Adriano Sofri
L’idea del progresso, di un’avanzata a volte impetuosa, altre lenta e ostacolata ma inarrestabile, verso la libertà e la conoscenza, è finita da tempo in un binario morto. La versione ferita dello scontro di civiltà oggi in scena non immagina più un presunto sistema di valori progressisti propugnati contro le resistenze di un mondo attardato, ma al contrario una difesa di quel sistema di valori assediato dall’esterno e insidiato dall’interno. Quanto ai valori degli assedianti, essi non presumono di offrirsi come un’alternativa se non nelle proprie diversità, dalle quali soltanto sono provvisoriamente uniti, e dunque in una più o meno dichiarata equivalenza di tutti i valori, salvo il bando ai valori progressisti per la loro pretesa di superiorità e di assolutezza. Questa dissoluzione è penetrata dentro ogni territorio civile, spogliando il progresso di credibilità, compresa l’ultima e poetica, quella della bella illusione che spenta…– e riconvertendo le forze residue a una resistenza al regresso. Questo quanto alla cornice filosofica, che la geopolitica trasforma in una carriera.
La fiducia progressista conservava un suo resto più tenace nella certificazione di un miglioramento universale della condizione delle donne. Che, anzi, apparendo come il cuore del progresso, il suo metro, e traendosi dietro la caduta della miriade di pregiudizi sessisti, mostrava le guerre in corso, armate o simulate, come una resistenza del mondo spaventato di perdere il suo patrimonio più prezioso e intimo. Per questo, il regresso nella libertà delle donne è così rivelatore, e si manifesta sempre più non come una difesa, un trincerarsi, ma una vera controffensiva.
Il segno più abbagliante, e quasi buffo, era venuto dalla Turchia di Erdogan, che, dopo aver ospitato la Convenzione di Istanbul nel 2011, ne è solennemente uscita dieci anni dopo: un manifesto regressista. Dietro l’impressione sbandierata di un’irruenta marcia dei diritti lgbtq+, regimi incerti sulla propria natura si sono ridati una causa, e sono arrivati a giustificare eticamente e anzi religiosamente le loro guerre di riconquista. Un paio di giorni fa il Post aveva un servizio sul Gambia, dove per la prima volta un paese che nel 2015 aveva messo fuori legge le mutilazioni genitali femminili – uno dei due provvedimenti-guida sulla condizione degli stati, accanto all’abolizione della pena di morte – ha votato nel suo Parlamento di abolire il bando e dunque di ripristinare il diritto a mutilare bambine e donne (l’assemblea nazionale del Gambia ha 5 donne su 58 componenti). Si capisce bene che differenza ci sia fra un paese che non abbia ancora aderito al divieto delle mutilazioni genitali femminili, e uno che dopo averlo deciso torni sui propri passi – come la Turchia sulla Convenzione. “Di solito in Gambia le mutilazioni genitali femminili consistono nel tagliare il clitoride e le piccole labbra di bambine e ragazzine quando hanno tra i dieci e i quindici anni”. In realtà, leggo, solo nel 2023 il bando era stato applicato, con la condanna di tre medici che l’avevano violato, e lo scandalo dei custodi della supposta tradizione e del supposto islam. Com’è noto, le pratiche di mutilazione genitali femminili sono antecedenti all’islam, che in molti luoghi e in molte interpretazioni le ha ereditate e rafforzate. Si tratta dell’operazione più rivelatrice del controllo pieno ed esclusivo sul corpo delle donne – mascherata al punto di attribuirla a un’intenzione matriarcale – spinto a privarle del piacere sessuale, oltre che a metterne a rischio la salute e la stessa sopravvivenza.
Naturalmente, un aspetto centrale di questa controffensiva planetaria – una guerra mondiale a pezzi… – riguarda l’aborto, e basta pensare agli Stati Uniti. Ma il punto che mi ha colpito è un altro, circoscritto e quasi aneddotico, e però esemplarmente ributtante. Sapete che nelle elezioni portoghesi il successo più significativo è andato al partito “Chega”, che vuol dire insieme “Arriva” e “Basta”, e che è diventato il terzo partito dopo i due tradizionali socialdemocratico, cosiddetto, e socialista, col 18 per cento. Già emulo di Salvini e di Susanna Ceccardi, e oggi da loro invidiato, il leader carismatico, carismaticissimo, André Ventura, 41 anni, già docente, tifoso e commentatore calcistico, seminarista, cattolico fervido e marito di una fervente cattolica, nemico di nomadi (in realtà portoghesi e stanziali) e di africani e musulmani, insomma quasi tutto il repertorio, si illustrò nel 2020 per un episodio che le cronache per lo più riportano come un caso pittoresco. In un’adunanza del suo partito Ventura approvò – qualche versione dice: lasciò approvare – la proposta di “togliere le ovaie alle donne che abortissero”. Poi, dal momento che la cosa fece del rumore, venne ritirata. Ora, anche noi non siamo ignari di trovate madornali prontamente ritirate come marachelle di gianburrasca di turno, e Salvini, ma in larga compagnia, ne è un campione. E la castrazione chimica, per esempio, è un cavallo di battaglia comune di italiano e portoghese. Ma l’idea di “togliere le ovaie” alle donne per castigare il delitto e il peccato dell’aborto – che in Portogallo è legale, dopo un referendum, dal 2007 – è un perfezionamento della tradizione. Una mutilazione genitale femminile a posteriori, per così dire, punitiva e vendicativa. Con quella eseguita su una bambina la si priva del suo corpo. Con quella immaginata sulla donna che ha abortito la si priva del suo corpo e dello stesso uso cui il suo corpo è adibito al servizio maschile, la riproduzione. Non è il singolo uomo padrone, è la società intera, come sempre nelle leggi punitive dell’aborto, a proclamare che tu non sei tua, che sei nostra.
Poi l’hanno ritirata. Ma le voci dal sen fuggite più richiamar non vale – non si trattiene il bisturi…
Fonte: Il Foglio