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La battaglia dei transgender per competere nello sport

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AGI – “Gigante della giustizia, paladina dell’uguaglianza di genere e del progresso”: la comunità LGBT piange così la morte della giudice e icona liberal Ruth Bader Ginsburg, che nella sua lunga carriera non ha mai esitato a schierarsi a favore dei diritti di Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender. Sua la firma, tra le altre, in calce alla storica sentenza pronunciata nel giugno scorso dalla Corte Suprema che stabilisce che nessuno negli Stati Uniti può essere licenziato per essere gay o transgender. Nel Paese il tema dell’inclusione è più caldo che mai. Soprattutto per i transgender: tra le tante recinzioni che si ritrovano a dover scavalcare, ci sono anche quelle dei campi sportivi.

Non è così per Esmee Silverman, 18enne del Massachussets che non sta nella pelle all’idea di allenarsi questo autunno con la squadra di tennis femminile della sua scuola. L’anno scorso giocava in quella maschile. Negli ultimi 10 mesi Esmee si è sottoposta a terapie ormonali a base di estrogeni e testosteroni per avviare la sua transizione e diventare una donna. La ragazza non ha dubbi: la gentilezza delle sue compagne di squadra la farà sentire subito a suo agio. Ma Esmee vive in Massachussets, dove gli studenti transgender possono praticare sport secondo il gender che più li identifica. Le regole, però, cambiano da stato in stato. 

In Idaho, l’American Civili Liberties Union sta conducendo una battaglia contro la legge statale che proibisce le squadre composte da ragazze e transgender donne. Ma è in Connecticut che una protesta contro la presenza di transgender nei team femminili sta facendo più rumore. All’inizio dell’anno le famiglie di tre ragazze hanno presentato una causa federale per impedire alle atlete transgender di gareggiare nelle squadre femminili. Il motivo? Il passato ‘mascolino’ garantirebbe loro una superiorità fisica e un vantaggio che non darebbe più chance di vittoria alle altre ragazze. L’accusa impugna il “Titolo IX, una legge federale creata per garantire pari opportunità per le donne nell’istruzione e nell’atletica leggera”. In pratica la nuova legge del Connecticut che apre le porte alle transgender nei team femminile contrasterebbe con il Titolo IX.

Il Connecticut ha permesso agli atleti transgender delle scuole superiori di competere senza restrizioni dal 2019. Secondo quanto riporta il sito Transathlete.com, altri 16 Stati hanno regole simili. Mentre in otto è assai difficile – se non impossibile – per gli atleti trans gareggiare. Possono farlo solo nella categoria del genere riportato sui loro certificati di nascita, oppure viene concesso loro di partecipare solo dopo aver attraversato procedure di riassegnazione sessuale o terapie ormonali.

Lo scorso weekend Valentina Petrillo si è accreditata come la prima atleta transgender italiana a partecipare a un campionato italiano gareggiando nella categoria del proprio genere percepito. Lo ha fatto ai campionati italiani paralimpici di atletica leggera di Jesolo (è ipovedente) portando a casa tre ori: nel 200 metri femminile (la sua disciplina preferita, nella quale ha totalizzato un tempo di 27.47), ma anche nelle lunghezze dei 100 e 400. “Ho le carte in regola per sognare in grande”, ha commentato a Vanity Fair. In Italia non c’è una linea in merito, forse la questione non nemmeno emersa. “Ad oggi non si conoscono casi di transessuali e transgender impegnati nelle attività agonistiche, a nessun livello. E non sorprende, specie se si pensa al fatto che nello sport italiano – e nel calcio in particolare – leggere di coming out tra i calciatori professionisti è pressochè impossibile”, riporta il sito Vice.

Nel mondo, invece, lo sport procede in ordine sparso, con il rugby che sta valutando di impedire alle atlete trans di partecipare ai campionati femminili, e il ciclismo che ha invece gia assegnato il primo titolo iridato della storia all’atleta canadese Rachel McKinnon. Il Comitato Olimpico internazionale ha invertito la rotta nel 2016 aprendo ai transgender e permettendo loro di gareggiare liberamente nelle gare del genere a cui sentono di appartenere, rispettando solo delle più semplici condizioni di controllo dei livelli di testosterone. Il che vuol dire che per determinare il genere femminile, non può eccedere per un anno intero i 10 nanogrammi per litro, prima dell’evento sportivo al quale ci si iscrive. Nel 2003 il Cio stabilì che per essere eleggibili nelle competizioni del genere di arrivo i transgender dovevano essersi sottoposti ad intervento chirurgico e ad almeno due anni di terapia ormonale di conversione. Escludendo così tutti coloro che non erano disposti a sottoporsi a trattamenti così invasivi.

Ma non tutti gli atleti sono d’accordo con il Cio. L’ultimo nome risonante a scagliarsi contro i transgender nello sport è quello di Martina Navratilova. Lo scorso anno l’ex tennista ha dichiarato: “è sicuramente ingiusto per le donne che devono competere contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini. Non basta definirsi donna per competere con le donne. Devono esserci dei criteri, se hai un pene non puoi competere con le donne. La via scelta dalla maggior parte delle Federazioni sportive non risolve il problema. Così è una vera e propria truffa che ha consentito a centinaia di atleti che hanno cambiato genere, di vincere quello che non avrebbero mai potuto ottenere in campo maschile, specialmente negli sport in cui è richiesta potenza”. 

Vedi: La battaglia dei transgender per competere nello sport
Fonte: estero agi


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