore del passato di una “politica economica troppo restrittiva in un momento di vulnerabilità”, impegnandosi per sostenere la crescita. La UE dovrebbe evitare di imitare il protezionismo statunitense ed elaborare “una propria politica economica adeguata alle circostanze”, investendo in infrastrutture, istruzione, ricerca e sviluppo e, al contempo, sfruttare il proprio vasto mercato interno a favore del sistema industriale e delle imprese.
Queste valutazioni dell’Economist confortano l’idea di una risposta ai pericoli che si addensano sull’economia con l’adozione di nuovi modelli di policy, in grado di prevenire una risorgente inflazione e combattere la perdurante debolezza dei processi di sviluppo attraverso una combinazione di accorte politiche monetarie e di riduzione del debito con notevoli investimenti, innovazioni diffuse e una consistente rimonta della produttività.