di Fausto Fareri
L’attuale congiuntura politica rischia di perpetuare, a mente di autorevoli commentatori quali Franchi e Pasquino , sia nell’agone della ex-sinistra intellettuale e nella più paludata ma critica classe dei politologi, un ricorso preoccupante di gestione del rapporto tra potere politico e procedure, essenzialmente legato ad una definizione di “ trasformismo”, coniata come approccio pragmatico e formula politica dall’élite della Sinistra Storica negli anni’80 dell’Ottocento.
Parlamentari essenzialmente un tempo non legati ad un partito organizzato, condizionato dalla base elettorale ristretta e il non emergere di forti partiti di massa, permisero in quel contesto di nascente unità sotto i Savoia una sostanziale intercambiabilità delle maggioranze, che si modulavano in relazioni ad “equilibri” contingenti, non a prassi di largo respiro, poiché la classe borghese deteneva il controllo della vita parlamentare.
Oltremodo è indubbio che solo quella prassi permise di traghettare il nascente Stato Unitario verso un’amplificazione del ruolo egemone di una élite che doveva costruire una prassi parlamentare all’interno dello Statuto Albertino. L’accezione degenerativa del termine si impose poi in prassi che diluivano il dibattito parlamentare, in accordi sottobanco, rimodulando la responsabilità verso quegli elettori che erano sostanzialmente una classe assetata di conferme, appalti, che muoveva interessi speculativi e finanziari (non si dimentichi lo scandalo della Banca Romana). Un affresco di tutto ciò rimase impresso nelle pagine del romanzo “L’Imperio” di De Roberto, stranamente attuale, dove il rampollo della famiglia Uzeda si confronta con i sotterfugi della vita di palazzo alla fine Ottocento e sul ruolo del mandato parlamentare per la decaduta classe egemone.
È indubbio che la vita repubblicana, con il fermento dei grandi partiti di massa, già affermatisi sullo scorcio della dittatura e sulla grande lezione di Sturzo, Matteotti e Turati, che deprecavano tali camaleontismi, tentò di modulare il ricorso a tali prassi, attraverso una disciplina di partito più coerente, esaltando il ruolo del divieto di vincolo di mandato imperativo come morale interna al parlamentare “interprete” dell’interesse collettivo. Franchi tiratori, cambi di casacca, approdi ai gruppi misti erano visti come sconfitte per il parlamentare e per la base di rappresentanza, poichéinficiavano la credibilità del rappresentante.
Ma la lunga notte del trasformismo riprende il suo inesorabile corso dopo il ’94 , con il maggioritario, per il formarsi di una nuova élite politica i cui interessi istituzionali si saldano con una progressiva precarizzazione dei ruoli sociali delle grandi agenzie di dissenso (sindacato, PCI, etc) a favore di un nuovo modello integrato di redistribuzione tra potere locale e poteri centrali, in cui una nuova personalizzazione del ruolo parlamentare emerge come trait d’union delle esigenze di un sostanziale neoguelfismo, secondo la interessante formula coniata dal sociologo De Rita, visto come “mediazione conservatrice”, figlia della caduta dell’economia delle Partecipazioni statali.
Realisticamente, dopo il decennio di traghettamento dell’Italia dal post-berlusconismo, tornano utili le valutazioni di Croce espresse ai tempi del Depretis, che, in sostanza, individuavano nella pratica trasformistica un passaggio condizionato per approntare dei “compromessi” che destituivano i pericoli di una opposizione battagliera come fu quella di un Cavallotti o di De Felice.
In questa contestualizzazione attuale dotata di un indubbio indice di “ricorso”, la debolezza delle grandi idee programmatiche favorisce lo scontro politico personalizzandolo, implica rimodulazioni di un complesso marchingegno che “snatura” il dibattito parlamentare rendendolo supino alla nostra sostanziale subordinazione all’Europa.
Non vi è alla base di un cambio di casacca una forte compliance ideologica, ma riemergono scontri, interessi e visioni sostanzialmente “conservatrici” sul futuro della classe media e sulla demarcazione tra interclassismo e burocratizzazione della vita sociale, che il contesto pandemico con la sua forzata tele-crazia impone. Quanto a questo servano “governi intercambiabili” è ormai sotto gli occhi dell’opinione pubblica, che si appresta a riconsiderare, nonostante la grave precarietà sanitaria, l’esigenza di un ritorno alle urne ponderato, che solo un ceto politico colto ed intellettuale potrebbe, come insegnava il grande Gaetano Mosca, gestire, in questo terzo decennio carico di scontri sociali e molto omologato, quando, come anch’egli affermava in relazione all’emergere di una nuova interclasse che rifletta, ponderi e innovi il concetto di “partecipazione” pubblica, emerga civica adesione dei consociati al futuro del loro spazio comune, oltre il puro interesse personale.
Il popolo italiano, parafrasando il grande Eduardo, non sembra ancora uscire dal tunnel di questa lunga notte.