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La rivolta iraniana non si ferma qui

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FARHAD KHOSROKHAVAR è un sociologo iraniano e insegna all’École des hautes études en sciences sociales di Parigi. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Lo jihadismo al femminile (Orthotes 2019), scritto insieme a Fethi Benslama. Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

Il movimento delle donne iraniane, che ha mosso i primi passi nel settembre 2022 dopo la morte di Mahsa Jina Amini, è in crisi. Le proteste nelle grandi città sono state più o meno soffocate. Quelle che resistono si svolgono quasi sempre di notte, sui tetti, a volte in strada, con una decina o un centinaio di giovani. Solo le due regioni abitate da minoranze etniche, il Kurdistan nell’ovest e il Balucistan nel sudest, continuano ad alimentare la mobilitazione, ma sono sempre più emarginate e non hanno risonanza nel resto dell’Iran.

Da qualche settimana, sotto il peso della repressione (più di cinquecento morti, circa ventimila arresti), il movimento per la democrazia sta subendo una battuta d’arresto. Appena si espongono, i leader locali vengono arrestati o uccisi. Il blocco di internet imposto dal governo inoltre accentua la difficoltà di partecipazione della popolazione, stremata dalla brutalità della polizia e dalla totale mancanza di prospettive. La strategia di Teheran è decapitare un’intera generazione per garantirsi una pace relativa, piuttosto che affrontare i problemi sociali e rispondere alle richieste di apertura politica.

Fin dall’inizio il movimento è stato fragile, a causa della mancanza di una guida e di organizzazione. Eppure ha fatto vacillare il regime dei mullah, mostrando quanto sia illegittimo con una resistenza eroica durata settimane.

Una generazione di attivisti (soprattutto giovani) è stata poi ridotta al silenzio da una repressione cieca, quasi in stile siriano. I loro genitori e i loro nonni, scottati dal fallimento delle precedenti rivolte (quelle avvenute nel 2009, 2015, 2016 e 2018) e con la paura di perdere i mezzi di sussistenza, non hanno osato scendere in strada: i giovani stavolta hanno dovuto cavarsela da soli. La rivolta non è bastata a mettere in ginocchio il regime armato fino ai denti degli ayatollah. Del resto, le uniche istituzioni efficienti in questo stato sanguinario sono quelle della repressione e del carcere.

La società iraniana non si arrenderà a questo regime odioso che i manifestanti cercano di rovesciare al grido di “abbasso la dittatura!”. Ma al tempo stesso è neutralizzata dagli arresti, dagli esili e dalle condanne a morte. La povertà aumenta: negli ultimi quattro mesi il valore del riyal è crollato di circa il 50 per cento rispetto al dollaro e l’inflazione è aumentata di conseguenza. Ormai le classi medie vivono nelle stesse condizioni di quelle povere e soffrono della penuria di merci e dell’aumento dei prezzi.

Fuori del paese, fra i tre milioni di iraniani che vivono in occidente, la vecchia contrapposizione tra monarchici e repubblicani, tra destra e sinistra impedisce la costituzione di un fronte unito, anche se Reza Ciro Pahlavi, figlio dello scià Reza Pahlavi, ha ottenuto un certo successo, tardivo, nel riunire una parte dell’opposizione. Ma il regime teocratico è rimasto saldo.

Le sanzioni europee per ora sono simboliche: i divieti di soggiorno non impressionano i pezzi grossi del regime, che sono consapevoli di essere in contrasto con l’occidente.

Gli Stati Uniti invece oscillano tra il desiderio di concludere il trattato di non proliferazione nucleare con l’Iran e quello di sostenere il movimento democratico, che non hanno saputo aiutare al momento opportuno dandogli i mezzi per comunicare via internet. Washington ha cercato di ridurre la vendita del petrolio iraniano (che la Cina continua a comprare a prezzo ridotto) e tiene d’occhio l’Iraq, che rifornisce l’Iran di valuta estera. Ma questa strategia comincia a mostrare i suoi limiti.

Teheran aggira i divieti attraverso le transazioni sul mercato nero (i commercianti turchi comprano il petrolio con degli sconti importanti, così come alcuni complici negli Emirati e in Russia) e trova la valuta sufficiente per finanziare la propria sopravvivenza e quella delle forze della repressione che assillano la società civile. Anche i droni iraniani di cui si servono i russi in Ucraina sono stati costruiti con componenti statunitensi ed europee.

L’Iran è indebolito nella sua alleanza con “l’arco sciita” (la Siria, l’Hezbollah libanese e l’Iraq), che però rimane formidabile nella sua capacità di nuocere, anche senza fornire assistenza finanziaria.

Da parte loro, anche se la detestano e la temono, i regimi autoritari arabi sunniti risparmiano Teheran. Più di ogni altra cosa hanno paura di una diffusione della rivolta che metterebbe in pericolo il dominio patriarcale. A una regione destabilizzata da un eventuale rovesciamento del governo iraniano preferiscono una Teheran soggiogata sul piano finanziario e politico.

Anche l’occidente sembra andare nella stessa direzione, con grande disappunto del movimento democratico, che senza aiuti significativi annaspa. ◆ fdl

La strategia del regime è decapitare un’intera generazione per garantirsi una pace relativa, piuttosto che affrontare i problemi sociali e rispondere alle richieste di apertura

Fonte: L’Internazionale