di Antonello Longo
Durante questa primavera in tutte le regioni d’Italia vi voterà in moltissimi comuni piccoli e grandi. Ad una sinistra smarrita e nebulosa non rivolgo considerazioni di strategia e di tattica elettorale né tantomeno consigli sull’atteggiamento da tenere sulla guerra, sulla politica estera e sull’attualità nazionale, sulla finanza locale, ma offro (non meravigliatevi, la politica non parla solo il politichese) la lettura di una poesia dal marcato carattere politico, che esprime bene il dramma delle periferie romane, o meridionali, o di qualunque metropoli, e richiama il cinismo di una classe politica incapace e corrotta di fronte alla dimensione umana e sociale dei problemi dei grandi agglomerati popolari.
Ne “L’alba meridionale”, che qui ripropongo, Pier Paolo Pasolini sente, nei primi anni sessanta del Novecento, quelli del boom economico italiano, l’atmosfera spaesata e dolente di un qualunque Prenestino, da cui nasce un “sentimento” di rivoluzione. Negli anni venti del Duemila, anni di pandemia e di crisi, le periferie urbane sono cambiate, per alcuni versi, in peggio, ma il sentimento di rabbia si è trasformato in sfiducia e rassegnazione. È lì che una sinistra riformatrice e di progresso può recuperare i suoi motivi più veri ed il suo cuore più antico, può aprirsi una strada nel sentimento e nella ragione (nella coscienza di classe, si diceva una volta) della gente.
Pasolini diceva che la poesia, a differenza del cinema, non può raffigurare le cose nella loro realtà, ma soltanto così come le vede il poeta. Io credo che Egli stesso ha mostrato come, invero, il cinema può regalare momenti di effettiva poesia, penso al suo “Uccellacci e uccellini”, e versi come questi, squarci di effettiva realtà. Giudicate Voi.
Torno… e una sera il mondo è nuovo,
una sera in cui non accade nulla – solo,
corro in macchina – e guardo in fondo
all’azzurro le case del Prenestino –
le guardo, non me ne accorgo, e invece,
quest’immagine di case popolari
dentro l’azzurro della sera, deve
restarmi come un’immagine del mondo
(davvero chiedono gli uomini altro che vivere?)
– case qui piccole, muffite, di crosta bianca,
là alte, quasi palazzi, isole color terra,
galleggianti nel fumo che le fa stupende,
sopra vuoti di strade infossate, non finite,
nel fango, sterri abbandonati, e resti
d’orti con le loro siepi – tutto tacendo
come per notturna pace, nel giorno. E gli uomini
che vivono in quest’ora al Prenestino
sono affogati anch’essi in quelle strie
sognanti di celeste con sognanti lumi
– quasi in un crepuscolo che mai
si debba fare notte – quasi consci,
in attesa di un tram, alle finestre,
che Fora vera dell’uomo è l’agonia –
e lieti, quasi, di ciò, coi loro piccoli,
i loro guai, la loro eterna sera –
ah, grazia esistenziale degli uomini,
vita che si svolge, solo, come vera,
in un paesaggio dove ogni corpo è solo
una realtà lontana, un povero innocente.
Torno, e mi trovo, prima d’un appuntamento
da Carlo o Cartone, da Nino a Via Rasella
o da Nino a Via Borgognone in una zona
oggetto di mie sole frequentazioni…
Due o tre tram e migliaia di fratelli
(col bar luccicante sullo spiazzo,
e il dolore, spento nelle coscienze italiane,
d’essere poveri, il dolore del ritorno a casa,
nel fango, sotto nuove catene di palazzi)
che lottano, si colpiscono, si odiano tra loro,
per la meta di un gradino sul tram, nel buio,
nella sera che li ignora, perduti in un caos
che il solo fatto d’appartenere a un rione remoto
lo delude nel suo essere una cosa reale.
Io mi ritrovo il vecchio cuore, e pago
il tributo ad esso, con lacrime
ricacciate, odiate, e nella bocca
le parole della bandiera rossa,
le parole che ogni uomo sa, e sa far tacere.
Nulla è mutato! siamo ancora negli Anni Cinquanta!
siamo negli Anni Quaranta! prendete le armi!
Ma la sera è più forte di ogni dolore.
Piano piano i due tre tram la vincono
sulle migliaia di operai, lo spiazzo
è quello dei dopocena, sul fango, sereno,
brilla il chiaro d’una baracca di biliardi,
la poca gente fa la coda, nel vento
di scirocco di una sera del Mille, aspettando
il suo tram che la porti alla buia borgata.
La Rivoluzione non è che un sentimento.
(da Pier Paolo Pasolini “Poesia in forma di rosa (1961-1964)”, Milano, Garzanti, 1964).
Nell’immagine: Pasolini a Centocelle nel 1960. Foto di Federico Garolla