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La guerra del Vespro: il Sud Italia conteso

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Nel 1282 una rivolta popolare scoppiata a Palermo divenne rapidamente un caso internazionale che vide coinvolte le potenze del tempo. La posta in gioco era il Mezzogiorno italiano, che ne uscì spezzato

È il 26 marzo 1282, lunedì di Pasqua. A Palermo, all’ora dei vespri, deflagra improvvisamente quella che sulle prime ha tutta l’aria di essere soltanto una rivolta popolare, una ribellione che tuttavia porta al massacro della guarnigione francese che Carlo I d’Angiò, sovrano del regno di Sicilia per investitura papale fin dal 1265, aveva posto a presidio della città siciliana.
La rivolta si propaga subito a macchia d’olio nell’isola: quando un mese dopo arriva a coinvolgere la ricca e fedele città di Messina, re Carlo comincia a realizzare di avere a che fare con qualcosa di più che un semplice tumulto, qualcosa in grado di proiettare suo malgrado la Sicilia, persino più che in passato, al centro dello scenario politico mediterraneo. Ma come si è arrivati a questo stato di cose?
Le ragioni dei vespri siciliani – il nome con il quale la rivolta è passata alla storia – affondano le radici negli anni cinquanta del duecento, all’indomani della morte di Federico II Hohenstaufen, imperatore del Sacro romano impero nonché re di Sicilia. La scomparsa dello svevo nel 1250 aveva generato due ordini di problemi: da un lato, infatti, aveva sollevato all’interno della compagine ghibellina la questione della successione al titolo imperiale e a quello siciliano; dall’altro lato aveva portato la curia papale ad attivarsi energicamente per evitare che appunto i due titoli finissero per insistere ancora su di un’unica persona, configurando una concentrazione di potere che faceva sentire il papa minacciosamente circondato.
Dagli Svevi ai francesi
Nel 1252 Corrado IV, l’erede designato da Federico II, era riuscito a superare i contrasti sorti in Germania in merito alla successione imperiale, ed era sceso nel Mezzogiorno italiano per prendere possesso anche del regno di Sicilia, provvisoriamente retto dal fratellastro Manfredi. Corrado IV moriva tuttavia appena due anni dopo, peraltro non prima di essere stato scomunicato da papa Innocenzo IV, che in veste di signore feudale della Sicilia stava trattando l’assegnazione del regno al figlio di Enrico III d’Inghilterra, Edmondo. A Corrado era subentrato allora Manfredi, il quale, se sulle prime aveva operato in qualità di reggente del nipote, il piccolo Corradino, nel 1258 aveva approfittato dell’inconcludenza dell’accordo fra papato e Inghilterra e, diffusa la falsa notizia della morte di Corradino, si era fatto incoronare re di Sicilia.
Il potere raggiunto da Manfredi – tanto nel Mezzogiorno, quanto in seno al fronte ghibellino italiano – aveva messo in allarme la curia papale. Alla ricerca di una personalità da opporgli, stante il ristagno delle trattative con la corte inglese, papa Urbano IV si era rivolto a Carlo d’Angiò, fratello minore di Luigi IX di Francia. L’accordo fra le parti veniva siglato nel 1263 e prevedeva, di contro all’infeudazione papale del regno di Sicilia a Carlo, un rapido intervento militare degli angioini contro Manfredi.
L’investitura di Carlo d’Angiò
Nominato senatore di Roma da papa Clemente IV, nel 1265 Carlo d’Angiò veniva formalmente investito del regno di Sicilia. L’anno successivo il re passava all’attacco di Manfredi: a risultare decisiva era la battaglia di Benevento, che vedeva lo svevo cadere sul campo. Carlo prendeva così possesso del regno, ma il clima era lungi dal potersi dire pacificato: di lì a breve i partigiani degli Hohenstaufen si sollevavano contro Carlo, forti di avere alla loro testa una personalità quale Corradino. Questi, ormai adulto, era stato persuaso a far valere i propri diritti ereditari sul regno di Sicilia: dalla Baviera era dunque sceso militarmente in Italia, e tuttavia nel 1268 finiva con l’avere la peggio nella battaglia di Tagliacozzo. Catturato, veniva poco dopo decapitato a Napoli.
Sgombrata la scena dai pretendenti svevi, re Carlo I si trovava dunque ad avere mano libera in Italia. I suoi erano progetti politici di ampio respiro: già conte d’Angiò, di Maine, di Provenza e di Forcalquier, guardava al Mezzogiorno italiano come a un trampolino per estendere il proprio dominio sul Mediterraneo orientale. Se già nel 1266 aveva conquistato l’isola di Corfù, per assurgere l’anno successivo a campione del traballante impero latino d’Oriente, incalzato dai bizantini di Nicea, nel 1272 Carlo arrivava a cingere la corona di Albania, e cinque anni più tardi, giunto all’apice del successo, quella di Gerusalemme.
In territorio italiano, l’amministrazione angioina aveva finito per porsi sostanzialmente in continuità con quella sveva: se si eccettua l’introduzione di alcune figure amministrative di stampo tipicamente francese – fra cui in primo luogo il siniscalco e il camerario – si deve prendere atto di come la fiscalità e la ripartizione territoriale del regno avessero fatto propria l’eredità federiciana. A rompere con il passato, semmai, era la composizione della classe dirigente, nella quale Carlo immetteva massicciamente suoi connazionali, sottostimando forse le conseguenze delle malversazioni e dei soprusi che, di fatto, questa situazione favoriva.
L’ombra del complotto
È appunto dal profondo malcontento nei confronti dei francesi, vissuti come prepotenti occupanti, che si direbbe muovere sulle prime la rivolta siciliana del 1282. Tuttavia interpretare i vespri come feroce espressione di popolo non esclude che accanto – se non dietro – il risentimento generale sia possibile intravedere l’operare di concerto dei numerosi avversari di Carlo I d’Angiò. Fra di essi spiccavano l’imperatore Michele VIII Paleologo, al vertice di un rinato impero bizantino che vedeva nella politica orientale degli angioini una concreta minaccia per la propria sopravvivenza, e Pietro III d’Aragona che, avendo sposato Costanza, figlia di Manfredi, intravedeva nel legittimismo svevo il volano per espandere l’influenza del proprio regno.
È proprio l’intervento militare di Pietro in Sicilia a trasformare i vespri siciliani da subitanea rivolta locale a logorante questione internazionale. Se in un primo momento, sull’onda dei tumulti, le città siciliane avevano vagheggiato il costituirsi di una lega da porsi direttamente sotto l’autorità pontificia, tanto il netto rifiuto di papa Martino IV di avallare un simile progetto, quanto ancora di più le operazioni militari messe in atto da Carlo I per recuperare l’isola, avevano spinto i siciliani a cercare un interlocutore all’altezza della situazione, trovandolo appunto nel sovrano d’Aragona la cui corte, del resto, ospitava da anni un cospicuo numero di fuoriusciti svevi. Pietro, se pure estraneo a qualsivoglia complotto ai danni di Carlo d’Angiò, si dimostrava capace di cogliere repentinamente l’opportunità offertagli: da Tunisi – dove si trovava in funzione di una inconcludente crociata la cui tempistica aveva da subito avuto un che di sospetto, almeno agli occhi dei più smaliziati – aveva gioco facile a raggiungere con la possente flotta aragonese le coste siciliane.
Le conseguenze della spedizione aragonese erano molteplici e travalicavano rapidamente l’ambito isolano: da un lato, in area pirenaica si apriva un fronte di scontro fra l’Aragona e la Francia, intenzionata a sostenere anche militarmente gli interessi angioini; dall’altro, i rivoltosi siciliani della prima ora venivano estromessi dalla guida delle operazioni belliche, attraverso le quali il conflitto veniva via via spostato dall’isola al continente. Due anni più tardi la posizione di Carlo d’Angiò risultava seriamente compromessa: gli aragonesi avanzavano nel Mezzogiorno, mentre suo figlio Carlo, erede al trono, veniva catturato al termine di una battaglia navale nel golfo di Napoli; e proprio la città partenopea, seppure provvisoriamente, arrivava a sollevarsi contro gli angioini.
Una situazione di stallo
Gli aragonesi, tuttavia, non riuscivano a concretizzare il proprio vantaggio: nel 1285 moriva Pietro III, a cui subentravano i figli Alfonso in Aragona e Giacomo in Sicilia. Nello stesso anno moriva anche papa Martino IV, nonché Carlo I; il figlio di questi, ancora prigioniero, veniva liberato tre anni più tardi, e solo dopo aver assunto l’impegno, sancito dal trattato di Canfranc, di mediare fra Francia e Aragona ai fini della pace, nonché di non assumere in prima persona il titolo di re di Sicilia. In contraddizione con i termini di Canfranc, nel 1289 Carlo lo Zoppo veniva incoronato sovrano del regno di Sicilia da papa Niccolò IV, e come Carlo II si adoperava per recuperare il consenso intorno alla monarchia angioina.
Un ennesimo decesso finiva per scompaginare una volta di più il quadro dello scontro: nel 1291 moriva Alfonso III d’Aragona, a cui subentrava il fratello Giacomo; questi non rinunciava alla corona di Sicilia, e tuttavia assegnava l’isola al fratello Federico, in veste di luogotenente. Quattro anni dopo Giacomo II siglava ad Anagni, dinnanzi a papa Bonifacio VIII, una pace che prevedeva la rinuncia aragonese alla Sicilia e al Mezzogiorno italiano, di contro all’ottenimento di Sardegna e Corsica. Il nuovo corso fra aragonesi e angioini veniva sottolineato dalle nozze fra Giacomo e Bianca, una delle figlie dello Zoppo. Lungi dal rivelarsi risolutoria, tale pace induceva i siciliani, nel 1296, a sconfessare i propositi aragonesi e a proclamare re il luogotenente Federico, che nell’assumere la titolatura di Federico III andava ancora una volta a porsi nel solco del legittimismo svevo.
Dopo altri sei anni di guerra, nel corso dei quali le posizioni siciliane avevano loro malgrado ceduto terreno dinnanzi alle forze congiunte di aragonesi e angioini, le potenze in gioco concludevano la cosiddetta pace di Caltabellotta: Federico III rinunciava al continente ma non alla Sicilia, che sarebbe tornata agli angioini solo dopo la sua morte; Carlo II di contro smantellava i propri presidi isolani. Per suggellare l’accordo, Federico sposava un’altra figlia di Carlo, Eleonora. L’anno successivo papa Bonifacio VIII, che non a torto vedeva nei termini di Caltabellotta il disconoscimento di quanto sancito pochi anni prima ad Anagni, ratificava la pace solo a due condizioni: Federico avrebbe dovuto riconoscere il papa come suo signore feudale e avrebbe dovuto rinunciare alla titolatura di re di Sicilia in luogo di quella meno equivoca di re di Trinacria.
L’equilibrio raggiunto era in realtà più precario di quanto si potesse pensare, e per più di una ragione. Da una parte Federico, sicuro delle proprie posizioni, tornava a intitolarsi re di Sicilia. Dall’altra parte il fronte angioino si trovava a fare i conti con lo spinoso problema della successione: alla morte di Carlo II nel 1309 subentrava il suo terzogenito Roberto, non senza che fosse necessario tacitare le rimostranze dei tre fratelli e soprattutto del nipote Caroberto, già re di Ungheria.
La guerra permanente
La situazione sembrava precipitare nel 1312, allorquando l’alleanza fra Federico III ed Enrico VII, il nuovo imperatore sceso a Roma per cingere la corona del Sacro romano impero, riaccendeva il sentimento ghibellino italiano e, con esso, l’interminabile scontro con i guelfi, dei quali Roberto d’Angiò assurgeva a campione. La minaccia di un ennesimo periodo di guerra veniva sul momento disinnescata dalla morte improvvisa di Enrico nel 1313, morte a cui faceva seguito un periodo di relativa calma fra la corona siciliana e quella angioina; tuttavia nel 1320 Federico tornava di fatto alla carica, giacché associando al trono il figlio Pietro veniva meno al primo e più importante nodo di Caltabellotta.
Non solo: sette anni più tardi, dopo aver resistito ai ripetuti assalti angioini ai danni di Palermo e delle coste siciliane, Federico stringeva ancora una volta alleanza con il Sacro romano impero, nella persona di Ludovico IV il Bavaro; il mancato supporto militare all’impresa romana dell’imperatore, a ogni modo, faceva sì che già nel 1328 questo capitolo potesse dirsi concluso.
Federico III moriva nel 1337, non prima di aver dovuto fronteggiare la recrudescenza dell’offensiva di Roberto d’Angiò. Gli succedeva Pietro II, che se in termini di politica interna si trovava a dover fare i conti con la riottosità dell’aristocrazia siciliana, in termini di politica estera doveva misurarsi tanto con gli angioini quanto con la curia papale, dalla quale – dinnanzi al definitivo rifiuto siciliano di rispettare i termini di Caltabellotta – veniva scagliato l’ennesimo interdetto sull’isola. Pietro moriva nel 1342, e la corona passava al figlio Ludovico, minorenne: Roberto d’Angiò non riusciva tuttavia ad approfittare della situazione, giacché un anno più tardi moriva.

La lunga mano dell’Aragona
Un nuovo accordo fra le parti veniva raggiunto solo nel 1372. Lo siglavano Federico IV, subentrato nel 1355 al fratello Ludovico, e Giovanna d’Angiò, che il nonno Roberto, dopo la scomparsa del figlio Carlo nel 1328, aveva designato erede del regno, affiancandole quale marito il secondogenito di Caroberto d’Ungheria, Andrea d’Angiò. Dopo tre mariti e lunghi anni trascorsi all’insegna di una politica aggressiva che, pur mettendo in difficoltà la Sicilia, non era riuscita ad averne definitivamente ragione, Giovanna firmava una pace con la quale formalmente subinfeudava l’isola a Federico, che a sua volta s’impegnava a prestare il dovuto omaggio tanto a lei quanto a papa Gregorio XI, e acconsentiva ad assumere il titolo di re di Trinacria.
Federico IV moriva nel 1377: ereditava la corona la figlia Maria, che veniva affiancata – e di fatto esautorata – da quattro vicari, espressione dell’aristocrazia siciliana. Tre anni più tardi l’Aragona tornava però a proiettarsi sull’isola: Pietro IV se ne autoproclamava re, e nominava il suo secondogenito Martino di Montblanc il Vecchio vicario generale; nel 1391 il figlio di questi, Martino il Giovane, sposava Maria e si preparava ad affrontare non meno di cinque anni di guerra civile. Maria veniva meno nel 1401, Martino nel 1409: in assenza di eredi, la Sicilia era priva di una guida. Nel 1412 il concilio di Caspe, in Aragona, eleggeva un nuovo, unico sovrano per tutti i possedimenti della corona, Ferdinando de Antequera: in Sicilia egli sarebbe stato rappresentato da un viceré, il suo secondogenito Giovanni. Nel 1416 subentrava a Ferdinando il suo primogenito Alfonso, che per troncare sul nascere qualsiasi velleità autonomistica siciliana sostituiva il fratello con due viceré spagnoli estranei alla famiglia reale.

La fine degli Angiò di Napoli
E proprio Alfonso V il Magnanimo, nel 1442, riusciva a prendere possesso del regno angioino. Giovanna d’Angiò si era compromessa nell’ambito dello scisma d’Occidente del 1378, sostenendo l’antipapa Clemente VII in luogo di Urbano VI: questi aveva chiesto l’intervento di suo cugino Carlo di Durazzo, già re d’Ungheria, il quale entrava militarmente nel regno e nel 1382 eliminava Giovanna dalle scene. Carlo III moriva quattro dopo, e nuovamente la questione successoria trascinava il regno di Sicilia nel caos: gli scontri fra i pretendenti angioini si concludevano solo nel 1398, con l’imporsi del secondogenito di Carlo, Ladislao. A questi subentrava nel 1414 la sorella Giovanna, che per far fronte ai nemici interni nel 1420 adottava proprio Alfonso V d’Aragona. Con la morte di Giovanna II nel 1435 si estingueva la dinastia napoletana degli Angiò: sette anni più tardi, complice un uso brillante della diplomazia, Alfonso aveva ragione delle ultime resistenze francesi, guidate da Renato d’Angiò, ed entrava a Napoli. Nel 1443 papa Eugenio IV gli riconosceva ufficialmente il possesso tanto della Sicilia quanto del Mezzogiorno.
Di Jacopo Mordenti – fonte: https://www.storicang.it/a/guerra-vespro-il-sud-italia-conteso_16267