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In mostra a Roma Impressionisti per Celebrare i 150 dalla Nascita del Movimento Artistico che Rivoluzionò il Mondo dell’Arte

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Giovanni Cardone

Fino al 28 Luglio 2024 si potrà ammirare al Museo Storico della Fanteria Roma la mostra dedicata agli Impressionisti a cura di Vincenzo Sanfo in collaborazione con Vittorio Sgarbi. Con oltre 160 opere di 66 artisti, tra cui spiccano Degas, Manet, Renoir e l’italiano De Nittis, tutte provenienti da collezioni private italiane e francesi, la mostra antologica Impressionisti – L’alba della modernità celebra i 150 anni dell’Impressionismo. L’esposizione, prodotta da Navigare srl e organizzata con il supporto del comitato scientifico composto da Gilles Chazal (ex Direttore Musée du Petit Palais, Membre école du Louvre), Vincenzo Sanfo (Curatore mostre internazionali, esperto di Impressionismo) e Maithé Vallès-Bled (ex Direttrice Musée de Chartres e Musee Paul Valéry), e diretto da Vittorio Sgarbi, presenterà un’ampia galleria di dipinti, disegni, acquerelli, sculture, ceramiche e incisioni di artisti che contribuirono, sperimentando stili e tecniche differenti, all’originalità dell’Impressionismo e che parteciparono alle otto mostre parigine organizzate sino al 1886. Su queste eterogenee sperimentazioni la mostra si sofferma, con prospettiva filologica, documentando le origini e la storia di un nuovo modo di fare arte, influenzato sia dall’antiaccademismo e dalla pittura en plein air di Barbizon, quanto da grandi innovazioni dell’epoca: l’avvento della grande industrializzazione, la nascita della fotografia, del cinema, dell’elettricità, del telefono e dei primi voli aerei. In particolare, l’esposizione nella Capitale evidenzia un aspetto poco conosciuto della ricerca impressionista, dedicato al disegno, all’incisione e alle tecniche di stampa, influenzati dalla recente invenzione della fotografia. Saranno, quindi, esposti accanto a numerosi dipinti a olio, anche bozzetti preparatori, studi e litografie di opere conosciute al grande pubblico, tra queste: La maison du doctor Gachet di Cézanne, L’homme à la pipe di Van Gogh, Il ritratto di Berthe Morisot e il Bar aux Folies-Bergère di Manet, La loge di Renoir e, ancora, le celebri ballerine di Degas, del quale in mostra sono presenti anche diverse sculture bronzee realizzate sullo studio del movimento. In una ricerca storiografica e scientifica sull’Impressionismo che è divenuta una dispensa e modulo monografico universitario apro il mio dicendo : Nel 1874 ebbe luogo a Parigi, organizzata dalla Société anonyme des artisies peintres sculpteurs et graveurs, un’esposizione dei pittori C. Monet, A. Sisley, C. Pissarro, A. Renoir, E. Degas, B. Morisot e altri; e il critico dello Chanvan, Louis Leroy, prese spunto dal titolo di un quadro di Monet, Impression, Soleil levant, per intitolare appunto il suo articolo sulla mostra, Exposition des impressionistes. L’espressione, benché volesse essere dispregiativa, non mancava d’una certa evidenza; ed ebbe rapida fortuna; tre anni dopo, in una seconda mostra di gruppo, i medesimi artisti presero loro stessi il nome impressionistes. I principali artisti dell’impressionismo francese furono Monet, Sisley, Pissarro, Renoir e accanto a questi, Édouard Manet. Nel decennio 1870-1880 essi si presentarono con affinità di caratteri che giustificano tuttora il loro aggruppamento: partendo da una concezione dell’arte del tutto veristica, si propongono di fissare le impressioni che la natura loro dà in un dato momento. E ciò mediante una pittura rapidissima, abbreviata, ma che pur renda l’illusione della realtà; e quanto a soggetti prediligono paesi e figure all’aperto in gran luce (plein-air) di cui vogliono rendere la gioia del colore chiaro e intenso. Posizione estetica quanto mai semplice, che risponde a uno stato d’animo elementare, ma umanissimo, e che si potrebbe definire ottimismo veristico. Per quest’insieme di caratteri, intimamente fusi, la pittura impressionistica appare alcunché di nuovo rispetto alla tradizione della pittura europea, anche se alcuni elementi di essa, approssimativamente considerati, già siano nella pittura precedente.
Le influenze che operarono sulla formazione dei pittori impressionisti furono numerose: verista anzitutto, sia pur con impostazione pittorica e patetica diversa, era già in gran parte la pittura francese; dall’Inghilterra, per il tramite di Jongkind, veniva l’esempio di paesaggio dal vero, rapido, mosso e vibrante di pennellate (Bonington e Turner); rimaneva copiosa e importante l’opera di Corot giovane; e cominciavano a diffondersi le stampe giapponesi a colori del ‘700 e ‘800 in gran parte di paesaggio, a tinte chiarissime, per toni giustapposti, e di una certa loro sommarietà di visione. I due elementi di abbreviatura formale e di composizione per toni giustapposti sono già nell’Olympia di Manet (1863); e, dopo qualche opera in cui ritornano le sue predilezioni chiaroscurali, secentesche, egli, con la Veduta dell’esposizione universale del 1867, la Partenza del battello di Folkestone e alcune altre marine, giunge a darci vedute dal vero con pittura chiara e abbreviatissima e con notevole senso di vibrazione luminosa. E Monet, che ancora nella Route de Bas Bréau (1866, Parigi, Musée des Arts Décoratifs) imposta il quadro con un’intonazione d’insieme grigio dorata, nelle Femmes dans un jardin (Louvre), di ben poco posteriore, cerca di limitarsi al colore locale quale appare su forme in pieno sole. E, più conseguente e osservatore più minuto dei fatti luminosi di quel che fosse Manet, giunge all’esclusione del nero dalla sua tavolozza, e a dare le ombre non mediante il colore della zona in luce scurito, ma mediante colori più scuri sì, ma diversi e puri, prossimi, se non scientificamente identici, al colore complementare di quello della luce corrispondente. Cerca quindi di ridurre la tavolozza ai soli colori del prisma, di non mescolarli l’un l’altro, ma accostandoli sulla tela di dar con essi luminosamente esaltato il tono dell’oggetto. Il colore impressionistico sarà rigidamente applicato, darà luogo al divisionismo. Ma l’estro pittorico degl’impressionisti, soprattutto di Manet, Monet e Sisley, non permetterà eccessiva schiavitù alla loro dottrina coloristica, l’applicheranno solo fin dove sentono di ottenere così gli effetti voluti di grande chiarezza, di ombre luminose e quindi di ariosità, di distanze evidenti, di morbidità di forme. Nel primo decennio almeno non vincolano mai (diversamente dai divisionisti) la forma o il verso della pennellata, il soprammettere o meno d’un colore a un altro, la composizione insomma del loro arabesco pittorico. La loro pennellata vuole essere bella, e si propone di rendere la materia e il senso delle cose come l’occhio e l’estro le vedono. La gioia delle cose e la gioia della bella pittura s’incontrano con impareggiabile facilità nelle ultime opere di Manet, in un compiacimento perfetto tra le aspirazioni del suo spirito e le forme del mondo che gli appaiono. E di alta qualità in gran parte sono i paesaggi di Monet e Sisley oltre il 1880, d’un senso d’illusione perfetto, d’una grande solidità ed evidenza di piani attraverso una pittura rapida, fresca, intonata a una gamma di colori chiari. Vicinssimi sono in quegli anni Monet e Sìsley: solo Sisley è generalmente un po’ più fuso e un po’ meno spinto nel cromatismo impressionistico. Verso il ’90 Monet, fissandosi sempre più sull’apparenza luminosa delle cose (la serie delle Cathédrales), finirà col render quasi inafferrabile l’immagine e col creare uno sciamar di colori su un tono dominante (Harmonie verte, Harmonie rose, come dicono i sottotitoli di certi suoi quadri), con pennellata però meno vibrante che nei suoi quadri giovanili; sino al grande fregio delle Nymphéas all’Orangerie, in cui cerca di trarre dallo stesso soggetto giuochi di luce sull’acque tra ninfee galleggianti, lo spunto d’una pittura di puro ondeggiare di colori, di valori ormai prevalentemente decorativi. Pissarro si avvierà dopo il 1885 verso la tecnica divisionista. Degas invece, naturalmente disposto a una pittura di figura psicologicamente e tipicamente approfondita colta nel suo ambiente negli atti più rapidi e spontanei, accede all’impressionismo verso il ’70 per il suo colore chiaro a zone giustapposte, in cui rende con grande freschezza ed evidenza gl’interni a luci artificiali delle sue scene di teatro, le sue vedute di corse di cavalli. E avrà due seguaci di talento in Forain e in Toulouse-Lautrec. Particolare è anche la posizione nell’impressionismo di Renoir, che vi si converte dopo aver dato già opere di figura importanti alquanto prossime al fare di Courbet, ma più gioiose e più leggiere d’esecuzione. Egli ha un gusto di vita fisica più umano e più copioso degli altri impressionisti; e dopo un decennio circa di tecnica impressionista, dopo varî mutamenti e studî d’opere antiche giunge a un fare morbido e chiaro a pennellate sottilmente intrecciate senza accentuata semplificazione generale e intima della figura. Cézanne esporrà solo fino al 1877 con gl’impressionisti, poi se ne allontanerà sentendo la sua profonda differenza da essi; egli farà suo in gran parte il cromatismo chiaro degl’impressionisti e certe compendiarità d’esecuzione, ma ciò si fonderà in lui con un senso eccezionale del volume delle cose, delle resistenze delle superficie; con un bisogno d’effetto plastico e architettonico prepotente; e la sua arte sarà stimolo e appoggio alle prime esperienze cubiste, antitetiche all’impressionismo. Bazille morto giovanissimo, e P. Gauguin, seguace di Pissarro nei primi anni, hanno parte secondaria nel moto impressionistico. Varietà quindi di temperamenti in una atmosfera psicologica e in un fervore di ricerche artistiche che li accomuna: tutti, il caso Cézanne a parte, d’una grande sapienza di disegno acquisita da giovani nell’ambiente pittorico francese sulla metà del secolo, tenaci nelle loro ricerche, imperterriti davanti all’incomprensione del pubblico che per decennî non vuol seguirli, benché la loro arte tanto aderisca all’epoca. Il loro successo si delinea sullo scorcio del secolo, e si afferma in principio del ‘900 con un interesse critico e commerciale imponente. L’impressionismo fu e rimase sostanzialmente un fenomeno francese. Tuttavia il movimento ebbe larghe ripercussioni di là dai confini del paese in cui aveva avuto origine, anche se gli effetti non furono altrettanto felici e duraturi. Favorirono la diffusione dell’impressionismo le ricerche tecniche che erano in voga un po’ dappertutto e che in Italia avevano occupato i migliori artisti fino da quando, reduci dell’esposizione di Parigi del 1855, Domenico Morelli, Saverio Altamura e Serafino Da Tivoli proclamarono che la “macchia”, intesa nel significato di “impressione”, era il fondamento della pittura. Purtuttavia in Italia, per l’istintiva resistenza di una pittura educata da una tradizione di secoli a regolare e ordinare col vigore dello stile l’ansioso passaggio dall’intuizione e dall’istinto alla coscienza e all’arte, non poteva dar larghi frutti il moto che, partito da premesse idealistiche, si risolse ben presto in una forma di materialismo dove i concetti di luce, tono, distanza, valore, assorbirono l’ispirazione dell’artista, la rivolsero tutta al fenomeno esteriore svuotandola d’ogni contenuto morale. E quando, verso il 1880, dilagarono gli entusiasmi dinnanzi alle conquiste della tecnica nuova, solo i mediocri vi si abbandonarono intieri. Ma essi erano i più e le esposizioni furono tutte piene di paesaggi violetti, di nudi azzurri, di alberi arancione, di acque dai riflessi inverosimili, di raggi di sole che, per voler essere troppo luminosi, finivano col diventare opachi. I migliori o si lasciarono convertire seguendo il mezzo termine scientifico da cui nacque il divisionismo, oppure dei principî nuovi accettarono quel tanto che poteva adattarsi al proprio temperamento. Così, del resto, aveva fatto il De Nittis, che nel 1874 Degas invitò a esporre con gl’impressionisti. Fedele al suo temperamento italico, egli precisa infatti quello che vede, e fa della sua visione qualche cosa di più esatto di una semplice pittura; raggiunta l’unità della luce aperta, si compiace dell’aneddoto, della definizione dei tipi e delle mode. Un altro fedelissimo agl’insegnamenti dell’impressionismo, Federico Zandomeneghi, si differenzia per l’acutezza del disegno tagliente. Antonio Mancini, per il quale l’influenza impressionistica fu rivelazione, l’accordò col gusto classico e di sapore secentesco della terza dimensione. Il Michetti ne assorbì quel tanto che potesse conciliare la sua osservazione realistica, la sua particolare concezione dei problemi di forma-colore col suo desiderio di sintesi e di potenza espressiva. Armando Spadini impose a una pittura fondata sull’esperienza impressionistica l’aspirazione a salire dal molteplice al definitivo, a raggiungere attraverso il particolare gli universali eterni. Altri, e furono moltissimi, che lo accettarono senza discussioni e senza adattamento, compirono opera vana, la cui inefficacia consiste nell’azione negativa dell’antitesi esistente tra la sensazione moderna e l’oggetto dell’emozione artistica, nella mancanza d’una reale identità fra l’interno e l’esterno. Passato dalla pittura alla scultura, l’impressionismo si annunciò tra noi anche come la ribellione della scultura nuova contro l’insegnamento accademico, manifestandosi con la noncuranza della linea, la ricerca del colore e del movimento mediante una modellatura sommaria e nervosa e il fondersi della forma nel viluppo atmosferico.
Furono in questo senso e in diverso modo scultori impressionisti Giuseppe Grandi, Ernesto Bazzaro, Paolo Troubetzkoy, Medardo Rosso, e, in alcune opere giovanili, Leonardo Bistolfi e Libero Andreotti. In Belgio dove peraltro i maggiori pittori del tempo, Joseph e Alfred Stevens e Henri De Braekeler rimasero estranei al movimento l’impressionismo fu introdotto verso il 1870 da un greco, Pericle Pantagis. Più d’un pittore, come Degreef e Vogels, ne profittano subito. A partire dal 1855 l’influenza di quella sensibilità nuova diventa irresistibile. Teodoro Rysselberge si forma agli insegnamenti del Seurat ormai passato al neo-impressionismo; George Lemmen li concilia con quelli del Renoir; Henri Eenepoel crea nell’Homme en rouge e nell’Espagnol à Paris pezzi di pittura che rivaleggiano col Manet; Rik Wouters, in quel suo risolvere forme e colori in marezzature di luce, fa pensare al Monet. Qualche riflesso del Manet è nelle prime opere di James Ensor, non ancora convertito al lirismo stravagante dei suoi fuochi d’artificio. L’Olanda dà all’impressionismo due maestri, Johan Barthold Jongkind e Vincent van Gogh. Ma, se il primo può dirsene un precursore, l’altro arriva per liquidarlo ed è a un tempo l’erede degl’impressionisti e il fondatore di un’altra arte. Ma, in fondo, la lezione dell’impressionismo non è perduta per nessuno, specialmente per Breitner che la associa a quelle venutegli da Frans Hals, per Isaak Israëls, per Jean Toorop che passa dal simbolismo al puntinismo del Seurat. Anche in Germania le ricerche tecniche, precedendo l’impressionismo, ne preparano la diffusione. Principale apostolo è Max Liebermann, che, partito dal nerume del Munkáczy, s’impregna a poco a poco delle influenze del Manet e del Degas. Il neo-impressionismo, alla sua volta, trova proseliti nel gruppo Scholle di Monaco, p. es. in Leo Putz e in Adolf Munzer. Tra i pittori scandinavi, i danesi imparano dalla nuova visione e dalla tecnica che conobbero anche attraverso la mirabile galleria creata da Guglielmo Hansen, ma non vi si convertono. Il Krøyer e, in minor misura, Michel Ancher e Frits Syberg si limitano a trarne il senso dell’atmosfera e carezze di luce diffusa. In Norvegia anche dopo il 1870 prevale l’influenza di Courbet e il movimento impressionista non ebbe largo seguito. Tra gli Svedesi Ernesto Josephon si apparenta a Manet, e tutto un gruppo di pittori, tra i quali ricordiamo Hugo Salmon e Hugo Berger, emigrato a Parigi, prende addirittura il nome di “generazione degli Svedesi di Parigi” le loro opere, esposte nei Salon tra il 1880 e il 1890, si distinguono appena da quelle dei loro colleghi francesi. Anche il nuovo gruppo che entra in scena dopo il 1890, continua a domandare la sua ispirazione ai maestri francesi. Ma allora la tecnica impressionistica è con maggiore discrezione posta al servizio d’ispirazioni nazionali, come più tardi al neo-impressionismo Eugen Jansson chiede i mezzi per le sue sottili analisi dei riflessi del lago Malar. L’impressionismo entra come un elemento perfettamente assimilato a costituire la prodigiosa virtuosità di Anders Zorn. In Cecoslovacchia l’impressionismo agì soprattutto sui pittori che si raggrupparono intorno alla rivista Volné Sm?ry (fra essi J. Úprka, J. Preisler, A. Slav??ek). La secessione che prese il nome di “Società degli ambulanti” (Peredvižniki), proclamando la necessità d’un’arte nazionale, salvò la pittura russa dalle influenze straniere, ma a partire dal 1890 tutto cambia e il gruppo Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte) riprende la strada di Parigi. Sopra tutti Isaac Levitane dopo un soggiorno fatto in Francia nel 1889 mette a profitto la lezione dell’impressionismo per i suoi paesaggi del Volga. La grande tradizione salva la migliore pittura spagnola da una pedissequa imitazione delle tendenze francesi, tuttavia essa accoglie, senza rendersene schiava, gl’insegnamenti della teoria impressionistica, alla quale solo i mediocri si abbandonano senza reagire.In Inghilterra più che una larga corrente impressionistica si avvertono influenze personali, del Degas su Henry Tonks, del Manet su Stanhope Forbes, di Claude Monet sulle opere mature di John Waterhouse, apostata del preraffaellismo, del Monticelli su Edward Hornell, Arthur Melville, Joseph Crawnall, George Henry, e, più tardi, di Degas e di Manet in qualche opera di Glyn Philpot, di Degas in Walter Sickert e in Spencer Gore, di Renoir in John Fergusson. Nell’evoluzione di John Lavery, L’Apertura dell’esposizione di Glasgow (1888) segna la sua transitoria adesione all’impressionismo. Il neo-impressionismo influenza specialmente Harold Gilman e W. Rothenstein.
A partire dal 1885 Parigi diventa il centro dell’arte americana. Le classi di Cabanel, Lefeburs, Boulanger, Bonnat sono frequentate da dozzine di allievi d’oltre oceano, mentre altri, fra cui il Harrison, la Mac Monnies, Mary Cassat, Child Hassam, il Metcalf, il Twatchmann formano il gruppo compatto degl’impressionisti americani. Volendo dare un quadro più completo menzionerò solo alcuni dei tratti caratteristici più importanti del periodo pre-impressionista. Le teorie fondamentali sulla natura della luce, del colore e della visione vennero elaborate in questo periodo. Fu inventata la macchina fotografica ma, al contrario di ciò che pensa qualcuno, l’impressionismo non fu una reazione contro la riproduzione fotografica della natura. Fu piuttosto un’estensione alla pittura di questo interesse riguardo al fenomeno della luce. Le prime scoperte nello studio della psicologia vennero fatte nel tentativo di comprendere la sensazione. L’evoluzione della Specie di Darwin e le ricerche di Morgan in antropologia allargarono l’orizzonte intellettuale. Dal 1848 si svilupparono le grandi rivoluzioni liberali e proletarie in Europa, così segnatamente drammatizzate per la Francia dalla vicenda della Comune di Parigi. Con il lavoro di Marx e Engels l’atteggiamento mentale scientifico positivo venne applicato allo studio della struttura economica delle società. Un ulteriore impeto verso il nuovo spirito fu dato dall’apertura all’Oriente, la cui arte doveva avere una profonda influenza sulla pittura impressionista. La conclusione a cui desidero giungere è che il movimento impressionista rappresentò nelle arti figurative lo stesso spirito di scoperta e di invenzione che aveva segnato l’atteggiamento scientifico di quel periodo. Fu l’era dell’andare fuori nel mondo e i pittori andavano fuori sia letteralmente che emozionalmente. L’andarsene fuori ha il suo significato letterale: l’artista uscì dal suo studio, piantò il cavalletto presso una spiaggia o un campo e dipinse all’aria aperta. Pitturare all’aria aperta, così comune al giorno d’oggi, è parte della rivoluzione nell’arte della pittura introdotta da questi artisti. Il suo immenso significato viene trascurato sia perché non è connesso al suo tempo, sia perché il suo significato emozionale è ignorato. Se la Parigi di oggi rassomiglia in qualche modo alla Parigi del 1860, e Parigi non è una città moderna, si può comprendere facilmente ciò che vedevano i pittori quando uscivano all’aria aperta. In contrasto alla architettura moderna con la sua enfasi sulla luce e sull’aria, le case di Parigi sono ammassate e scure. Ciò doveva essere stato molto più vero circa novant’anni fa. Uscendo dal suo studio nella brillantezza del sole francese, l’artista veniva colpito da ciò che vedeva: un’atmosfera scintillante e danzante. Questa non è un’esperienza insolita. Non diveniamo consci dell’atmosfera quando, dopo alcuni giorni di pioggia ininterrotta, il sole brilla di nuovo e usciamo a goderci l’aria fresca e la luce del sole? Diamo queste cose per scontate poiché abbiamo accettato il sole e l’aria nelle nostre vite. Non è stato sempre così. Siamo inconsapevoli del debito che abbiamo nei confronti degli artisti che ci hanno aperto gli occhi su queste cose. Però l’uscire emozionale è più importante, perché senza di esso l’uscire letterale all’aria aperta non presenta niente di insolito. Qui l’analogia che mi si presenta in mente è la sensazione che si ha quando, dopo una malattia, si esce in una giornata radiosa. Si pensa: “E’ bello essere vivi”. Si osserva anche: “Come è viva l’aria. Come è luminoso il mondo, così colorato”. Mettiamo da parte per il momento la questione dell’aria. Da notare è il fatto che una tale sensazione dipende da un uscire emozionale, una espansione dello spirito. Il nostro organismo è in costante contatto fisico con l’atmosfera, ma lo sono pure tutti gli altri oggetti solidi del nostro mondo: pietre, cose, persone e così via. Però nessuno di questi oggetti percepisce l’atmosfera. Il semplice contatto fisico è insufficiente. Come Reich sottolineò nella Scoperta dell’Orgone : “Ogni percezione è basata sulla consonanza di una funzione all’interno dell’organismo con una funzione nel mondo esterno, cioè è basata sulla armonia orgonotica.” Gli impressionisti rispondevano all’eccitazione nell’atmosfera con una eccitazione interiore, alla brillantezza della luce del sole con una brillantezza di spirito. Non spiega questo, perciò, perché gli impressionisti bandirono i colori marrone e nero dai loro dipinti? Il concetto di armonia orgonotica è necessario alla comprensione di quest’arte. Ciò è espresso con parole diverse dallo scienziato e dall’artista.
Considerate le parole di Reich: “Ogni scoperta importante trae spunto dall’esperienza soggettiva di un fatto oggettivo, cioè dall’armonia orgonotica” e quelle di Cezanne: “C’è una logica del colore. Il pittore deve obbedienza soltanto ad essa, mai alla logica del cervello. Se l’abbandona è perso. Sempre nei confronti della logica dell’occhio, se sente correttamente penserà correttamente (corsivo mio). La pittura è in primo luogo ottica. La sostanza è quella, in ciò che pensano i nostri occhi. La natura si svela sempre quando la si rispetta, per dire quello che significa”. Vedremo l’applicazione di questo concetto di volta in volta nello studio delle opere dei singoli pittori. Un ulteriore concetto deve essere affermato, che un’opera d’arte è dapprima una espressione emozionale. Un’opera d’arte è un’unità in cui i mezzi scelti sono pienamente adeguati a esprimere il significato emozionale sottostante. Ciò non può essere negato ma può essere trascurato, e tale ho trovato essere il caso nelle recensioni e nei resoconti storici che ho consultato sui dipinti di Monet. Lasciate che illustri questo tema. Leggiamo dell’opera più matura di Monet: “Questi paesaggi, sempre più abbandonati a una vaga emozione, dimenticano la tradizionale precisione della grande arte e sono carichi di un panteismo piacevole e diffuso” . Nessun accenno viene fatto sull’emozione implicata. Troviamo la stessa cosa rispetto a Gauguin: “Il poco che Gauguin ha portato nella pittura è stata una nuova concezione della natura” (John Rewald). Bene, ma cos’era quella nuova concezione? Non ci viene detto. La questione della base emozionale di un dipinto sottostà a questo studio, è il metodo di Reich del funzionalismo energetico. Se non si comprende la base emozionale di un’opera d’arte si è costretti ad inventare ragioni tecniche per spiegare l’effetto. Rewald può dire soltanto della pittura di Gauguin: “Paul Gauguin compì l’impresa di introdurre l’esotismo nella pittura moderna. La novità della sua arte non si trova soltanto nel suo tema fondamentale. Essa consiste ancora di più nella sua concezione del tema, nello sforzo di mettere d’accordo l’espressione barbarica dei Maori con la sensibilità dell’artista europeo”. Ciò non è per nulla adeguato a giustificare il tributo summenzionato dello scrivente. Non riusciamo a capire, leggendo i libri d’arte, perché gli impressionisti dovrebbero aver incontrato un così forte rifiuto da parte del pubblico e dei critici. La risposta, offerta come se fosse un dato di fatto, è che il nuovo deve aspettarsi il rifiuto. Non possiamo essere soddisfatti di una tale risposta e, inoltre, non è per nulla vera. Si riscontra al giorno d’oggi, nella pittura almeno, che il nuovo e il diverso vengono ampiamente acclamati proprio perché sono tali. Poiché lo stesso fenomeno accade in campo scientifico con le grandi scoperte, il problema è simile. La sola risposta valida è quella data da Reich. Una grande opera d’arte, come una grande scoperta, è viva. Questa qualità di essere in grado di eccitare suscita nell’organismo corazzato un’ansietà che esso cerca di evitare, distruggendo la vitalità del lavoro o quella del suo creatore. L’intensità della reazione è in diretta relazione a questa qualità del lavoro. Che cosa costituisce tale qualità in un dipinto? O in qualsiasi opera d’arte? Ovviamente non la sua qualità fotografica, né concetti mistici quali quelli che la riproduzione di un oggetto ce ne dà il controllo. E’ la percezione dell’artista che dà alla grande opera d’arte la sua qualità speciale di vitalità. L’interpretazione che l’artista dà alla sua percezione costituisce la sua intuizione. Siamo così condotti direttamente al punto. Che cos’è questa intuizione speciale degli impressionisti? O, per ripetere una domanda posta in precedenza, che cosa vedevano nell’atmosfera? Fatemelo puntualizzare: era qualcosa per cui eccitarsi. Era una grande percezione, come dimostrato dalla reazione violenta che evocava e dall’influenza che aveva. E sento che, a tutt’oggi, non è ancora compresa. I pittori impressionisti percepivano la vibrazione dell’atmosfera, cioè percepivano l’energia orgonica atmosferica. Non scoprirono l’orgone nell’atmosfera. Questo è opera di Reich, che combinò la dimostrazione oggettiva e l’elaborazione di mezzi per la sua determinazione quantitativa. Né potevano descrivere a parole ciò che vedevano, poiché le parole non erano ancora state inventate. Ma sentivano la presenza nell’atmosfera di una forza cosmica universale che divenne per loro quello che il concetto di Dio era per i pittori del primo Rinascimento. E’ su questa percezione tradotta in termini pittorici che si basa tutta la pittura impressionista. Vedremo che la storia del movimento è il tentativo di comprendere ed esprimere questo elemento misterioso in natura. Per semplificare, limiterò la mia analisi all’opera di cinque uomini: Monet, Cezanne, Seurat, Gauguin e Van Gogh. Ve ne furono altri, forse egualmente importanti, ma ho dovuto scegliere quelli che mi sembrano i più rappresentativi. La loro opera può essere divisa in due periodi di tempo che si sovrappongono considerevolmente. Nel primo gli sforzi dei pittori furono devoluti alla comprensione e all’espressione plastica delle manifestazioni dell’orgone atmosferico. Qui Monet è il leader riconosciuto per tutta la sua lunga vita; egli studiò con perseveranza le sue infinite sfumature. Vecchio ostinato venne chiamato dopo il 1900. Questo periodo include anche il lavoro di Renoir, Degas, Pisarro, Sisley e altri. Chiameremo questi pittori, seguendo la consuetudine, impressionisti. Il termine impressionismo, però, denota tutta l’epoca e anche questo è consuetudine. Ma quando si parla della tecnica impressionista ci si riferisce soltanto al primo periodo. Secondo il riconoscimento maggiore o minore che l’impressionismo ricevette attorno al 1882, l’arte entrò in una nuova fase in cui lo studio per comprendere l’universale si ampliò. Questo estendersi dell’interesse caratterizzò i cosiddetti pittori postimpressionisti e raggiunse le sue intuizioni più chiare nell’opera di Cezanne, Seurat, Gauguin e Van Gogh. Non sarebbe possibile rendere piena giustizia a questi artisti in questo breve articolo. Oltre i limiti di spazio, vi sono altri impedimenti. I dipinti originali sono disponibili solo raramente. Se ne possono vedere alcuni di tanto in tanto nei musei e nelle mostre. Le riproduzioni, nel migliore dei casi, sono dei sostituti insufficienti. Tanto peggiore è la situazione quando sono stampati in bianco e nero. La maturazione di una intuizione è un lungo processo e i dipinti che lo rivelano più chiaramente mancano spesso delle antologie disponibili. Se, perciò, i punti di vista individuali sono privi di una dimostrazione adeguata, si spera che i principi generali sviluppati in questo articolo indurranno studi ulteriori sulla loro ipotesi. Gli storici concordano che l’intuizione impressionista prese forma a Honfleur, un estuario della Senna sulla costa della Normandia. Il pittore che mostrò la via fu Boudin, nato a Honfleur da una famiglia di marinai. Monet scrisse in seguito del suo contatto con Boudin: “Fu come se la nebbia si fosse dissolta, compresi cosa potesse essere la pittura, solo con l’esempio di questo artista innamorato della sua arte e della sua indipendenza, il mio futuro di pittore si schiuse” (da Bezin, L’Epoque impressioniste). Monet, che aveva solo quindici anni al tempo di questo primo incontro, faceva caricature. Questo fatto non era nuovo per i pittori. L’intera genesi dell’impressionismo implicò la partecipazione di altri artisti: Coubert, Jougkind e il poeta Baudelaire. Fu Monet, comunque, che diede all’impressionismo le intuizioni più vere e i quadri che ne rappresentano l’espressione più bella. Per comprendere l’opera di Monet è necessario capire ciò che sentiva per il mare, che lui stesso diceva essere lo sfondo della sua esistenza. Bezin lo descrive bene: “L’atmosfera marina è quella in cui venne formata la sensibilità di Monet”. Dobbiamo spingerci ancora più avanti. Cosa c’è vicino al mare che può innescare l’impulso di un movimento così forte? A questa domanda non si trova risposta nei libri. Notiamo però che in riva all’oceano si è maggiormente in contatto con gli elementi fluidi, acqua e aria, che nell’entroterra. La forma perciò perde importanza. D’altro canto, si è molto più interessati ai cambiamenti a cui questi elementi riconducono così prontamente. Abbiamo tutti, ne sono sicuro, sperimentato il fascino delle onde. Il mare stesso cambia continuamente. Anch’esso, come l’atmosfera, ha una qualità vitale. Ora, quello che per noi è semplicemente un fenomeno piacevole era per Monet un oggetto di studio. Questo interesse per il mare e l’aria non era una identificazione mistica. Se lo fosse stata, Monet non avrebbe avuto l’influenza che ebbe. Non era nemmeno una semplice preoccupazione nei confronti del gioco di luce sull’acqua, con le luminose apparizioni di cose. Per Monet non era il contingente, ma ciò che cambiava il soggetto della sua arte. Se seguiamo il percorso della sua opera possiamo vedere che cercò di comprendere il processo stesso del cambiamento. Dove si sarebbe potuta trovare una più continua manifestazione di questo cambiamento che nel mare o nell’atmosfera? In nessun altro modo si può capire perché fece quaranta dipinti della cattedrale di Rouen. Non sono quaranta studi della cattedrale. Sono quaranta studi di diverse condizioni atmosferiche con la cattedrale a fare da sfondo. Qual è la connessione tra l’impulso ad andar fuori, il contatto con l’atmosfera e l’interesse al processo del cambiamento? Ho detto in precedenza che gli impressionisti sentirono la presenza di una forza cosmica universale nell’atmosfera. Monet la percepì anche nel mare, come possiamo scoprire analizzando il suo dipinto MerAgitèe. La luce cangiante dell’atmosfera è una manifestazione diretta di questa forza cosmica, l’energia orgonica. Poiché questo è un fenomeno esso stesso non compreso, devo stabilire alcuni nuovi concetti. Dapprima dobbiamo liberarci della nozione che il sole mandi raggi di luce bianca, sulla Terra. Fuori dall’atmosfera terrestre i raggi del sole sono blu scuro. Questa è la conclusione tratta dai redattori della rivista Look guardando una fotografia Kodachrome dell’atmosfera terrestre alla distanza di 35.000 piedi. Nella fotografia non vedo raggi, solo l’intenso blu scuro dello spazio aperto. Il tentativo della scienza meccanicista di spiegare i diversi colori dell’atmosfera in termini di dispersione di luce causata da particelle di polvere nell’aria è fallito. Un concetto funzionale, biofisico, come suggerito da Reich, è più semplice e più aderente al vero. Con esso possiamo spiegare l’interesse sia di Turner che degli impressionisti per l’atmosfera. Quando due particelle di orgone, cioè che possiedono campi di energia orgonica pulsante, vengono a contatto, il risultato è eccitazione e luminazione. Ciò si può produrre sperimentalmente per mezzo di un tubo al neon e una sbarra di polistirene caricati di energia orgonica. Si può osservare direttamente nel microcosmo tra due bioni, nel qual caso osserviamo anche la formazione di un ponte di energia orgonica tra di loro. Poiché la Terra e il sole sono corpi orgonici, postuliamo l’esistenza di un ponte simile. L’effetto di ciò è eccitare l’atmosfera, o campo di energia orgonica della Terra sul lato rivolto al sole. L’eccitazione si manifesta con luminazione, un fenomeno caratteristico dei bioni, della sessualità metazoica e dei corpi celesti. La crescita e la caduta dell’eccitazione durante il giorno producono i cambiamenti di colore che ci sono familiari. E’ esattamente la stessa cosa che accade quando riscaldiamo un metallo, che dapprima diventa rosso cupo, poi rosso brillante, giallo e infine bianco incandescente. Anche questo è un processo di eccitazione. Appena il sole fa sentire il suo primo apparire ai primi albori dell’alba, vi è un debole chiarore a est. Inizia il processo dell’eccitazione. Man mano che aumenta col sorgere del sole, il chiarore si intensifica, si rischiara e si diffonde. L’atmosfera cambia colore, dal blu scuro a un blu più chiaro, dal rosa al rosato, dal giallo alla luce bianco azzurra del giorno. Credo che possiamo dire che questo processo eccitatorio è il processo creativo, vero nell’arte e ugualmente vero in natura. Reich vuol dire questo quando identifica il processo sessuale al processo vitale. Gli impressionisti erano consapevoli dell’eccitazione nell’atmosfera e vi rispondevano. Tradurre questa percezione necessitava di una nuova tecnica che si sviluppò lentamente, solo come risultato di anni di osservazione continua. Se analizziamo questa tecnica possiamo vederne la relazione diretta con questa intuizione. Il sacrificio del contorno netto degli oggetti mostra che la visione del pittore non è focalizzata sugli oggetti ma sullo spazio stesso. Questa dissoluzione della forma è, a prima vista, il risultato della interazione di oggetto e ambiente, di forma e luce, di struttura e atmosfera. Non sarebbe naturale aspettarsi che questo interesse per l’atmosfera avrebbe condotto più tardi a una preoccupazione completa per essa, a cui, quindi, viene sacrificato l’oggetto, la forma e la struttura? Tale fu l’opera matura di Monet, tra il 1891 e il 1907. L’uso di colori primi, cioè i colori dello spettro, e l’abolizione del marrone e del nero, trovano la loro giustificazione nel fatto che il dipinto è una rappresentazione dell’atmosfera. E soprattutto nell’uso del tocco del pennello che quest’arte esprime le sue intuizioni. Per mezzo di ciò il pittore trasferisce al dipinto e tramite il dipinto a chi lo guarda la qualità vibrante, pulsante dell’atmosfera, manifestazione diretta dell’energia orgonica. L’eccitazione è una funzione della pulsazione. Questa qualità si trova in così tanti dipinti eseguiti da Monet, Renoir, Pizarro e così via che non è necessario nominarli uno per uno. Uno dei risultati di questa tecnica è di dare ai loro dipinti profondità di campo, senso della profondità e qualità tridimensionale che altri dipinti suggeriscono tramite l’uso della prospettiva e altro ancora, ma non raggiungono pienamente.
The Swing di Renoir, del quale mi capita di avere una buona riproduzione, è impressionante a questo riguardo. Come viene raggiunto il risultato? Gli impressionisti lo raggiungevano rendendoci consapevoli dello spazio non semplicemente in quanto coordinate di oggetti ed eventi, ma in quanto realtà oggettiva stessa. Cosa può essere questa realtà vibrante se non l’energia orgonica atmosferica? Vorrei suggerire la possibilità che il problema della vista tridimensionale, un enigma irrisolto in psicologia, troverà la sua soluzione nella nostra percezione inconscia dell’energia orgonica atmosferica. E parte dell’intuizione impressionista avere resa conscia quella percezione. Cezanne lo riconobbe, credo, quando disse: “Il cielo è blu, non è vero? Beh, è stato Monet a scoprirlo”. Non possiamo comprendere l’impressionismo se non capiamo che fondamentalmente esso rappresentava il tentativo del pittore di comprendere ed esprimere quelle manifestazioni della forza cosmica universale che egli scopriva nell’atmosfera. Non era soltanto un modo nuovo di guardare il mondo, era una nuova sensazione del mondo. Sapendo ciò possiamo capire perché Monet andò a Londra a dipingere un’atmosfera in cui ci mostra “grandi onde luccicanti che traversano la nebbia”. Ed è significativo che i suoi ultimi dipinti fossero studi di uno stagno di ninfee, Les nympheas. E’ significativo perché sappiamo dall’opera di Reich che in tale stagno l’organizzazione naturale dei protozoi provenienti dalla materia animale e vegetale in putrefazione è un processo continuo. Si è tentati di speculare sul lavoro di un artista che ha trovato la sua ispirazione nel mare e l’ha seguita tutta la vita fino al suo punto d’arrivo, lo stagno di ninfee. Mi accontenterò di una analisi del suo dipinto Mer Agitèe, che Bozin usò come copertina per il suo libro L’Epoque Impressioniste. Il dipinto mostra i tre grandi elementi: l’atmosfera, il mare e la terraferma, quest’ultima sotto forma di una grande roccia. Il mare è agitato (preferisco la parola eccitato) e i colpi di pennello che lo ritraggono, sotto forma di onde, rappresentano anche una porzione dell’onda vorticosa della particella di energia orgonica. L’eccitazione viene trasportata dall’acqua alla roccia, ma qui la forma di onda è assente. Tutte le linee conducono verso il limite sinistro del dipinto, dove l’agitazione è maggiormente intensa. Qui si ha l’impressione che il mare stia dissolvendo la roccia, un effetto apparente che troviamo lungo tutta la linea di contatto tra i due. Le figure umane sullo sfondo sembrano insignificanti al cospetto di questo mostro di forza elementare. Tutto questo è implicito proprio nel titolo. E’ una chiara indicazione che per Monet almeno, l’impressionismo era la via allo sconosciuto. Ancora una volta qui abbiamo uno spunto che viene lasciato senza seguito: B. Dorval dice: “Gli impressionisti erano pittori che si lasciavano andare semplicemente alla gioiosa spontaneità delle loro sensazioni; la seduzione delle forme luminose è la sola guida ai loro pennelli”. Ma si legge anche dalla stessa autorevole fonte della “ardente curiosità che portò tutti questi pittori a una nuova coscienza dell’universo”. Di nuovo, cosa sia questa nuova coscienza dell’universo non ci viene detto. L’apparente contraddizione delle due affermazioni non può essere riconciliata senza la conoscenza dei principi orgonotici. Possiamo dire che la loro capacità di sperimentare la natura spontaneamente e la loro ardente curiosità stanno a indicare quella armonia orgonotica dalla quale derivano le grandi scoperte. Qui si trova forse la descrizione migliore dello spirito impressionista. Arriviamo adesso allo studio di pittori il cui lavoro è di frequente considerato come una reazione contro l’impressionismo. Troviamo comunque che dipinti di Cezanne, Seraut, Gauguin e Van Gogh vengono inclusi sia nelle mostre che nelle antologie dell’arte impressionista. La giustificazione di ciò è che questi pittori condividevano lo spirito e la visione degli uomini di cui abbiamo in precedenza considerato il lavoro. Esiste una distinzione, però, tra questi due periodi, poiché la tecnica che caratterizzò la prima fase della pittura impressionista viene gradualmente modificata o completamente cambiata nel secondo periodo. Vi è una grande differenza tra la piatta pittura a due dimensioni di Gauguin e la qualità spaziale di Monet o Pizarro. E’ una differenza inevitabile nell’evoluzione ed estensione dell’impulso artistico. Con l’eccezione di Cezanne, questi altri pittori appartengono ad una generazione più giovane. Incluso Cezanne, la loro opera matura appartiene a un periodo più tardo. Usando Monet come esempio, possiamo dire che l’intuizione impressionista nei confronti dell’atmosfera raggiunse la sua maturità verso il 1880, dopo circa venti anni di studio ed osservazione. D’ora innanzi gli artisti che avevano lavorato e lottato assieme dovevano andare per strade separate. Ora nuovi artisti entrano in scena, con nuove visioni e intuizioni verso la natura. Dal 1880 al 1900 circa non si trova più l’unità dello sforzo artistico che segnò le precedenti due decadi. Questi nuovi artisti lavorarono più o meno da soli e del tutto separati l’uno dell’altro. Così Cezanne dipinse ad Aix in Provenza, Seraut a Parigi, Gauguin nelle isole dell’estremo occidente del Pacifico e Van Gogh ad Arles. Ciò è importante poiché è indice di una scissione dell’impegno comune e, di conseguenza, di un indebolimento della sua forza a causa della dispersione della sua energia. Il che predice la sua estinzione finale. Iniziamo da Cezanne non solo perché è della generazione di Monet, Renoir e Pizarro, ma anche perché studiò e dipinse con loro per molti anni. Da loro imparò l’uso del colore e, tramite loro, venne in contatto con l’atmosfera. I suoi dipinti di questo periodo non lasciano alcun dubbio circa la sua aderenza all’impressionismo, al suo spirito, alla sua visione e alla sua tecnica. Anche se il suo modo di dipingere doveva condurre verso altre direzioni, questo spirito e questa visione dell’impressionismo rimasero in lui. Dorival, in un bello studio su Cezanne e il suo lavoro, riconosce il debito dell’artista: “Nel fornirgli i mezzi per ottenere l’unità da lui desiderata, nell’insegnargli a dipingere secondo un metodo e nel ricordargli l’obbligo di mantenersi in contatto con la natura, l’impressionismo lo mise sulla strada dell’arte classica”. Su questa unità e sulla reintegrazione dell’oggetto nel dipinto, Dorival dice: “Se egli è rispettoso della luce tanto quanto gli impressionisti, intende anche esserlo delle due realtà che sono in così stretto accordo, oggetto e spazio, e vuole affermare le cose come solidi dotati di tre dimensioni in un universo che ha caratteristiche simili”. Questa necessità di contatto intimo con la natura Cezanne la mantenne per tutta la vita. La sua affermazione seguente è un’altra di quelle acute percezioni della natura della sua arte, che contraddistinguono questo grande artista: “Il metodo si libera a contatto con la natura, si sviluppa in accordo alle circostanze. Consiste nel trovare l’espressione di ciò che si prova, nell’organizzare la sensazione in modo estetico personale. Vado allo sviluppo logico di ciò che vediamo e sentiamo con lo studio della natura, smetto di occuparmi dei processi, essendo i processi per noi soltanto i mezzi puri e semplici per impressionare il pubblico con la sensazione di ciò che proviamo”. Per l’artista questo contatto con la natura è primariamente un fenomeno visivo. Ricordiamo l’affermazione di Cezanne che la pittura è prima di tutto un problema ottico. Ciò diviene più chiaro nella citazione seguente: “Per realizzare il progresso vi è soltanto la natura, e l’occhio si educa al suo contatto”. Queste citazioni sono prese dal libro di Dorival su Cezanne. Siamo adesso in grado di stabilire che anche Cezanne andò fuori letteralmente ed emozionalmente: letteralmente da pittore all’aria aperta, emozionalmente nel suo contatto con la natura. Percepì l’energia orgonica atmosferica come gli impressionisti, ma in modo diverso. Il suo spazio non vibra come quello di Monet. Al contrario, è riempito di una colorazione blu chiara e limpida. Fatemelo spiegare più compiutamente. In un dipinto di Cezanne, Albero davanti alla casa, si ha l’impressione che lo spazio immediato all’aperto, attorno all’albero e alla casa, sia blu. Questa sensazione viene trasmessa anche da molte delle sue nature morte. Non è sempre così, ma abbastanza spesso da farmi avvertire questa qualità nei dipinti di Cezanne. Ciò trova la sua spiegazione nel fatto che lo spazio è davvero blu a causa del suo contenuto di energia orgonica. Una lastra Kodakchrome sensibile esposta in una stanza completamente buia mostra, dopo lo sviluppo, questo colore blu. Come possiamo spiegare la divergenza di interessi e la conseguente differenza nella visione tra Cezanne e i suoi amici impressionisti? E fondamentalmente una diversità di temperamento. Vi è una gaiezza, una leggerezza, un senso di eccitazione nella sensibilità dei dipinti di Monet, Renoir e Pizarro che non trovano eco nella personalità di Cezanne. Solitario e taciturno, la vita e le opere di Cezanne sono caratterizzate dall’assenza di un reale contatto umano. Così, Dorival poté dire dei suoi ritratti che “il modello non è un soggetto psicologico ma solo un modello come una caraffa o una cosa”.
Ed è vero. Cezanne trovò la pace nella natura, il piacere nel lavoro. Se si dice che la sensibilità di Monet venne formata dal mare, quella di Cezanne venne determinata dalla sua Provenza, con la sua aria chiara e asciutta, la sua calma soprattutto, le sue montagne. E’ su questa base che possiamo comprendere la preoccupazione di Cezanne delle forme, del volume e della massa. Il monte San Victoire dominò la sua vita. Se perciò diciamo semplicemente che applicò la visione impressionista allo studio dell’oggetto, siamo in grado di apprezzarne il risultato. Guardiamo i suoi dipinti. Dapprima le nature morte, poiché esse contengono l’espressione più chiara della sua intuizione. Nel dipinto Vaso Blu che si trova al Louvre notiamo che le forme degli oggetti, mele, vaso, fiori e così via mancano di un contorno netto. Troviamo lo stesso trattamento in altri dipinti, La Commode, Vase de Tulips. Il rilievo viene effettuato con l’uso di un margine nella forma di un colpo di pennello blu o di una ombreggiatura blu di varia ampiezza e intensità. Il risultato generale non è solo l’arricchimento del colore, ma ancor di più della forma. Nel dipinto Bricco del latte, mele e limone, la mela al centro è circondata da un ampio margine blu che dà a questa mela una prominenza maggiore di qualsiasi altro oggetto nel dipinto. Essa focalizza la nostra visione. Dobbiamo chiederci allora se questo uso di un margine blu è un espediente tecnico oppure ha un significato più profondo. La prima reazione dei pittori a cui mostrai questi fatti fu che la prominenza può essere spiegata con il contrasto dei colori. A ogni modo, l’uso di altri colori di contrasto, rosso e nero o rosso e verde, per esempio, non producono lo stesso effetto. Il blu ha il vantaggio di dare risalto allo spazio attorno all’oggetto. D’altro canto, è un blu diverso da quello che Cezanne usava per ritrarre lo spazio. Qual è la realtà? Attorno a tutti gli oggetti c’è un campo di energia orgonica. Attorno ad alcuni, come gli organismi viventi o la frutta fresca, è obiettivamente dimostrabile. E’ stato misurato quantitativamente da Reich per mezzo del misuratore del campo orgonico. La sua forza è per noi indice della vitalità dell’organismo. E come l’energia orgonica atmosferica, della quale è un caso speciale, è blu. Un esempio eccellente è una cellula vista al microscopio. Una cellula sana è turgida, la sua forma piena e rotonda, e ha un margine blu ampio e forte. Una cellula con scarsa carica di energia è contratta, il bordo è irregolare e ha un margine blu piccolo e debole. Sia la forma che la carica energetica, allora, possono essere espressi in termini di campo orgonico o margine blu. Questa intuizione appare in altri dipinti. Nella tela Albero di fronte alla casa, l’albero è delineato da un forte margine blu e così gli viene data una prominenza visiva che ben si accorda al titolo. In così tante riproduzioni da me studiate dei dipinti eseguiti dal 1882 al 1902, il periodo della maturità classica di Cezanne, viene impiegato questo mezzo per delineare la forma e dare prominenza agli oggetti. Guardate come in I giocatori di carte, nonostante il vivido colore del tavolo, delle tovaglie e dello sfondo, siano le due figure sedute e le bottiglie al centro che catturano l’occhio e attraggono l’attenzione. E questa visione che dà alle forme di Cezanne, siano esse la mela, l’albero o una figura umana, la loro qualità monumentale. Questa percezione non era senza vero significato per l’artista. Credo che Cezanne si riferisse a ciò parlando della sua piccola sensazione. Quando pensiamo alla cura e allo sforzo che dedicò allo studio dell’oggetto per comprenderne l’essenza, c’è poco da dubitare. Non è inconcepibile che un’artista con un occhio così sensibile come quello di Cezanne, riesca a percepire un fenomeno invisibile per una persona qualsiasi. Da cosa derivò questa intuizione di Cezanne? Dal contatto diretto con la natura, con quella natura, gli alberi e le montagne della Provenza, che lui amava. Dell’albero disse: “E un essere vivente. Lo amo come un vecchio compagno. Conosce tutto sulla mia vita e mi dà consigli eccellenti” (citato da Joachin Gasquet nel libro di Dorival). E di Veronese, Rubens e Velasquez disse: “Avevano una vitalità tale che in questi alberi morti fecero rifluire la linfa”. Non meno degli alberi, il monte San Victoire determinò la sua visione. Così Bezin dice: “Il monte San Victoire… lo insegue con il suo mistero, non più ammira in esso la nobiltà di una forma monumentale ma l’espressione di una forza cosmica”. Il dipinto a cui fa riferimento Bezinmostra la montagna con un contorno blu scuro che domina la scena. Se D.H. Laurence poté dire di Cezanne: “Dopo una lotta all’ultimo sangue, durata quarant’anni, riuscì a conoscere una mela pienamente, e, non del tutto pienamente, un bricco o due. Ciò fu tutto quello che raggiunse”. Dobbiamo aggiungere: “Ma è già qualcosa”. C’è di più comunque. Conobbe un albero e conobbe un monte, entrambi bene. Tramite essi divenne consapevole di ciò che è comune sia agli oggetti animati che a quelli inanimati, l’energia orgonica e la forza cosmica. Dalla percezione del campo di energia orgonica attorno all’albero e alla montagna proseguì a studiare altri oggetti: casa, frutta, bricco, figura umana. Nella costruzione di queste forme troveremo le qualità dell’albero e della montagna, più della seconda nella casa, più della prima in una figura umana. Nella opposizione di albero e casa, di albero e montagna, di frutta e vaso e così via, egli mette in scena la dimostrazione delle loro proprietà comuni, le loro realtà oggettive, la percezione delle quali dipende dal loro campo di energia orgonica. D’altra parte, credo che egli cercò disperatamente di comprendere le loro differenze. Non ci riuscì appieno. La duttilità della figura animale, la sua mutevolezza, gli sfuggì. Non era coerente con i suoi principi, secondo i quali il modello doveva rimanere immobile per lunghi periodi di tempo, come l’albero e la montagna. Su questa base possiamo capire la sua insoddisfazione per il proprio lavoro, nonostante un risultato artistico tra i più grandi. Il suo riconoscimento di questa mancanza, il suo tentativo di comprendere una forza che spieghi sia la forma che il cambiamento di forma, condusse a una modificazione della sua arte in età matura. Si rivolse all’uso degli acquerelli e all’espressione più leggera e più lirica della sua maturità. Dorival lo descrive in questi termini: “Alla stabile architettura dell’epoca classica succedono armonie sontuose e dinamiche”. E Cezanne in queste nature morte esprime magnificamente questa ebollizione di esistenza misteriosa che circonda le arance e le indora, fa balzare e ricadere come piume le estremità delle cipolle, gonfia le pere, apre gli occhi misteriosi dei fiori e fa palpitare negli oggetti”. Nelle sue nature morte è inimitabile. Nonostante tale contributo, è proprio questa sensazione che Dorival ignorò nel lavoro di questo artista. D’altro canto, la sua tecnica viene sezionata come si disseziona un cadavere in anatomia: come se con questi mezzi si potesse mai arrivare alla comprensione di quello che è la vita. E così una sfortunata osservazione di Cezanne, “Tratta la natura col cilindro, la sfera e il cono”, divenne il dogma di una nuova scuola di pittura, il cubismo. E’ dubbio se qualcuno dei suoi dipinti incorpori pienamente questo principio; i ritratti di Madame Cezanne che sembrano avere queste caratteristiche sono i meno interessanti. Quelle affermazioni che mirano a semplificare sono giustificate nel contesto di uno spirito che cerca di esprimere un’intuizione fondamentale nella natura. E’ ingiusto e pericoloso separare la tecnica dal sentire, le parole dalla loro relazione all’opera intera. Se nel ventesimo secolo l’esempio dei dipinti di Cezanne doveva condurre lontano dalla natura, in campi aridi in cui l’artista è tagliato fuori dai grandi processi naturali, lo sbaglio si trova altrove. Dobbiamo proseguire in questa ricerca per comprendere la natura in altri grandi artisti del diciannovesimo secolo: Seurat, Gauguin e Van Gogh. Ciascuno percepirà la natura in un modo diverso. Dobbiamo far attenzione, però, di non considerare come soprannaturale quello che è inerente al processo naturale e di non confondere il sogno con la percezione. E’ difficile valutare le percezioni e le intuizioni di Seurat. La sua morte, avvenuta prematuramente a trentadue anni, ci ha lasciato poco della sua opera e meno del suo pensiero. In sette anni di sforzi intensi produsse solo un piccolo numero di grandi dipinti. D’altra parte, aveva già creato una nuova tecnica ed era il leader riconosciuto di una nuova scuola, il neo impressionismo. Ma come visse, che cosa pensava e come sentiva sono elementi che ci sono in gran parte sconosciuti. Quindi, dobbiamo ricorrere soprattutto alle sue opere. Sappiamo che era uno studioso dell’impressionismo, di cui è riconosciuta l’importanza nella formazione della sua arte. Jaques De Laprade scrive: “Due anni più tardi Seurat riunirà la soffice vibrazione luminosa dell’impressionismo a uno stile stabile e assoluto in un capolavoro straordinario, Le Dimanche d’Ete sur la Grande Satte, che è l’apice della sua pittura”. Due anni prima era stato introdotto all’impressionismo da Signac, che gli aveva fatto adottare la tavolozza impressionista, i colori dello spettro.
La Grande Satte è un dipinto inusuale e straordinario. Visto da vicino, mostra di essere realizzato da puntini piccolissimi e finemente colorati che sembrano senza forma. Quando ci allontaniamo, si raggruppano, prendono forma e rappresentano oggetti. A noi piace il dipinto, è caldo e ricco di vita. I colori sono magnifici. Ma perché, ci domandiamo, un pittore dovrebbe attraversare tali dolori infiniti per creare un quadro? A Seraut ci volle più di un anno per completare questo capolavoro. E’ la tecnica del divisionismo. Proviene dal concetto del divisionismo e dalle leggi del contrasto simultaneo. A ogni modo, il concetto del divisionismo non è fondamentalmente nuovo. E’ il processo di analisi che venne usato in un certo grado dagli impressionisti. Quello che è nuovo è il limite a cui è spinto, l’uso di un tocco estremamente fine a confronto del quale la pennellata impressionista è grossolana. Il divisionismo è in realtà parte di un sistema che include una teoria estetica e un concetto di visione del colore. Ciò fa sorgere nuovamente la domanda: come interpretare un dipinto? Possiamo comprendere una tecnica se non conosciamo la sensazione, le intuizioni e le percezioni da cui proviene e a cui dà espressione? Se analizziamo un dipinto semplicemente in termini di tecnica, l’opera d’arte perde tutto il richiamo emozionale. E non sarebbe di grande aiuto sostituire le generalità descrittive, quali lirico, maestoso e così via. Il nostro tentativo di comprendere lo spirito e la visione dell’impressionismo si sarebbe impantanata fin da principio. Per noi non c’è scelta. La fallacia dell’altro punto di vista può essere facilmente scoperta. Il sistema di Seurat comprendeva una serie di regole a cui secondo lui tutta la pittura dovrebbe conformarsi. Ma ogni tecnica implica un sistema, una serie di regole. E quale pittura esiste senza tecnica? Perfino l’impressionismo di Monet aveva un sistema. C’è una differenza essenziale tra i principi che vengono espressi in parole e quelli che si possono dedurre dal modo in cui vengono eseguiti? Nessuna, a mio avviso. Perciò, se si parla del contributo di Seurat riguardo la reintroduzione nella pittura del gusto della disciplina, del metodo intellettuale e della costruzione, si confonde la pittura con la tecnica e la seconda con l’idea di essa. Non è un giusto criterio dire di Seurat che egli desiderava ottenere il definitivo, l’incorruttibile, l’eterno. Ogni pittore lotta per l’assoluto. Bisogna vedere se lo ottiene…! Ma cos’è l’eterno, l’assoluto, l’incorruttibile? Non oserei usare tali termini senza definirli. Tuttavia, ogni critico d’arte li usa come se fossero valori evidenti. Considerate questo fatto: la montagna di Cezanne non è incorruttibile. E’ corrosa dagli elementi, è trasformata dagli elementi, è trasformata dall’uomo. Un albero non importa quanto sia solido, non è eterno, muore o viene tagliato. Ma i processi naturali che fanno sorgere le montagne e creano gli alberi, sono per noi esseri umani, per tutti gli scopi pratici, incorruttibili, eterni e definitivi. Essi determinano la forma della montagna, la forma dell’albero, il colore della frutta e sono così soggetti adatti alla investigazione del pittore. Per quanto possa essere difficile spiegare in dettaglio l’intuizione dell’artista entro questi fenomeni naturali, tale è la vera funzione della mistica artistica. O Seurat è un grande artista, e in questo caso ci aspetteremmo che la sua opera esprima un’attenta intuizione entro questi processi naturali, o deve essere relegato ai ranghi di artisti minori. Il giudizio del tempo è a favore della prima opinione. Un breve studio de La Grande Satte mostra che nonostante la sua tecnica divisionista, il dipinto ha una forte unità che lega oggetto e spazio, fluido e solido, vivente e non vivente. Questa qualità caratterizza una grande opera d’arte. Cezanne l’aveva raggiunta nei termini della manifestazione blu dell’energia orgonica. Per Monet era l’unità dell’atmosfera avviluppante e vibrante. Seurat l’espresse nei termini del minimo comune denominatore, la particella di energia orgonica. Di qui il divisionismo. Le particelle di energia orgonica, a differenza dei protoni, degli elettroni o delle altre particelle della scienza meccanicistica, sono un fenomeno visibile. Possono essere viste da tutti nell’atmosfera, a occhio nudo. Sono più visibili lontano dalla luce del Sole se ci si focalizza sullo spazio a circa un metro di distanza dagli occhi. Sono puntini luminosi che si muovono, così da tracciare una speciale traiettoria curva, e a un certo punto divengono invisibili. Dopo alcuni minuti di continua osservazione si possono vedere dappertutto nell’atmosfera.
Purtroppo sono stati descritti come puntini davanti agli occhi, riducendoli così a fenomeni soggettivi. Che siano una realtà oggettiva è dimostrato dal fatto che possono essere ingranditi e resi visibili di notte per mezzo dell’orgonoscopio (Reich, Scoperta dell’orgone, Vol. II). Siamo in grado adesso di tentare una interpretazione de La Grande Satte sulla base della credenza che Seurat percepisse queste particelle di energia orgonica. Mentre ci si allontana dal dipinto, i puntini si addensano, si fondono assieme per formare oggetti che hanno massa e solidità. Si ottiene una impressione ancora più forte di questa fusione nel dipinto La Bec du Hoc a Grandcamp. Vi è implicata una diversa relazione tra l’atmosfera e l’oggetto rispetto agli autori incontrati fino adesso. Atmosfera e oggetto hanno la stessa qualità, entrambe sono composte di particelle di energia orgonica. Le differenze sono dovute alla densità (grado di coalescenza) e all’intensità, relazioni che possono essere espresse nel colore. Possiamo spingerci a dire con Seurat che gli oggetti solidi viventi e non viventi rappresentano in effetti la coalescenza di queste particelle? Penso che possiamo e dobbiamo, altrimenti il vero significato dell’energia di base dalla quale deriva la materia andrebbe perduto. Il concetto non è così radicale come potrebbe sembrare a prima vista. Abbiamo familiarità dall’esperienza quotidiana con le trasformazioni della materia da uno stato all’altro: da solido a liquido e da liquido a gassoso. E nel fenomeno della combustione c’è un rilascio di energia che in precedenza era congelato allo stato solido. Non ci dovrebbe sorprendere che, in un tempo in cui la natura dell’atmosfera e la sua relazione nei confronti dell’oggetto erano così importanti nella pittura, un artista interessato alle scienze naturali dovesse tenere a mente questa connessione. Se avessi detto che il metodo di dipingere di Seurat è una rappresentazione simbolica di molecole e atomi, tutto sarebbe chiaro. Sia l’oggetto che l’atmosfera sono composti di molecole. L’atomo tramite la risistemazione interna delle sue orbite di elettroni può assorbire, riflettere o emettere luce, e così possiamo vederli colorati. Ma chi ha visto la molecola dell’atomo? D’altra parte, la particella di energia orgonica atmosferica può essere vista da qualsiasi persona sia sufficientemente interessata all’atmosfera da guardarla seriamente. Altri aspetti de La Grande Satte si possono spiegare in termini di particella di energia orgonica. Il dipinto dà l’impressione di movimento bloccato, tuttavia se i nostri occhi vi si muovono leggermente sopra, sembra diventare vivo. O, se lo osserviamo per un po’, otteniamo lo stesso senso di animazione. La spiegazione sta nel fatto che Seurat dovette fermare il movimento delle particelle di energia per ritrarle. Necessariamente quindi, bloccò tutto il movimento nel dipinto. Ma gli occhi dello spettatore non possono rimanere immobili e il loro movimento viene proiettato verso i puntini. Lo spazio, l’atmosfera tra l’osservatore e il dipinto, è anch’esso in movimento, perché include le vere e proprie particelle di energia orgonica in movimento. Viste attraverso questo spazio animato, le immagini nel dipinto acquisiscono la stessa qualità. Questo concetto emerge in modo ammirevole nel dipinto di una scena all’aperto. In Les Poseurs Seurat lo applicò anche a una composizione al chiuso. Ma il problema della mancanza di movimento lo interessò e divenne il soggetto di altri dipinti, Le Chabut e The Circus. Il secondo rimase incompiuto alla sua morte. Nessuno dei due eguaglia La Grande Satte. Il problema restò insoluto. Il sistema di Seurat basato sulla legge del contrasto simultaneo, tenta una comprensione scientifica della sensazione data dal dipinto. La sua esposizione va al di là dello scopo di questo articolo. L’idea che colori contrastanti danno risalto l’uno all’altro si trova in Cezanne e negli impressionisti, la valutazione del tono, del colore e della linea è nuova e interessante. La seguente affermazione di Seurat è in accordo con i principi orgonotici: “La gaiezza del tono è la dominante luminosa, calda del colore e l’orizzonte per la linea. La tristezza del tono è la dominante fredda, scura del colore, e nella linea la direzione verso il basso”. Ciascuno trova in un’opera d’arte ciò che si adatta al suo temperamento, ciò che soddisfa il suo bisogno personale. E’ così per Cezanne e necessariamente lo stesso per Seurat. Se, per Laprade, il risultato di Seurat è che “Egli libera l’arte da tutte le servili imitazioni sulla natura”, io preferisco vederlo come un pittore che percepì e ritrasse le particella di energia orgonica.
Laprade porta via Seurat dagli “impressionisti che si abbandonano alla fuga” e verso il caos dell’arte del ventesimo secolo. Preferisco sentire che una tecnica che richiede una tale infinita pazienza provenga da una ispirazione ugualmente profonda. La ricercherei allora nell’opera di quegli uomini il cui spirito e la cui visione diedero a questa epoca la sua vitalità e il suo nome. Il lavoro di due pittori segna la fine dell’impulso impressionista. Come vedremo, non ebbe evoluzione, ma fallì. Non riuscì ad affermarsi e scomparve nella palude del pensiero politico del ventesimo secolo. Prima che ciò accadesse, però, le sue intuizioni vennero grandemente espanse tramite gli sforzi di Gauguin e Van Gogh. Dobbiamo tenere a mente il background emozionale e intellettuale dell’impressionismo per comprenderne la fine. Fu un movimento spontaneo verso la natura e la felicità nella vita. Che le condizioni esterne favorissero una cosa del genere, possiamo concederlo nonostante il fatto che questi pittori incontrassero avversità e difficoltà senza confronti. Ma gli artisti analizzati fino a ora possiamo dire che erano in pace con il loro tempo e il loro ambiente. Di Monet si può dire che, nonostante le privazioni infantili, non mise in forse l’ambiente sociale. Misantropo, Cezanne si ritirò da una società in cui non si sentiva amato, ma non si ritrasse e non perse la sua fede nella natura. Seurat lavorò da solo e duramente, ma come uomo e artista era in pace con se stesso e con il mondo. E’ significativo che sia Gauguin che Van Gogh pervenissero alla pittura dopo essersi impegnati in altre attività. E’ significativo perché le loro esperienze precedenti nel sistema sociale hanno senza dubbio influenzato la loro visione di artisti. Il banchiere che diventò pittore e criticava la nostra civiltà diede espressione a sentimenti che derivavano non solo dalla sua esperienza di pittore ma anche da quella di banchiere. John Rewald scrive di Gauguin: “Dopo aver letto le sue lettere e i suoi scritti e dopo aver capito come tutte queste tendenze opposte lottavano al suo interno ci si chiede se Paul Gauguin fosse mai stato veramente felice, se durante la sua intera vita di artista abbia mai avuto un momento di pace e di rilassamento. E’ dubbio. L’uomo che aveva rinunciato alla sua fortuna e alla sua famiglia per diventare pittore non era stato felice nella sua precedente vocazione. Da artista le sue tribolazioni furono più grandi. A ogni modo, i suoi dipinti non lasciano dubbio che lui conoscesse la bellezza e la felicità che cercava e che deve aver sperimentato di tanto in tanto. Dal punto di vista artistico, Gauguin e Van Gogh sono figli dell’impressionismo. Andarono fuori nel mondo emozionalmente e fisicamente e, se non vi trovarono pace, non si ritirarono in disparte. Dobbiamo ricordare anche che sono di un’altra generazione. I tempi erano cambiati. Non poterono accettare la leggerezza e la gaiezza dei primi impressionisti. Il loro dolore andò troppo in profondità per accettarle. Necessitavano di un mezzo più potente di espressione per trasferire a un mondo meno comprensivo la loro sensazione di universale. Videro il mondo diversamente perché qui la percezione dipende dall’armonia della funzione interna con quella del mondo esterno. Gauguin parla contro l’oggettività dell’impressionismo (questo non era stato dato per scontato due decadi prima) in modo altrettanto radicale che contro il suo spirito. Nel valutare il lavoro di un pittore dobbiamo stimare i suoi sforzi secondo le intuizioni che rivela la sua opera matura. Il sentire determina la sua tecnica, ma viene affinato e chiarito man mano che la tecnica migliora. Ciò che ne risulta è l’intuizione matura. Nel caso di Gauguin, troviamo tutto ciò espresso al meglio nei suoi dipinti tahitiani. Dal punto di vista storico, conosciamo molte ragioni del perché Gauguin lasciò la Francia per le isole dell’estremo Pacifico Occidentale: problemi finanziari, l’allettamento per l’avventura, il fascino per l’esotico e così via. Vorrei aggiungere il fatto che l’atmosfera emozionale della Francia e dell’Europa era cambiata. L’atmosfera del 1890 non era la dolce, vibrante atmosfera che andava dal 1860 al 1870. Fu il bisogno di calore dell’artista che fece andare Gauguin in Oceania e Van Gogh ad Arles. Poterono così rifarsi per la mancanza di calore emozionale con il calore fisico di un caldo sole. E, se non riuscirono a stabilire un contatto con l’atmosfera come avevano fatto gli impressionisti, potevano ancora trovare forza creativa vivente dalla natura nella terra stessa o nel sole, là dove si presenta in forme più concentrate. Gauguin la trovò nella terra, era un pittore della terra. Van Gogh lo trovò nel sole, era un pittore del sole.
Questa è la forza creatrice della natura che, se parliamo in maniera più scientifica, è l’energia cosmica fondamentale, o quella che conosciamo oggi come orgonica. Tali affermazioni sembrano eccessivamente semplici. Lo sono, ma se le faccio è per mettere in luce orientamenti di fondamentale importanza. I pittori studiati fino a ora erano pittori dello spazio; le loro percezioni venivano determinate dalla relazione tra oggetto e spazio. Gli impressionisti misero in risalto la seconda, Cezanne la prima e Seurat entrambe. Gauguin fu un pittore bidimensionale che eliminò l’elemento dello spazio dalla sua considerazione. Parliamo qui del suo lavoro più tardo, e non intendiamo caratterizzare tutti i suoi dipinti, ma piuttosto spiegare quello che hanno in comune. Nel periodo in cui i dipinti impressionisti incontravano il successo, quelli di Gauguin vennero rifiutati. La sua arte, la sua tecnica non furono comprese. Non fu per caso che l’accettazione della tecnica impressionista avvenne a spese del suo senso profondo? In occasione di una mostra Gauguin chiese a Strindberg di scrivere la presentazione. Stringberg rifiutò dicendo: “Sui muri del tuo studio ho visto dipinti pieni di sole che mi hanno seguito la notte scorsa nel sonno, un mare che fuoriesce dal vulcano, un cielo in cui non dimora alcun Dio”. Chi è allora costui? E’ Gauguin il selvaggio che odia una civiltà sconveniente, qualcosa come un titano che, nei suoi momenti d’ozio, fa la sua piccola creazione, perché è geloso del suo creatore; Gauguin il bambino che smembra i suoi giocattoli per farne altri, che sfida, che preferisce vedere il cielo rosso piuttosto che blu come la moltitudine (da Gauguin, di John Rewald). Ma Stringberg in effetti ammise che non riusciva a comprendere la sua arte. Il cielo di Gauguin non era blu, era ricoperto di nubi e tempestoso. Tuttavia, egli non dipinse il cielo, dipinse la terra che è rossa. Se i suoi mari scorrono dai vulcani sono in verità fiumi terrestri. La visione di Gauguin non era diretta verso lo spazio, neanche verso gli oggetti, ma verso la terra. Questo spiega anche l’assenza di ombre nella pittura di Gauguin? Un’ombra implica spazio, cioè tre dimensioni, non si può eliminare lo spazio e conservare le ombre. E anche l’oggetto, una qualità tridimensionale, scompare. Solo la forma rimane proiettata contro la superficie della terra. D’altro canto, l’artista ci diede una ragione tecnica. Scrisse: “Voi discutete le ombre con Laval e mi domandate se sono interessato. Per quanto concerne la spiegazione della luce, sì. Guardate i Giapponesi che sanno certamente disegnare e vedrete la vita all’aperto e al sole, senza ombre, i colori usati soltanto come combinazione di toni, armonie varie, dando l’impressione del calore e così via. Inoltre, considero l’impressionismo una ricerca del tutto nuova che necessariamente devia da qualsiasi cosa di meccanico come la fotografia e altro ancora. Ecco perché vorrei evitare per quanto sia possibile ciò che dà l’illusione di una cosa e poiché l’ombra è la trompe l’oil del sole, sono propenso a sopprimerla”. Se c’è contraddizione apparente tra le due spiegazioni, ciò è dovuto al fatto che non si applicano alla stessa cosa. Io parlo dell’orientamento emozionale della visione, Gauguin di un principio pittorico. Gauguin scriveva ciò prima di partire per Tahiti. Dopo il suo arrivo scrisse: “Adesso lavoro bene, ora che conosco la terra e il suo odore”. Nei dipinti stessi troviamo l’espressione piena della sua visione. I colori, le forme e il soggetto sono diversi da quelli che troviamo nei dipinti impressionisti, o in quelli di Cezanne o Seurat. Analizziamo allora ognuno di questi in dettaglio. E’ immediatamente evidente che i colori dello spettro sono stati sostituiti da una nuova tavolozza. Da dove provengono quei viola, rossi e marrone? Non sono i colori dell’atmosfera. Non ci vuole molta immaginazione per capire che questi sono i colori della terra, tipici dei Paesi caldi: colline e montagne viola, roccia verde oliva, sabbia gialla e terra rossa. Considerate il dipinto The gold of their bodies. Questo non è un oro metallico e neanche l’oro del grano maturo; è un magnifico tocco di terra incredibilmente ricco. E non è la terra stessa più ricca di tutto l’oro o dei metalli preziosi che saranno mai estratti da essa? I grandi pittori messicani, come Diego Rivera, dovevano sentire e dipingere nello stesso modo. Quando studiamo le forme, la loro derivazione è ugualmente chiara. Guardate le figure tahitiane. Avete visto le figure formate dall’olio sull’acqua? O più esattamente un’ameba? Queste sono ciò che chiamerei forme fluide; non hanno nulla di rigido o meccanico.
Queste sono le forme del protoplasma, della terra trasformata in sostanza vivente. Qui si trova la comprensione della forma umana, come Cezanne non riuscì a capire. Nel dipinto Due donne tahitiane sulla spiaggia, il contrasto delle linee e delle forme permesso dalla scatolina sullo sfondo con le figure delle donne tahitiane è impressionante. Questo orientamento della visione di Gauguin verso la terra spiega anche altri aspetti dei suoi dipinti. Per esempio molti alberi nei dipinti di Gauguin hanno la forma di alberi, come li conosciamo. Ma nel dipinto Il cavallo bianco e ancora di più nel suo capolavoro Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? le strane forme rassomigliano ad alberi che non si trovano da nessuna parte. Che cosa sono allora? Ho la sensazione che siano radici, una parte dell’albero che solo un pittore la cui visione è focalizzata sulla terra ritrarrebbe. E’ in questo capolavoro che l’intuizione di Gauguin viene chiaramente espressa. Risponde alle domande: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Il dipinto mostra da destra a sinistra, in primo piano, figure sedute accanto a un neonato disteso a terra; una figura in piedi che si protende verso l’alto; figure sedute; una, in parte, reclinata. Non v’è che una interpretazione: proveniamo dalla terra. Siamo parte di essa anche se ci protendiamo verso il cielo. Torniamo alla terra. Siamo uno con la grande natura vivente e non vivente attorno a noi. Gauguin ci reca un’altra intuizione della natura, un altro aspetto del processo creativo. La sua enfasi è sulla trasformazione della terra nel protoplasma vivente sotto l’influsso del sole. Il sole è suggerito dai colori vividi (confrontate la sua osservazione sul punto di vista giapponese), la trasformazione dallo sviluppo delle forme. La maniera semplice in cui egli raggiunge il risultato non lascia dubbi sul significato. Notate il modo in cui la forma del corpo diviene più definita e ben fatta man mano che ci si muove dai piedi alla testa del dipinto Donne tahitiane nude sulla spiaggia. In generale il modo in cui tratta le gambe e i piedi delle figure in piedi indica che egli considerava queste parti del corpo come radici del tronco umano; sono la nostra connessione alla terra. Un’arte del genere non si può definire come decorativa, simbolica, o immaginativa. Nonostante alcune sue osservazioni contrarie, Gauguin è un artista estremamente sensibile alla natura. E’ impressionista sia nello spirito che nella visione. La differenza sta nell’interesse. L’interesse di Gauguin era nei confronti della terra. Selvaggio, cioè il figlio della terra Gauguin prima di andare a Tahiti. Colà vi trovò altri figli della terra. Al pari di loro, ma in modo diverso, l’armonia dei suoi sentimenti nei confronti della terra venne disturbata dalla paura e da cattivi presagi. Ciò si manifesta occasionalmente nei suoi dipinti. In The apparition è rappresentato il male e l’odio che costituiscono la cultura dell’uomo bianco ma che probabilmente egli provò verso se stesso. D’altra parte, di fronte al fascino e alla bellezza di dipinti quali Maternità e Donne tahitiane con fiori di mango rossi dobbiamo concordare con Charles Marice che disse: “In realtà questo dipinto è una opportunità per essere felici, è come un rituale della religione e della gioia”. Allo stesso tempo, mentre Gauguin è sulle sue isole lontane e Van Gogh in Provenza, l’arte della pittura a Parigi stava subendo una trasformazione. Vedremo nella parte seguente quello che rappresentò questo cambiamento. Per il momento è sufficiente separare il sogno dalla percezione. Sia Gauguin che Van Gogh sono legati allo sviluppo dell’arte del ventesimo secolo. Gauguin, in virtù delle sue teorie e dei suoi primi lavori, è connesso al simbolismo. La sua arte è paragonata a quella di de Chavannes. Bazin scrive: “Spiritualmente, col sogno evadono dal presente. Gauguin, in cui la forza brutale del primitivo è resuscitata, cercò questa evasione in terre che restano lontane dalla civiltà… Puvis de Chavannes, la cui formazione è classica, richiese alla cultura Greco Romana di staccarlo dal mondo reale. Quantunque fossero diverse le fonti di ispirazione dei due pittori, il loro atteggiamento sarebbe lo stesso: l’esotismo per uno, il classicismo per l’altro, sono soltanto i trampolini appropriati per facilitare il volo del sogno.” Ma io credo che questo sia un grande errore. Tahiti non è un sogno come i pensieri di un’antica civiltà. Se Gauguin aveva bisogno della brutale forza del primitivo per esprimere la sua arte, non la sognò, la trovò. Il simbolismo appartiene all’astrazione del ventesimo secolo, l’arte di Gauguin appartiene agli impressionisti. Gauguin descrisse la sua differenza da Puvis in questi termini: “Puvis intitolerebbe un dipinto purezza. Per spiegare ciò egli dipingerebbe una giovane vergine con un giglio in mano”. Per lo stesso titolo Gauguin disse che “egli avrebbe dipinto un paesaggio con acque limpide; nessun segno dell’essere umano civilizzato, forse una figura umana”. La confusione è possibile soltanto nel pensiero di quelle persone che valutano l’arte in termini di idee e ignorano la sua base emozionale fondamentale. Abbiamo già notato che le carriere di Van Gogh e Gauguin erano per certi versi parallele. Entrambi vennero attratti dall’impressionismo, Van Gogh più di Gauguin, ma nessuno dei due lo trovò adeguato ad esprimere le proprie percezioni della vita. Come abbiamo visto, Gauguin trovò ciò che soddisfaceva il suo bisogno emozionale in Oceania. Van Gogh rimase in Provenza, una regione di caldo sole e clima secco. Entrambi avevano bisogno del sole cocente e sotto la sua influenza ciascuno raggiunse la vetta della propria arte. Anche dal punto di vista del temperamento i due uomini erano molto simili. Non è sorprendente perciò che per un certo tempo tentassero di vivere e lavorare assieme nella casa di Van Gogh ad Arles. Fu un fallimento per Gauguin e finì tragicamente per Van Gogh. Le loro idee sull’arte differivano radicalmente. Come possiamo spiegare queste divergenze di interessi e di punti di vista tra i due pittori? Erano dovute alle loro differenti costituzioni fisiche? Gauguin possedeva una grande forza fisica. Van Gogh tendeva a essere malato e debole. Dal punto di vista psicoanalitico si potrebbe dire che Gauguin, forte e virile, era attratto dal femminile (le sue donne tahitiane) e ciò che simboleggiava il femminile in natura: la terra e la luna (La Luna e le Terre). Van Gogh, d’altro canto, cercava i suoi punti d’aggancio al maschile (il suo amico Gauguin) e al suo simbolo, il sole. Qualsiasi sia il motivo, il ruolo del sole nella pittura di Van Gogh non può essere trascurato. Bazin descrive la sua opera più tarda nel modo seguente: “La sua pittura durante questo periodo assume una caratteristica sempre più esaltata in cui si rivela una vera e propria ossessione per il sole”. Se questo sia un commento favorevole o sfavorevole, non so dirlo. Paul Fiereus ne fu più colpito poiché dice: “Al tetro Van Gogh di Nussen succede quello luminoso di Parigi e infine -a quel punto non era più una questione di tavolozza pura e semplice- si perviene al brillante estatico Van Gogh, il pittore di Arles, Sant Remy e Auvers. I dipinti stessi non lasciano dubbi. Il sole è rappresentato direttamente certe volte e indirettamente altre, come per esempio attraverso il girasole”. Questa non è adorazione del sole in senso idolatrico. Van Gogh è semplicemente l’apostolo dell’infinito. Paul Fierens può dire, perciò, giustamente: “In effetti non c’era contraddizione tra la sua vocazione di pastore e quella di artista. Van Gogh stesso disse che egli desiderava creare qualcosa di serio, di fresco, qualcosa che contenga un’anima”. Purtroppo Fierens, che afferma che per Van Gogh l’essenziale era “la trasmissione del messaggio” non ci dà altro che le solite frasi. Egli è uno dei liberatori della soggettività nella pittura e oltre ciò che era bello, egli continuò a dedicarsi a quello che era buono. Onoriamo i grandi uomini ignorando le loro intuizioni. Il pittore stesso non ci dice tali banalità. Van Gogh scrisse a suo fratello: “Se studiamo l’arte giapponese vediamo un uomo che è indubitabilmente saggio, filosofico e intelligente. Come trascorre il suo tempo? Studiando la distanza tra la terra e la luna? No. Studiando la politica di Bismark? No. Egli studia un unico filo d’erba. Ma questo filo lo porta a disegnare ogni pianta e poi le stagioni, le ampie distese della campagna, poi gli animali e infine la figura umana”. Descrivendo le sensazioni che sono alla base del dipinto Ritratto del pittore Bosch, Van Gogh scrisse: “Oltre la testa io dipingo l’infinito. Creo un semplice sfondo con il blu più profondo e intenso che riesco a creare, e con questa semplice creazione la testa bionda viene illuminata da questo sfondo blu e acquista un effetto misterioso come quello di una stella nel profondo azzurro”. Per Van Gogh, come per tutti i più grandi pittori, furono i sentimenti verso ciò che è semplice e infinito che formano la base della sua arte. Il semplice nell’infinito, l’infinito nel semplice. Siamo in grado di determinare più specificatamente la profondità dell’intuizione di Van Gogh nei confronti dell’infinito? Sì. Mettendo in relazione il suo lavoro col movimento impressionista, conosciamo il suo orientamento generale. Ciò va verso la ricerca di comprensione dell’universale in natura, che venne percepito dapprima dagli impressionisti nell’atmosfera.
Per il resto, guardiamo i dipinti stessi. L’uso del colore da parte di Van Gogh ci dà le prime indicazioni. Se ci limitiamo ai dipinti eseguiti ad Arles, Remy e Auvers, notiamo la predominanza del colore giallo. Pervade il verde e viene rappresentato nell’arancione. Il blu è usato per contrasto, la cui enfasi coincide col giallo. E’ così predominante questo uso del giallo, che nel Il Ponte Levatoio, realizzato ad Arles nel 1888, è presente nel ponte, nella terra, nell’acqua e nel cielo. Si riceve la stessa impressione da Campo degli Ulivi (St. Remy, 1889) e da La Camera da letto di Van Gogh dello stesso periodo. In The Bohemians dipinse il cielo di un giallo-verde chiaro. Il significato è evidente. La presenza del sole si fa sentire prima che entri a far parte delle sue composizioni. Questo non è un simbolismo ovvio. Noi associamo il giallo col sole come col girasole. Con questo uso del giallo Van Gogh esprime il calore che prova in questa campagna inondata dal sole, tra la sua gente semplice e nelle cose ordinarie che lo circondano: letto, sedie, scarpe e così via. Quando ci ricordiamo che nella stessa regione Cezanne dipingeva usando il blu come colore dominante, la differenza è significativa. L’assenza del sole rimuove il giallo dallo sfondo: The Care, Evening ha il cielo blu, e il Ritratto del pittore Bosch, come abbiamo visto in precedenza, ha uno sfondo di un blu profondo. La qualità delle pennellate e della linea ci dicono ancora di più. Egli applicò la pittura in brevi pennellate curve che di per sé suggeriscono le onde, ma nell’insieme del quadro esprimono una vibrazione intensa. Le linee stesse, pesanti, blu scuro, e sempre con una certa curvatura, ci danno questo senso di vibrazione in maniera persino più forte. Ciò è assolutamente evidente nei dipinti Natura Morta, Iris, Champ d’Olives e View of Arles. Negli ultimi due dipinti c’è una notevole intuizione. I tronchi blu degli alberi delineati con una pesante linea blu ci mostrano l’energia pulsante che proviene dalla terra e che passa attraverso il tronco e i rami più grossi. I rami allora cambiano in verde e nel fogliame si sente l’esplosione nel giallo. Qui di nuovo sento che il processo creativo viene sperimentato e interpretato correttamente dall’artista. L’intuizione di Van Gogh della natura dell’energia orgonica è veramente notevole. Non soltanto egli percepì la sua forma di movimento a spirale con una curva sinusoidale (Field in Rising Storm, Le Berceuse e Postman roulin) ma anche la sua qualità esplosiva (dappertutto nel suo modo di trattare le cose che crescono: Le pont d’Anglois, View of Arles e altri ancora). Inevitabilmente, la sorgente di questa potente vibrazione attrasse il suo interesse. Come Cezanne era irresistibilmente attratto dalla montagna San Victoire, così la visione di Van Gogh era attratta dal sole. Adesso appare direttamente nei suoi dipinti: Cornfields at St.Remy e La Rante aux Cypres. Egli mostra il sole come un corpo vibrante le cui pulsazioni si irradiano all’infuori verso lo spazio e mettono in vibrazione la luna, la terra e le cose che ci vivono sopra. Adesso disponiamo di varie obiezioni possibili. Nei suoi autoritratti Van Gogh rivela consapevolezza di questa vibrazione dentro e attorno a se stesso. Può essere, allora, che quello che dipinse nel sole, nell’atmosfera e nelle cose che crescono fosse semplicemente una proiezione? Senza la conoscenza dell’energia orgonica, senza la percezione di Van Gogh, si potrebbe propendere a pensarla così. Che la percezione di Van Gogh corrisponda esattamente alla realtà è dimostrato dalle radiografie fatte da Reich dell’energia orgonica. Come ho affermato all’inizio di questo articolo, esse corrispondono esattamente a ciò che dipinse Van Gogh. La grandezza di questo artista è il fatto che egli percepì non solo la vibrante energia orgonica, ma la espresse plasticamente nel colore, nelle linee e nelle pennellate, in modo tale che ogni oggetto a cui prestava il suo tocco si impregnava del calore e della affettività della sua personalità. Ci si aspetta comunque che qualcuno dica: “Era pazzo, lo dimostra la sua pittura. Quello non è il modo in cui le persone normali percepiscono la natura”. Per fortuna, diversamente che dagli scienziati della statistica, l’homo normalis non è il nostro criterio di salute o di valore. Sono proprio queste persone normali con le loro incapacità di comprendere il vivente che sono responsabili della follia degli individui più sensibili. E’ gratificante quanto i critici dicono, in questo caso: “La tragedia di Van Gogh non è nei suoi dipinti, che hanno il loro posto molto al di là del pathos della sua vita e che appartengono al piano di un intelletto sano, stabile” (Paul Fierens).
Si trova nel caso di Van Gogh lo stesso errore grossolano che segue il tentativo di comprendere Gauguin. Il realista viene confuso con il sognatore, la percezione con la tecnica. Così Fierens dice: “Lo spirito dell’impressionismo non lo aveva per nulla conquistato o penetrato completamente” e “Il disegno consiste di linee pesanti, continue o ininterrotte che delineano le forme e che hanno tanta importanza a causa della loro qualità decorativa quanta a causa del loro prestigio come segni per registrare emozioni”. Ma poi Fierens non è in grado di spiegare le manifestazioni liriche a spirale, ondeggianti. No, è tutto sbagliato. L’artista che si protese verso l’infinito è nello spirito degli impressionisti. E’ in contatto con la natura, non aggiunge nulla a ciò che vede. Ciò che percepisce non è la realtà dell’uomo qualunque, contiene qualcosa dell’infinito. I suoi dipinti si possono dichiarare decorativi solo se non compresi. La qualità delle sue linee non è simbolica, esse rappresentano direttamente l’energia orgonica nell’universo, come egli la sentì e come la sentirono anche altri. No. La pittura di Van Gogh non è l’espressione dell’angoscia del suo cuore. Egli fu capace di innalzarsi sopra ciò, di creare una pittura che fosse ardore e serenità. E, infine, né lui né Cezanne trascesero lo stadio della percezione. Cose simili possono essere percepite soltanto da critici che cercano di interpretare il lavoro di un artista dal punto di vista intellettuale, perché a loro mancano la sensazione, le intuizioni e le esperienze emozionali che da sole possono produrre il capolavoro. Questa nuova forma d’arte fondamentalmente diversa ha rispolverato le convenzioni artistiche e accademiche con un radicalismo, onestà e coraggio che ha continuato a ispirare gli artisti fino ad oggi. Per scandire il racconto filologico dell’esposizione, il percorso si articola in tre sezioni: Da Ingres a L’École de Barbizon, i fermenti dell’Impressionismo; L’Impressionismo e L’eredità dell’Impressionismo, abbracciando così un arco temporale che va da inizio ‘800, con opere di Ingres, Corot, Delacroix e Dorè, arrivando agli eredi Toulouse-Lautrec, Permeke, Derain, Dufy e Vlaminck per concludersi al 1968, con un’acquaforte di Pablo Picasso, omaggio agli artisti Degas e Desboutin. La mostra presenta un ulteriore tratto di originalità. Accanto alle opere poco conosciute dei grandi protagonisti del movimento, come Pissarro, Degas, Cézanne, Sisley, Monet, Morisot, Renoir, che parteciparono alla prima esposizione del 1874, si presentano allo sguardo del visitatore anche quelle di artisti comprimari, come Bracquemond, Forain, Desboutin, Lepic, Millet, Firmin-Girard e Lecomte, il cui delicato dipinto a olio Bateau sur la riviereè stata scelta come immagine simbolo della mostra. A completamento della mostra celebrativa dell’Impressionismo, oltre le numerose opere, anche materiali documentali, come lettere, fotografie, libri e oggetti che offrono uno spaccato della società e della sensibilità dell’Ottocento in cui si formarono i rivoluzionari artisti impressionisti.
Museo Storico della Fanteria Roma
Impressionisti – L’alba della modernità
dal 30 Marzo 2024 al 28 Luglio 2024
dal Lunedì al Venerdì dalle ore 9.30 alle ore 19.30
Sabato e Domenica dalle ore 9.30 alle ore 20.30

Fonte: News-Art