Type to search

Israele, il fronte interno di Netanyahu

Share

di Tommaso Leone

Mentre il mondo osserva attonito ed impotente quello che succede a Gaza, sul fronte interno in Israele la Corte Suprema sfida il governo, ritenuto una minaccia per la tenuta democratica del Paese. Nonostante la difficile posizione di Benjamin Netanyahu, però, i partner di coalizione rimangono fedeli al loro Primo Ministro per ora, beninteso, a patto che continui ad accogliere le loro richieste.

“Se il Primo Ministro decidesse di porre fine alla guerra senza un attacco estensivo a Rafah per sconfiggere Hamas, non avrà il mandato per continuare a servire come Primo Ministro” ha affermato a inizio aprile Itamar Ben-Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale isrealiano. Fino ad oggi le minacce sono rimaste tali, ma ci si comincia a chiedere se Netanyahu sarà capace o meno di traghettare la coalizione di governo fino al naturale termine di mandato, previsto per il 2026.

Lo scenario delle elezioni anticipate
Un sondaggio condotto a febbraio ha stimato che se si andasse a elezioni anticipate i partiti dell’attuale opposizione sarebbero ampiamente in grado di formare un governo senza l’aiuto del suo Likud, storico partito della destra secolare israeliana, né tanto meno dei partner di estrema destra suprematista ebraica o degli ultraortodossi. L’esperienza politica e la determinazione necessarie per impedire che si vada alle urne prima del previsto non mancano di certo a Netanyahu, essendo rispettivamente il primo ministro più longevo della storia d’Israele e sotto processo per corruzione dal 2020, da cui diventerà difficile evitare il carcere se dovesse perdere il potere.

Lo scenario delle elezioni anticipate è cruciale per capire quali forze tengono insieme la maggioranza e quali invece la potrebbero far crollare. I numeri risicati nel Knesset, il parlamento unicamerale israeliano, composto da 120 membri, di cui solo 64 espressione della coalizione di Netanyahu, parlano chiaro. Da una parte, infatti, ci dicono che basterebbero cinque soli disertori affinché si tenga un voto per sciogliere la camera e tornare alle urne, dall’altra che ciascuno dei quattro partiti che orbitano intorno al Likud avrebbe da solo i numeri per far cadere l’intero governo, se Netanyahu non dovesse più soddisfare a sufficienza gli interessi del suddetto.

Pare evidente che il ministro Ben-Gvir sia il partner più difficile da soddisfare in quanto le sue pretese guerrafondaie a Gaza si scontrano frontalmente con quelle dell’amministrazione Biden, il quale ha chiarito che un’invasione di terra a Rafah sarebbe un “grande errore”. Perdipiù, nel corso dell’ultimo mese, la Corte Suprema israeliana si è dimostrata determinata a ostacolare quell’esecutivo che dopo essersi insediato nel 2022 ha tentato di indebolirne i poteri e l’indipendenza. In prima analisi la guerra a Gaza sta certamente mettendo alla prova la tenuta della coalizione. Ciononostante, l’impopolarità della maggioranza rende il ritorno alle urne una minaccia politicamente esistenziale per l’intero governo Netanyahu, offrendo dunque un’ottima ragione per restare uniti, costi quel che costi.

O Hamas, o gli ostaggi
La replica del Primo Ministro a chiunque critichi le priorità del governo o la risposta a Gaza delle truppe dell’esercito israeliano (IDF), continua a essere la stessa: Israele si fermerà solo dopo aver ottenuto “vittoria totale” su Hamas e liberato il maggior numero possibile di ostaggi. Anche i mezzi per raggiungere tali obiettivi non sono cambiati malgrado gli scarsi risultati ottenuti sia sul piano strategico che su quello tattico. Da un lato, perché essendo Hamas un movimento ideologico e non solo un mero gruppo armato ogni vittoria militare sarà temporanea e non impedirà alla sua fazione più estrema di ricostituirsi in futuro. Dall’altro, perché sugli oltre 240 ostaggi iniziali l’operato delle IDF ha portato alla liberazione di solo due di questi, un numero nettamente inferiore rispetto ai 105 liberati tramite le negoziazioni con Hamas.

Infatti, la prosecuzione delle incursioni militari a Gaza, che finora hanno interessato il nord e il centro della Striscia, complicherà le negoziazioni per salvare i 129 ostaggi rimanenti, di cui 34 creduti deceduti. In privato, sia Israele che gli Stati Uniti sospettano che il numero di questi ultimi sia molto più alto.

Da parte americana la crescente frustrazione verso il disimpegno a proteggere l’altra parte in causa, i civili palestinesi, è stata di fatto largamente ignorata da Israele. Il numero delle morti ha superato le 34.000 vittime ed è cresciuto in modo costante dal 7 ottobre. Fonti attestano che un’incursione militare a Rafah, nel sud della Striscia, dove le IDF hanno fatto sì che si ammassasse oltre un milione di persone, inevitabilmente aggraverà la pericolosità di carestia ed epidemia.

Netanyahu ha dichiarato che la cosiddetta “operazione a Rafah”, fortemente voluta da Ben-Gvir, si farà e che una data è già stata fissata. L’amministrazione Biden ha detto di non esserne al corrente anche se da tempo discute con gli Israeliani dell’operazione. Biden, che a suo tempo aveva definito ulteriori morti civili una “red line”, potrebbe aver perso le speranze con Netanyahu. Se così fosse, il governo israeliano non potrà che trarne stabilità con grande piacere della fazione più belligerante che, fingendo di non badare alle morti civili, pretende che la vittoria su Hamas abbia priorità rispetto alla liberazione degli ostaggi.

Corte Suprema v. Netanyahu
La Corte Suprema costituisce sul fronte interno un pericolo ben più concreto per l’esecutivo, il quale, durante il 2023, ha tentato di portare avanti un progetto di riforma della costituzione, messo in pausa dopo il 7 ottobre, che trasformerebbe il Paese in una autocrazia elettorale di stampo “orbaniano” (in cui, avendo l’esecutivo diretto controllo sul potere giudiziario, i risultati elettorali possono essere determinati pressoché a tavolino).

Oltre sette mesi di proteste di massa senza precedenti contro Netanyahu e i suoi partner dell’estrema destra suprematista ebraica, espressione del movimento colonialista, ed ultra-ortodossi, espressione della auto segregata società proto-teocratica, non sono state ascoltate dal governo che si è dimostrato indisposto a fare passi indietro. Nel luglio scorso, è stata infatti approvata la prima di un pacchetto di leggi più ampio e pericoloso la quale, modificando una delle 14 leggi con status de facto costituzionale anche se ordinario de jure, prevede che l’esecutivo sia legittimato a ignorare con un semplice voto a maggioranza assoluta nel Knesset (50%+1) qualsiasi controllo di costituzionalità riguardo le decisioni prese dai suoi stessi vertici.

La Corte Suprema, che prima del 7 ottobre ha preferito non invalidare la legge per evitare una pericolosa crisi costituzionale, ha dimostrato di sapersi imporre con un voto decisivo tenutosi il primo gennaio 2024. Approfittando della debolezza e, perché no, della distrazione dell’esecutivo focalizzato su Gaza ha annullato la modifica apportata alla de facto costituzione a luglio, affermando non solo di avere la prerogativa di controllo di costituzionalità sulle leggi ordinarie ma anche su quelle fondamentali.

La Corte Suprema è stata criticata dal governo per aver tenuto il voto mentre il Paese è in guerra e in molti, compresa la Corte Suprema stessa, sospettano che la coalizione di maggioranza sia ancora determinata a portare avanti il progetto di riforma per stabilizzare il fronte interno in Israele. Nonostante la situazione umanitaria a Gaza interessi una schiacciante minoranza del Paese, infatti, ad inizio aprile la Corte ha accolto la petizione di una ONG israeliana, di fatto obbligando il governo a rispondere su questioni legate alla condizione dei palestinesi a Gaza. Dopo aver sostenuto per mesi che non ci fossero limiti all’ingresso di aiuti, il governo ha comunicato alla Corte Suprema di aver preso delle misure per facilitarne l’entrata, malgrado rimangano serie perplessità riguardo alla sincerità di tale dichiarazione.

In un’altra occasione la Corte ha accolto un’ulteriore petizione, obbligando il governo a giustificare la legalità dell’esenzione dall’esercito di cui beneficia la minoranza ultra-ortodossa (per il resto degli ebrei israeliani vige infatti la leva militare obbligatoria). Scontenta dell’argomentazione, in una decisione senza precedenti la Corte Suprema ha ordinato al governo di bloccare una parte dei sussidi previsti per gli ultra-ortodossi che non considera più legalmente esentati dalla leva militare e da un potenziale reclutamento.

Netanyahu contro tutti
Dall’insediamento del settimo governo Netanyahu ad oggi non sono mancati sviluppi sul fronte interno senza precedenti nella storia dello Stato di Israele: una riforma giudiziaria per accentrare il potere nelle mani di un uomo e i suoi prescelti, le proteste più partecipate di sempre per ottenerne le dimissioni, e i massacri del 7 ottobre, un fallimento politico inaudito, prima ancora che d’intelligence, firmato Benjamin Netanyahu. Anche la percentuale di elettorato che vuole si torni al voto prima del 2026, stimata intorno al 75%, non può lasciare indifferenti. Israele proviene da cinque anni di instabilità, in cui lo scenario delle elezioni anticipate trova già ben cinque precedenti, eppure il verificarsi del sesto dipende in larga parte da quali ulteriori pressioni Joe Biden e la Corte Suprema sapranno mettere sull’esecutivo.

Il primo, rischiando di mettere a repentaglio il risultato delle elezioni americane contro Donald Trump a novembre alienando il voto di milioni di americani, la seconda, rischiando di aprire una crisi costituzionale ad alto potenziale esplosivo. Il significato della blasonata “vittoria totale”, nella guerra che pare avere in mente Netanyahu, sembra sempre più equivalere ad impedire che qualcuno possa levargli le mani dal volante.

Fonte: Orizzonti Politici