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LA LIBERTÀ AL TEMPO DELLE PRE-INDAGINI

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Accertamenti abusivi? No, verifiche richieste e vistate Fingere di indignarsi è un modo per nascondere la realtà

Alessandro Barbano

Aconferma di come nella nostra democrazia tutto finisce in giornalismo, o piuttosto in gogna, anche l’ultimo atto dello scandalo dei dossier fin qui noto si produce sulle pagine dei giornali. Del resto, il procuratore nazionale antimafia, titolare dell’apparato in cui lo scandalo è scoppiato, e il procuratore di Perugia, che sullo scandalo indaga, hanno riferito al Parlamento elementi di un’inchiesta appena iniziata. Non può stupirci che allo stesso modo facciano gli imputati, consegnando per il tramite dei propri legali la loro verità ai quotidiani.
Il dibattimento è in corso, e molte cose sono state già accertate, dopo che il protagonista principale dell’inchiesta, il luogotenente Pasquale Striano, ha consegnato la sua versione ai colleghi de “La verità”, come del resto ha fatto a stretto giro di posto anche il suo superiore gerarchico, Antonio Laudati, confidandosi con i colleghi de “La Repubblica”. In omaggio al principio per cui ognuno dei soggetti in campo ha la sua antimafia di riferimento. Investigativa, o piuttosto giornalistica. Tuttavia, anche se “La verità” e “la Repubblica” stanno su bande opposte, i racconti incrociati ci consegnano un convergente versione. Che qui di seguito proviamo a sintetizzare. Primo. Qui non si parla di indagini, ma di quelli che i protagonisti chiamano dossier pre-investigativi. Questa distinzione lessicale e semantica smaschera la prima ipocrisia dell’inchiesta e del dibattito pubblico attorno allo scandalo. Gli indagati rispondono di accesso abusivo al sistema informatico, cioè di aver compiuto accertamenti che violano la riservatezza dei singoli in assenza di un’autorità giudiziaria che ne disponesse l’esecuzione e di una notizia criminis che li giustificasse. Dobbiamo prendere atto invece che l’Antimafia compie istituzionalmente accertamenti preventivi sulla vita e sull’attività professionale dei cittadini finiti nel radar del sospetto, dai quali solo successivamente può aprisi un’indagine penale. E in molti casi si apre invece un’indagine mediatica. Tutto questo può stupire gli ipocriti, ma non chi vuol ragionare dell’intera vicenda senza il prosciutto sugli occhi. Allo stesso modo con cui le volanti della polizia girano di notte nella realtà fisica a caccia di eventuali reati, interrogano confidenti e acquisiscono informazioni sull’attività di persone mai ufficialmente indagate, gli 007 informatici scandagliano il mondo virtuale a caccia di convergenze opache da cui possano derivare illeciti. Secondo: queste pre-indagini non erano clandestine, come vorrebbero far credere i vertici dell’Antimafia. Ma erano parte dell’attività per così dire istituzionale della struttura investigava che dal 2015 ha aggiunto ai compiti di contrasto al crimine quelli di lotta al terrorismo. Si tratta di verifiche compiute in una zona grigia della democrazia e, secondo quanto ha detto Striano a “La verità”, in assenza di un verbale, proprio perché precedenti all’accertamento di una notizia di reato. Questi accertamenti erano conosciuti dentro tutta la catena gerarchica e spesso sollecitati dai superiori al luogotenente. Possiamo affermarlo mettendo a confronto le dichiarazioni di Striano con quelle di Laudati. Il primo dice che il secondo sapeva, il secondo dice che i vertici dell’Antimafia, cioè il procuratore generale, sapevano. Se applichiamo il modo con cui molti inquirenti validano le loro convinzioni processuali, cioè traendole da due testimonianze convergenti, possiamo desumere che all’Antimafia tutti sapevano. Ma siccome siamo garantisti, consideriamo per ora questa un’ipotesi solo probabile e nulla di più. Tutti probabilmente sapevano, e i vertici guidavano la catena informativa.
Se i personaggi finiti nel mirino dell’inchiesta erano otto-nove volte su dieci uomini del centrodestra, c’è da presumere che la pre-investigazione avesse una connotazione politica. Coincidesse cioè, per opposizione, con la carriera dei procuratori nazionali antimafia, almeno degli ultimi due, e cioè Franco Roberti e Cafiero De Raho, transitati dall’apparato investigato alle aule parlamentari nelle file dei partiti di sinistra, Pd e Cinquestelle. Terzo. L’attività investigativa aveva scatenato quella che potrebbe definirsi una guerra tra bande all’interno della galassia antimafia, dove la rivalità tra i singoli centri di investigazione è effetto di un’autonomia insindacabile dal centro. Per fare solo un esempio, il luogotenente Striano racconta che “il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, titolare dell’inchiesta sulla ‘Ndrangheta stragista, si era lamentato del fatto che alcune segnalazioni di operazioni sospette sui rapporti economici tra Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi gli fossero giunte da altri uffici, anziché dalla Procura nazionale antimafia. Su richiesta di Melillo – dice ancora Striano – abbiamo solo verificato perché le segnalazioni dell’Antiriciclaggio non andassero a Reggio Calabria e io ho fatto un appunto e ho spiegato perché le cose andassero in quel modo. Alcuni accessi li ho fatti per dare queste spiegazioni”.
Fin qui lo 007 “deviato”. Ci tocca ricordare che all’epoca la procura di Reggio Calabria rivaleggiava con quella di Palermo nella dimostrazione del teorema sulla trattativa Stato-mafia, cioè l’idea che, sotto la coltre dell’ufficialità, spezzoni deviati dello Stato e la mafia avesse intavolato uno scambio: l’attenuazione del regime carcerario per i boss perché finissero le stragi che insanguinarono l’Italia a cavallo tra la prima e la Seconda Repubblica. Secondo la procura di Reggio Calabria, sedici anni prima della sua discesa in campo con Forza Italia, Silvio Berlusconi se ne sarebbe andato in giro per gli agrumeti della Piana di Gioia Tauro con il suo amico Bettino Craxi a cercare i voti dei latitanti. La ricostruzione del pm Lombardo in aula, al processo sull’uccisione dei due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo nel lontano 1994, avvalora le dichiarazioni di alcuni pentiti contenuti in una informativa della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria del 2022. In cui, attorno alle vicende della ‘Ndrangheta reggina, è riscritta la storia di Italia e del mondo dal dopoguerra a oggi. Per dare un’idea di ciò che stiamo raccontando, c’è un capitolo intitolato “La politica estera filostatunitense e il suo declino: dal riformismo craxiano alla crisi di Sigonella”. Vi si afferma tra le altre cose che “alcune lobby di potere interne con frange deviate dei nostri Servizi avrebbero condizionato la rielezione del presidente uscente Carter, favorendo l’elezione di Ronald Reagan nelle presidenziali americane del gennaio 1981”. L’autore di questa rappresentazione distopica del mondo, costruita attorno alle trame delle cosche reggine, è il commissario capo Michelangelo Di Stefano, che in primo grado è stato chiamato a deporre nel processo sull’assassinio dei due carabinieri. Ha una passione per la storia, il commissario e dirigente dell’antimafia. Nel 2017 ha pubblicato il libro “Moti di regio del ’70, le due facce della medaglia”, nel quale la saldatura tra ‘ndrangheta, eversione nera e Servizi deviati è assunta a paradigma narrativo dei moti calabresi. Poi quel paradigma avrebbe spiegato la storia d’Italia e i destini del pianeta.
Nel libro “L’inganno”, pubblicato più di un anno fa, mi chiesi a che cosa servisse una procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di grande esperienza come Giovanni Melillo, se non poteva impedire che il discorso pubblico sulla mafia continuasse a essere “una fogna maleodorante di congetture, e che l’azione penale finisse per risultare, anziché un rimedio, un fattore di turbativa della democrazia”. Alla presentazione del libro, Melillo, che avevo invitato tra i relatori, attaccò frontalmente “L’inganno”, sostenendo il diritto dovere della magistratura antimafia di chiarire l’oscura genesi delle stragi di trent’anni fa. Questo mi pare basti a spiegare l’ideologia di un apparato cresciuto attorno a un pensiero forte di tipo congetturale che è, del resto, la matrice del pregiudizio della Trattativa Stato-mafia. Il fatto che la Cassazione lo abbia fatto a pezzi non ne prova la sua estinzione sul piano culturale. Una simile tendenza deviante della burocrazia investigativa è tanto più marcata quanto più l’apparato su cui poggia è privo di operatività effettiva. In queste condizioni, la Procura nazionale antimafia, che non può avocare a sé indagini delle singole procure e neanche svolgere compiti concreti di coordinamento, tende a strutturarsi come un servizio segreto a la page, che scambia informazioni e riconoscimento reciproco con gli altri poteri del sistema investigativo-mediatico. Oggi sappiamo che questo è probabilmente avvenuto sotto la gestione dei due procuratori Franco Roberti e Federico Cafiero De Raho. E che a queste deviazioni il loro successore, Giovanni Melillo, ha cercato di porre riparo. Se avesse il coraggio di ammettere le cose come stanno, anziché evocare il Grande Vecchio, renderebbe un miglior servigio al Paese.
E veniamo al quarto e ultimo punto, quello che riguarda i giornalisti coinvolti. I quali riflettono, per evidente subalternità al moloch burocratico, le spaccature e le rivalità presenti nell’Antimafia. Si possono processare, fingendo però di ignorare che in qualunque democrazia che si rispetti i giornalisti sono autorità di ultima istanza del sistema dei poteri, e si muovono inevitabilmente in una zona grigia, senza la quale non avremmo mai conosciuto uno scandalo chiamato Watergate. Questo non vuol dire che i giornalisti coinvolti siano mammolette, soprattutto quando si provasse che abbiano approfittato dell’Antimafia come una sorta di redazione di approfondimento, commissionandole i dossier contro i nemici di turno. Ma anche in questo caso, discutibile da un punto di vista deontologico, i giornalisti, quando parlano male di qualcuno, rispondono secondo tre criteri definiti da una storica sentenza della Cassazione nel lontano 1985: e cioè verità dei fatti, utilità sociale alla conoscenza della notizia e continenza espositiva. Mettiamoci pure i limiti della privacy, che nel caso dei vip in questione risulta attenuata, e questo ci pare davvero il massimo che si può addossare alla responsabilità o piuttosto alla subalternità del giornalismo.
Ma il marcio sta altrove. A volerlo cercare e vedere. Magari smettendola di gridare ai fantasmi e iniziando a discutere in Parlamento di che cosa sono diventate l’Antimafia e la polizia giudiziaria, che la rappresenta, al tempo in cui la tecnologia informatica consente agli investigatori di radiografare le viscere della democrazia. Se ci piace questa Repubblica di polizia, se la riteniamo necessaria a proteggerci dal terrorismo e dalle incombenti minacce della criminalità, teniamocela pure. Sapendo di che si tratta e a che cosa rinunciamo. Se invece, come a noi, non ci piace, non facciamoci infinocchiare dai tenutari del sistema, che difendono l’Antimafia per difendere se stessi, e riprendiamoci lo Stato di diritto.

Fonte: Il Riformista