In questo kibbutz molti muri sono anneriti dalle fiamme, mentre le pareti di ogni casa sono segnate da una “X” che vuol dire “ripulita, non c’è più un terrorista” In questo luogo dimenticato ora rimbomba solo il suono delle esplosioni
Lorenzo Vita
La guerra nella Striscia di Gaza ha due volti. Quello della strategia e quello umano. Quello delle discussioni infinite, come ha dimostrato il veto russo e cinese al Consiglio di Sicurezza Onu che ha bloccato la risoluzione a firma Usa sulla tregua. E quello di una realtà che – giurano le persone del posto e gli esperti – non tornerà mai più come prima. Perché, come ci racconta Yuval Haran, che ha visto morire il padre e che non sa più nulla di suo cognato da quasi 170 giorni, “ogni vita è un mondo a sé”. E questi singoli mondi, si scontrano con un mondo dove la guerra non è solo una cosa “umana”. Ma un risiko fatto di equilibri che decidono le sorti di ogni essere umano coinvolto suo malgrado in questa guerra. Il kibbutz di Kissufim lo ha capito per primo. E lo continua a capire ogni giorno.
Le sue case sono crivellate di colpi. Le finestre rotte. Molti muri sono anneriti dalle fiamme. Ciò che c’era dentro le case è andato in larga parte distrutto o depredato. Mentre le pareti di ogni edificio sono segnate da una “X” nera realizzata dalle forze armate quando sono entrate nel villaggio. Ogni croce indica una casa liberata, “ripulita”, dove non c’era più un terrorista. E adesso è un paesino fantasma, dove le sue poche centinaia di persone sono tutte altrove: sfollate in qualche luogo di Israele, oppure morte o rapite. Nelle stradine deserte si vede solo qualche militare che si adopera con piccoli lavori di ristrutturazione. E mentre nessuno sa quando si potrà tornare alla normalità, ora la normalità di questo piccolo mondo a ridosso della Striscia di Gaza è questa. Un microcosmo abituato a essere di frontiera, ma diventato suo malgrado l’inizio di una guerra che non ha voluto ma di cui è stata la prima vittima insieme a tante altre comunità simili. Una di queste vittime è Yasmin Margolis, già vedova a 35 anni e costretta ad allevare le due figlie piccole senza il loro padre. Saar, il marito, è morto il 7 ottobre durante l’assalto di Hamas. E adesso, questa donna che non ha più nulla se non il ricordo di suo marito e due figlie da crescere, testimonia la sua esperienza con una maglietta che ritrae un uomo e la sua tomba. Il dolore è ormai una parte integrante della vita di Yasmin. Come la vita di tutte quelle comunità sembra ormai un enorme punto interrogativo che assomiglia a un inquietante limbo. Mentre Yasmin parla, è un continuo “ronzio” di aerei militari che solcano il cielo in direzione di Gaza e degli ultimi bastioni di Hamas. Le esplosioni si sentono nitide, eppure è lei stessa a far capire alle persone che entrano nel kibbutz che non c’è nulla da temere, che è tutto normale. “Sono i nostri” dice facendo riferimento ai piloti israeliani. Eppure, nonostante le forze armate israeliane bombardino e avanzino all’interno della Striscia, nessuno riesce a dare risposta alle mille domande che affiorano nella testa dei sopravvissuti. Nessuno sa quando tornerà, nessuno sa se avrà ancora un villaggio in cui vivere al confine con la Striscia di Gaza. Molti non sanno se la propria casa sarà ricostruita e in che tempi. E anche cosa aspettarsi da una guerra che sembra essere molto più complessa delle altre operazioni militari avvenute nell’exclave palestinese. Lo ripetono tutti gli esperti: “Questa non è una guerra come le altre”. E non si riferiscono solo alle difficoltà del terreno, tra tunnel e per la presenza di due milioni di civili palestinesi senza più una casa e che subiscono le terrificanti privazioni di un conflitto. Il problema, infatti, è che rispetto alle altre volte sono tutti più o meno consapevoli che il 7 ottobre sia un punto di non ritorno anche solo nell’idea di convivenza. Quell’assalto ha cambiato tutto. E nessuno sa quando si potrà riprendere una vita normale.
Le comunità di confine sono nate con l’idea di rappresentare una frontiera. Vivono da sempre con l’idea che un razzo partito dalla Striscia può raggiungere il proprio kibbutz, la propria casa o quella di un vicino in meno di dieci secondi. Sanno che nemmeno Iron Dome, il sistema antimissile, può proteggerli in caso di attacco, perché sono troppo vicini al sito di lancio. Ma adesso sono comunità che vivono sospese nel tempo e nello spazio: deserte come le città che dall’altra parte del confine si stagliano all’interno dell’exclave palestinese. Qui le distanze sono minime. Khan Younis, uno dei grandi centri della Striscia e teatro di una delle più sanguinose battaglie di questa guerra, è a pochissimi chilometri. Gaza è più vicina di Askhelon e di Sderot. Eppure, i due dolori così diversi e pure così simili che accomunano i due popoli, quello dei kibbutz israeliani e quello dei civili palestinesi, sono divisi – almeno fino a oggi – da un solco profondissimo. Scavato da un attacco senza precedenti al cuore di Israele da una guerra che non sembra destinata a finire presto. Almeno finché il governo israeliano non considererà Hamas sconfitta e la Striscia di Gaza non più un pericolo per tutte le città dello Stato ebraico. Come questo possa avvenire, è ancora difficile decifrare. E gli stessi Stati Uniti non riescono a imbrigliare Benjamin Netanyahu in una strategia precisa. E intanto, mentre la guerra continua, i piccoli mondi di quella piccola parte del mondo sono fermi a quel 7 ottobre. Le case deserte da entrambi i lati. L’economia paralizzata. I traumi che non risolveranno presto. E la tremenda certezza che alcune ferite non si rimargineranno mai. Come quelle di chi un giorno ha visto il terrore coi propri occhi, le proprie figlie chiuse in una stanza di sicurezza e un marito ucciso senza un motivo. E come quelle di chi dall’altra parte del confine non sa più se riavrà una casa, un futuro per sé e per i propri figli, o se dovrà piangere ancora. Il piano di Hamas produce i suoi effetti: dolore, vite spezzate e sospese, paesi vuoti e sogni infranti. Le bombe in lontananza e i segni di cingolati sulle strade ricordano a tutti che l’inferno è qualcosa di molto concreto e molto più umano di quanto si possa credere.*
Fonte: Il Riformista