di Marco Leonardi
Confindustria si avvia ad avere un nuovo presidente (a cui facciamo i migliori auguri) in un quadro molto diverso da 5 anni fa. Sui temi di merito, oggi, diversamente da allora, il problema principale delle imprese non sono gli investimenti ma è trovare persone che abbiano le competenze per lavorare ai nuovi prodotti nei nuovi mercati.
L’Italia, che è ancora la seconda manifattura europea, pagherà un prezzo molto alto se stenterà ancora nella costruzione di un sistema di istruzione terziaria (universitaria) professionalizzante alternativo e parallelo alle università tradizionali. Mentre altri paesi come la Francia e la Svizzera hanno iniziato vent’anni fa e ora sono al 30% di studenti iscritti nei canali professionalizzanti (la Germania che ce l’ha da sempre sta al 50%), la Spagna ha iniziato nel 2006 ed è al 10%, l’Italia soltanto non è mai riuscita a decollare.
Il sistema degli Istituti Tecnici Superiori (ITS) italiani, che sono organizzati come fondazioni di diritto pubblico-privato in cui entrano scuole, università e aziende e offrono corsi di durata biennale o triennale e un diploma di tipo universitario immediatamente spendibile nelle professioni più diverse dalla meccatronica, ICT, al navale, alla moda, al agrifood, è tuttora molto piccolo: 30mila iscritti su 1,5 milioni di universitari (e l’incredibile numero di 250mila iscritti raggiunto nel frattempo dalle università telematiche la cui qualità dei corsi non è certamente adatta alle applicazioni pratiche).
Questo è uno dei non pochi casi in cui il PNRR ha permesso di fare quello che probabilmente non si sarebbe mai fatto altrimenti. Allo stesso tempo è un esempio delle difficoltà del PNRR che vanno superate per garantire continuità nel tempo agli investimenti dopo il 2026.
L’investimento del PNRR è molto generoso: 1.5 miliardi per 146 ITS che ai tempi in cui quell’investimento fu deciso erano 20 di meno per un totale di 16 mila studenti iscritti. È giustificato dal senso di urgenza nella creazione di un sistema professionalizzante terziario e ha dovuto vincere molte resistenze non solo di altri progetti che ambivano a quelle risorse ma anche del mondo delle università e della scuola che spesso li hanno ingiustamente ritenuti una indebita concorrenza. Gli obiettivi PNRR sono anche molto blandi: furono ridotti da un iniziale volontà di decuplicare gli iscritti al semplice raddoppio che è già stato ottenuto ancor prima di spendere i fondi PNRR.
La battaglia iniziale con l’università che voleva le lauree professionalizzanti sembra essere vinta ma rimane in sospeso la battaglia con la scuola: il ministero dell’istruzione deve avere perlomeno una direzione dedicata ai soli ITS; è necessaria la sperimentazione del 4 + 2 che lega indissolubilmente negli stessi edifici le scuole tecniche e professionali (di 4 anni come nella maggioranza dei paesi europei) e gli ITS (di 2 anni). Va vinta la resistenza dei sindacati della scuola che ancora ritengono la scuola non possa essere mischiata all’azienda: è necessario che gli ITS si appoggino alle scuole superiori perché altrimenti non hanno una fonte sicura di studenti. Certo che c’è il rischio del ‘tracking’ cioè di ragazzi che scelgono molto presto a 14 anni se faranno un percorso liceo-università o istituto tecnico-ITS, ma oggi chi fa ITS ha un’occupazione sicura a volte migliore di chi fa l’università. E poi molto spesso l’alternativa non è tra fare l’università o ITS, l’alternativa è tra università o nulla: ancora oggi la percentuale di studenti superiori che si iscrive all’università sta sotto il 50% al netto degli abbandoni, molto meno che negli altri paesi europei dove accanto alle università c’è appunto una possibilità di istruzione pratica e professionalizzante.
Quali sono i problemi del PNRR sugli ITS? Alcune regioni non hanno grandi imprese o distretti industriali che possano guidare la costruzione di fondazioni ITS e quindi beneficerebbero molto di una formazione su commissione – su richiesta di settori specifici di quel territorio- come avviene in tanti altri paesi. Da noi l’ambiente sarebbe anche del tutto favorevole perché i fondi interprofessionali già lavorano con una formazione su commissione e già potrebbero utilmente inserirsi nelle fondazioni ITS. Bisogna che siano coinvolte in maniera molto maggiore le associazioni di categoria anche dei servizi e non solo industriali visto che molte delle specializzazioni italiane riguardano ormai i servizi. I 1,5 miliardi iniziali non sono troppi ma certo vanno spesi in poco tempo per costruire un sistema che deve poi stare in piedi da solo dopo il 2026. Oggi il sistema ITS riceve circa 50 milioni annui dallo Stato e più di 100 milioni dalle regioni (solo alcune hanno molti ITS). Facciamo i “conti della serva”: servono una decina di corsi per ognuno dei 150 ITS, ogni corso costa 300mila euro l’anno, il finanziamento annuo deve quindi quasi triplicare a 450 milioni annui dopo il 2026. Ma quale paese può ritenere troppo 450milioni di euro annui per un sistema di istruzione professionalizzante che aiuta a tenere in piedi l’industria italiana?