https://fondazionefeltrinelli.it/ di Giacomo Perazzoli ricercatore
In Italia, in epoca di primarie che spesso eleggono il candidato “più forte” (per esempio, Walter Veltroni nel 2007 o Matteo Renzi nel 2013), si è soliti considerare i congressi come un momento di discussione sugli aspiranti segretari piuttosto che sulle linee politiche di cui sono espressione. Ciò è senz’altro dovuto al processo di personalizzazione della politica nostrana, ma anche alle difficoltà nel percepire le effettive differenze di vedute e dunque di proposta politica tra un candidato e l’altro.
Nella lunga storia del Partito comunista italiano, cui il PD, benché tra molteplici distinguo, viene solitamente ricollegato,[1] il Congresso rappresentava un momento di discussione incentrato anche sulla prospettiva politico-programmatica. Fu così, ad esempio, nel V Congresso (29 dicembre 1945 – 6 gennaio 1946), quando il PCI impostò le linee da seguire nella duplice campagna elettorale per il referendum istituzionale e per l’Assemblea costituente, oppure nell’VIII Congresso (8 – 14 dicembre 1956), quando dovette ricompattarsi a seguito dei fatti dell’“anno terribile”. Altrettanto importante, nell’ottica di valutare i momenti congressuali quali spazi di effettiva discussione politico-programmatica, è il XIII Congresso nazionale (13-17 marzo 1972).
La quotidianità nell’Italia degli anni Settanta iniziava ad essere scossa da quelle turbolenze, dalla fine degli accordi di Bretton Woods alla crisi petrolifera scatenata dalla guerra del Kippur, illustrate con ampiezza da Eric Hobsbawm ne “La frana”, la terza parte del suo libro probabilmente più celebre, Il Secolo breve.[2] Nondimeno, lo scenario italiano era ulteriormente turbato da situazioni endemiche al Paese: l’avvio della strategia della tensione con il tragico episodio di Piazza Fontana del dicembre 1969; i tentativi eversivi (ad esempio il tentato golpe di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970; la violenza dell’estrema destra, protagonista delle rivolte di Reggio Calabria nell’estate 1970 contro la mancata investitura a capoluogo; l’instabilità politica dovuta al progressivo sfarinamento delle maggioranze di centro-sinistra.[3]
Per il PCI, di fronte alle profonde complicazioni, economiche, sociali e politiche, che stavano via via esplodendo nel Paese, si trattava di immaginare una nuova strategia che gli permettesse di tornare al centro dello scenario politico nazionale. In linea con le dinamiche della Guerra fredda e con lo stretto legame che univa il comunismo italiano a quello sovietico, una mutazione di prospettiva significativa doveva giocoforza realizzarsi in coerenza con gli spazi apertisi nello scenario globale: dopo il trauma di Praga del 1968, tra il 1970 ed il 1972, il PCI avviò dei contatti diretti con i principali partiti comunisti dell’Europa occidentale, soprattutto quello francese e quello spagnolo, nell’ottica di individuare un nuovo modus operandi al di qua della cortina di ferro.[4] Come spiegò Enrico Berlinguer, che nel XIII Congresso sarebbe stato acclamato segretario, non si trattava di ripudiare la Rivoluzione d’Ottobre, visto che aveva permesso a milioni di uomini di venire tratti fuori “dal fondo dell’arretratezza e della depressione”. Tuttavia, alla luce delle particolari condizioni italiane, il socialismo che il PCI si proponeva di realizzare sarebbe stato cosa diversa rispetto alle esperienze esistenti, esperienza sovietica inclusa: anziché ricalcare un modello, sarebbe stato “quello che la classe operaia e il popolo nostro vorranno che sia”,[5] fermo e considerando l’inscindibile “rapporto tra democrazia e socialismo” (In allegato: Per rinnovare l’Italia, per la pace, per la liberazione di tutti i popoli oppressi dall’imperialismo: la relazione di Enrico Berlinguer per la preparazione del 13. Congresso nazionale del PCI, Partito Comunista Italiano, Roma, 1972, p. 14).
In politica interna, la nuova predisposizione del PCI si sarebbe dovuta tradurre con l’adozione di un nuovo piano. Alla luce “delle questioni storiche” che travagliavano “l’Italia” nei primi anni Settanta, secondo Berlinguer, l’unica via percorribile, una via nuova rispetto al fronte delle sinistre e al centro-sinistra, poteva essere “realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, cattolica, socialista”. D’altro canto, ribadiva il segretario comunista, “la natura della società italiana e dello Stato italiano, la sua storia, il peso dei ceti intermedi, l’acutezza di grandi questioni sociali ma anche politiche e ideali […], la profondità delle radici del fascismo e quindi la grandiosità stessa dei problemi da risolvere” imponevano “una simile collaborazione”.[6]
Certo, il compromesso storico sarebbe stato formulato sulle pagine di “Rinascita” tra il settembre e l’ottobre del 1973, cioè in seguito al colpo di Stato in Cile che concludeva l’esperienza del governo di Salvador Allende e di Unidad Popular. Le citazioni tratte dal discorso illustrato da Berlinguer nel corso del XIII Congresso lasciano però intendere come il PCI avesse di fatto già gettato le fondamenta per una nuova collaborazione a livello nazionale con socialisti e democristiani. In vista delle elezioni politiche del 7-8 maggio 1972, dunque, il PCI proponeva, come scriveva Alessandro Natta su «Rinascita» del 17 marzo tornando sui contenuti della relazione congressuale di Berlinguer, di lanciare la “prospettiva politica di una nuova maggioranza”: non si trattava “di un qualche schema di blocco di fronte delle sinistre”, bensì di un vasto processo politico e programmatico “il cui sviluppo” esigeva “nell’immediato una sconfitta elettorale e politica della DC, un colpo a sinistra” che liberasse “le forze popolari cattoliche”, così da sollecitarle “al rapporto con i comunisti e i socialisti” (In allegato: A. Natta, “La nostra alternativa”, Rinascita, a. XXIX, n. 11, 17 marzo 1972, p. 2).
Chiaramente, sui mutamenti d’indirizzo politico pesavano i fattori contingenti, come nel caso del compromesso storico quanto avvenuto in Cile nel settembre del ’73. Ma le basi di quella formula politica, che avrebbe segnato l’agenda del PCI nel corso degli anni Settanta giungendo di fatto fino ai nostri giorni, visto che il PCI è stato volenti o nolenti ritenuto una filiazione indiretta del compromesso storico,[7] vennero gettate nel XIII Congresso.
In linea con gli articoli sui congressi comunisti del 1946 e del 1956, anche questo excursus su uno specifico congresso del PCI ci consente di cogliere quello che era lo spirito dei momenti congressuali e che, al giorno d’oggi, sembra essersi disperso: non soltanto luogo di approvazione di una strategia politica concepita in precedenza in altra sede, ma momento di riflessione e discussione finalizzato alla prefigurazione di una nuova prospettiva, che avrebbe a sua volta contribuito a riposizionare il partito sia in politica interna che sul piano internazionale.