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In Asia La newsletter sull’Asia e il Pacifico a cura di Junko Terao

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L’INUTILE VISITA DI MICHELLE BACHELET IN CINA
 A cosa serve un’alta commissaria per i diritti umani dell’Onu se durante la prima visita in Cina in 17 anni non fa e non dice sostanzialmente nulla sulla persecuzione della minoranza uigura provata da migliaia di documenti e testimonianze? La domanda è più che legittima e la bufera scatenata intorno alla missione di Michelle Bachelet non si placa. L’ex presidente cilena, che per esperienza sa bene cosa significhi essere torturata in un campo di prigionia, non è accusata solo di aver taciuto, ma di essersi prestata a un tour propagandistico nello Xinjiang e aver avallato la retorica di Pechino, che giustifica la persecuzione e l’internamento di uno o forse due milioni di uiguri come attività antiterrorismo (del resto fu la “guerra globale al terrore” lanciata dagli Stati Uniti nel 2001 a fornire alla Cina il pretesto e il linguaggio per la sua campagna repressiva). 

L’alta commissaria si è difesa specificando che la sua visita di sei giorni non aveva uno scopo d’indagine. Al ritorno, però, ha ricevuto due lettere di protesta. Un gruppo internazionale di accademici esperti di Xinjiang, alcuni dei quali erano stati consultati dallo staff di Bachelet per preparare la missione, le ha scritto esprimendo una forte preoccupazione. “In ambito accademico è raro un livello di consenso come quello raggiunto dagli esperti di Xinjiang su quello che Pechino sta facendo agli uiguri”, scrivono spiegando che tale consenso deriva dalla “straordinaria mole di prove fornite dalla Cina nei documenti ufficiali, alcuni dei quali sono stati trafugati ma che per la maggior parte sono stati pubblicati su internet dalle istituzioni stesse”. Sommate alle testimonianze e alle immagini satellitari, “queste prove forniscono un’immagine dettagliata di quello che può essere credibilmente chiamato un piano genocida”. Date queste premesse, gli accademici criticano Bachelet non solo perché non ha condannato la repressione degli uiguri, ma perché ha addirittura avallato la retorica di Pechino chiamando i campi d’internamento “centri per la formazione e l’istruzione professionale”, il nome usato dal governo cinese per giustificare quella che definisce una “campagna antiterrorismo”. 

Ancora più dura la lettera di oltre duecento organizzazioni e attivisti per i diritti umani, che chiedono le dimissioni di Bachelet accusandola di “whitewashing”, cioè di aver coperto le atrocità cinesi nello Xinjiang. In entrambe le lettere si sollecita la pubblicazione del rapporto del suo ufficio in merito, pronto da mesi ma finora tenuto nel cassetto probabilmente per non interferire con l’organizzazione della visita in Cina. C’è da dire che già alla vigilia della partenza di Bachelet le aspettative non erano alte,  che sarebbe stato un tour deludente si eira intuito dalle premesse. 

Con il pretesto delle misure anticovid, il tour si è svolto in un circuito chiuso e senza la presenza di giornalisti stranieri. In videoconferenza con Xi Jinping, Bachelet ha ascoltato il presidente ripetere il solito refrain. Stando al resoconto della Xinhua, Xi “ha difeso i risultati della Cina sui diritti umani e ha detto che Pechino non accetterà lezioni ‘paternalistiche’”, ribadendo che i diritti umani “non dovrebbero essere politicizzati e usati per interferire negli affari interni di uno stato”. Ma, soprattutto, ha avvertito che “ogni sistema o modello copiato ciecamente da altri paesi senza tener conto della situazione sul terreno non solo sarebbe fuori luogo, ma potrebbe avere conseguenze disastrose”. 

La vicenda è solo l’esempio dello strapotere di Pechino negli organismi internazionali, e alle Nazioni Unite in particolare. Dal 2018 Pechino è il secondo maggior contribuente (con il 12 per cento) al budget dell’Onu dopo gli Stati Uniti, e la sua influenza nelle varie agenzie dell’organizzazione continua a crescere. Oggi ci sono funzionari cinesi ai vertici della Fao, dell’Unione internazionale per le telecomunicazioni (Itu), dell’Organizzazione Onu per lo sviluppo industriale (Unidp) e, fino al 2021, anche di quella per l’aviazione civile internazionale (Icao). 

Nel 2016 Pechino aveva ottenuto la guida dell’Interpol, incarico ricoperto da Meng Hongwei fino al 2018, quando improvvisamente sparì durante un viaggio in Cina. Poco dopo il governo cinese fece sapere che Meng era stato incarcerato con l’accusa di corruzione. Era chiaramente una resa dei conti interna al Partito comunista, e Meng si aggiungeva alla lunga lista di dirigenti cinesi caduti in disgrazia e spariti dalla circolazione. La vicenda sollevò dei dubbi sull’affidabilità di Pechino come attore globale e presenza responsabile negli organismi internazionali, oltre ai timori già emersi nel 2016 all’idea che la Cina controllasse l’ente preposto alla lotta contro il crimine internazionale. Timori che si sono ripresentati nel 2021, quando un altro esponente di Pechino è stato eletto tra molte critiche come uno dei due rappresentanti dell’Asia nel comitato esecutivo dell’organismo.

Dopo lo scoppio della pandemia, per mesi ha fatto discutere l’atteggiamento condiscendente nei confronti della Cina del direttore generale dell’Oms, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, eletto nel 2017 grazie all’appoggio cinese. La pandemia ha anche offerto un esempio dello stile di Pechino nella gestione della salute globale: “All’inizio ha agito in modo opaco, tenendo nascosta l’entità della crisi, poi ha usato la quarantena e il lockdown per controllare i contagi e ha promosso all’estero il suo modello, offrendo aiuto a vari paesi, Italia compresa, e guadagnandosi il plauso dell’Oms”, si legge in un utile riassunto del Council on foreign relations che ripercorre per tappe la storia dell’ascesa cinese sulla scena globale.

Mentre in settori come la lotta al cambiamento climatico Pechino non cerca d’imporre i suoi modelli, in altri, come i diritti umani, si comporta diversamente. “E se la Cina (e la Russia) riescono a imporre i loro standard, per esempio, nella governance di internet”, fa notare il Cfr, “potrebbero aprire la strada verso la sovranità cibernetica anche per altri paesi, portando a un mondo con due reti digitali: una aperta e un’altra chiusa e prediletta dai sistemi autocratici”.

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CORTOCIRCUITO A NEW DELHI Il primo ministro indiano Narendra Modi, che ha incentrato il suo successo e quello del suo partito (il Bharatiya janata party, Bjp) sul suprematismo indù e l’odio nei confronti dei musulmani (circa il 15 per cento della popolazione), si è trovato vittima di un cortocircuito tra gli interessi nazionali e quelli globali del suo governo. Le dichiarazioni offensive nei confronti dell’islam e di Maometto rilasciate in tv dalla portavoce nazionale del Bjp, e il sostegno su Twitter espresso dal capo ufficio stampa del partito a New Delhi, hanno provocato un mare di critiche dal mondo musulmano che preoccupa Modi. In una mossa inusuale per un premier e un partito che hanno fatto della retorica superomista e razzista la loro cifra comunicativa, il Bjp si è disfatto dei due funzionari tentando di minimizzarne i ruoli.

Il problema è che partner commerciali e strategici importanti per New Delhi come l’Arabia Saudita e gli stati del golfo Persico – che forniscono risorse energetiche e le rimesse dei lavoratori migranti – hanno protestato insieme alla miriade di paesi musulmani con cui l’India ha a che fare per ragioni prima di tutto geografiche. È chiaro che nemmeno alle controparti conviene guastare i rapporti economici con New Delhi, ma è altrettanto evidente che Modi dovrà rivedere la sua linea politica interna e smettere di soffiare sul fuoco dell’odio interreligioso, altrimenti l’incendio finirà per sfuggirgli definitivamente di mano.