Per l’economista e filosofo Serge Latouche e i suoi seguaci la crisi del capitalismo diventa d’incanto la principale risorsa del mondo. Purtroppo per lui e per tutti, è solo un sogno…
DI Marcello Veneziani
La felicità sorge dalla miseria e dalla catastrofe. Prima di chiamare la neuro per farmi ricoverare lasciatemi spiegare. Innanzitutto non sono io a dirlo ma sto riferendo una tesi che sta conquistando giovani più o meno indignados e intellettuali in mezzo occidente. La tesi è fondata su due elementi, uno statistico e uno psicologico: il primo si basa sull’happy planet index che misura, al contrario del Pil, le condizioni di felicità nel mondo. Bene, questo felicitometro ha decretato che il Paese più felice del mondo è il Costa Rica, seguito da Santo Domingo, Giamaica e Guatemala. Paesi poveri ma caraibici, scassati ma solari. Anche Cuba sarebbe in testa se non ci fosse Fidel a castrare la felicità. I Paesi ricchi sono infelici, come nelle favole di Andersen.
La via alla catastrofe felice attiene invece a una scuola, inaugurata da Denis de Rougemont che già negli anni Settanta scriveva giulivo: «Sento venire una serie di catastrofi organizzate dalla nostra azione deliberata anche se inconsapevole. Se saranno abbastanza gravi da risvegliare il mondo e non abbastanza gravi da schiacciarlo, le definirei pedagogiche, le sole capaci di farci superare la nostra inerzia».
Alla paura della catastrofe come pedagogia della felicità si rifà il teorico della decrescita felice, Serge Latouche, economista ed ex marxista, che si eccita alla crisi economica recente e alle previsioni catastrofiche del futuro. Sarà una perversione sadomaso, ma anche a me quelle previsioni catastrofiche mettono addosso una strana euforia, l’allegria dei naufragi direbbe Ungaretti, un cosmico momento-verità o forse la consolazione di finire col mondo e non da solo.
Latouche descrive i pilastri del sistema consumistico: la pubblicità, che accende le brame di consumo, il credito, che rende consumatori indebitandosi, e l’obsolescenza programmata, cioè l’invecchiamento precoce degli oggetti in modo da spingere a comprare di nuovo. Di fronte alla follia della crescita incessante del tardo capitalismo, Latouche sogna la felicità nel senso della misura, del limite, della sobrietà, immagina una decrescita gioiosa, secondo natura ed etica, come una paideia ecocentrica. Traduco: un’educazione a considerare il mondo e non il consumo o l’individuo al centro di tutto. E sulla decrescita costruisce pure un’estetica, un’arte di vivere, quasi marcusiana. Fuori dalla modernità e dal capitalismo, anche se non indietro. Abitare la terra con affetto, amare il locale contro il globale, la cucina secondo natura e non secondo industria, l’economia del dono e l’anti-utilitarismo, la società conviviale, anzi la comunità. Rispetto al vecchio socialismo che sognava con Lenin socialismo più elettrificazione, i decrescisti sognano socialismo più natura.
La loro idea è che la felicità si moltiplica se condivisa, se include gli altri. Bello, bellissimo, ne sono innamorato. E ancor più mi piace quando Latouche racconta che smise di essere comunista quando nel Laos vide un contadino inerte in una risaia e gli chiese cosa facesse: «Niente. Ascolto il riso crescere». Su una risposta così, puoi costruire un magnifico testo sulla saggezza di vivere; ma non si può costruire un sistema economico e sociale. Una risposta del genere ci insegna che si può essere felici anche fuori dai nostri canoni e che popoli interi hanno vissuto con quella filosofia di vita; ma non possiamo pensare di esportarla in questo Occidente. La storia, l’indole, l’abitudine sono diverse.
Sono con Latouche nel sogno; poi mi sveglio, vedo la realtà, e dico: no, la vera critica al capitalismo occidentale non può essere di natura economica e sociale, perché là ogni alternativa al capitalismo è perdente; ma è di natura culturale e spirituale. È lì che ha perso il capitalismo, non sul piano della tecnica e del benessere, della libera iniziativa e del miglioramento delle condizioni di vita. Sì, certo, il mercatismo va respinto, perché il mercato deve essere dentro la società e non la società dentro il mercato. Sì, certo, l’economia di mercato deve essere sociale, compatibile con l’ambiente, generosa con chi è più debole, e solidale. Ma non si può pensare di abolire il capitalismo e adottare la saggezza del contadino del Laos a Manhattan o a Milano. Nessun socialismo finora è riuscito a far star bene un gran numero di persone come il sistema capitalistico, ammettiamolo. È il sistema che ha dato di più a più gente. E il consumismo seduce, persuade, forse aliena ma non violenta, non costringe.
Quel che manca, quel che non sa dare, o che ha tolto, è invece sul piano dell’anima, del mito, della cultura: quel che il nostro occidente ha spalancato è la disperazione, il nichilismo, l’egoismo, l’incapacità di addomesticare la morte, il dolore, la vecchiaia, la solitudine, i quattro cavalieri dell’Apocalisse moderna. Riusciamo a tardarli, attutirli, nasconderli, non riusciamo a farcene una ragione. Lì si annida l’infelicità. E allora è più realistico proporre la funzione sociale del capitale e della proprietà privata, la necessità di bilanciare la crescita della tecnica e del mercato promuovendo la cultura e la tradizione, il primato della comunità sugli interessi individuali pur legittimi, il valore della bellezza e dell’impresa eroica, la priorità dell’essere sull’avere, l’amor fati come accettazione della vita.
La decrescita sarà felice e realistica se si fonderà su quella crescita di beni immateriali ma vitali, non quotati in Borsa ma generatori di senso. Vogliamo motivi per vivere più che cose per riempirla.
Fonte: https://www.ilgiornale.it/