Nell’’anno di grazia 2022, impregnato di crisi pandemiche, bellicose ed energetiche, la cui natura e origine non è il caso di rimarcare in quanto arcinote, non sembra il caso di far rivivere, in un confusionario clima di paura per il domani, la tattica della “caccia alle streghe”, magari basata su parecchie esistenti analogie fra i sistemi di guida politica del passato e quelli del presente.
Di Augusto Lucchese
La preordinata e attuata elezione di Ignazio Benito Maria La Russa alla seconda carica dello Stato (Presidente del Senato = Vicepresidente della Repubblica) qualche lustro addietro avrebbe sicuramente provocato uno tsunami di reazioni, di contestazioni, di proteste di piazza.
Neppure il famoso mago Houdini, il grande illusionista capace di liberarsi da ogni materiale costrizione di manette, catene, corde, camice di forza ecc. ecc., sarebbe probabilmente riuscito a disfarsi con tanta disinvoltura, al contrario del neoeletto, dal gravoso fardello culturale e sociale di un passato orientato al culto di simboli e rimembranze del periodo mussoliniano.
Qualche canale televisivo s’è presa subito la briga di ripescare un filmato della sua casa-museo strapiena di “reliquie”, effigie, bronzi, ritratti e stampe rispecchianti il mal digerito (per non dire altro) “ventennio”, oltre ad offrire ai teleutenti scenette tragicomiche e ben poco etiche della turbinosa carriera iniziata quando ricopriva il ruolo di “giovane d’assalto” del Movimento Sociale Italiano di Almirante & c.
Un periodo che tuttora è diffusamente considerato, a torto o a ragione, del tutto deleterio, a parte il fatto che qualsivoglia forma di riesumazione o di riferimento allo stesso è stata peraltro inappellabilmente radiata dal quadro politico nazionale.
Esiste in merito, infatti, una precisa disposizione della Costituzione (XII disposizione transitoria e finale), oltre che la legge 20 giugno 1952 n. 645 (la cosiddetta legge Scelba) che in materia, all’art.4, sanziona: “Chiunque, fuori del caso preveduto dall’art. 1, pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo oppure le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire 500.000. La pena è aumentata se il fatto è commesso col mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione o di propaganda”.
Canoni peraltro ribaditi e confermati dalla legge 25 giugno 1993 n. 205, la cosiddetta legge “Mancino”, che riformula l’art. 3 della legge del 1975.
Nei primi anni dell’ultimo dopoguerra la cosiddetta “epurazione” segnò un momento difficile per la vita istituzionale e amministrativa della Nazione stante che, non esistendo un preciso parametro di “equità” inquisitoria a fronte del fatto che, per circa vent’anni, il regime fascista aveva intruppato nelle organizzazioni di regime (per obbligatorietà o per acquiescenza) gran parte della classe dirigente, impiegatizia, imprenditoriale d’alto livello, non era cosa facile esprimere fondati e imparziali verdetti.
Solo taluni gerarchi fascisti vennero processati sin quando il 21 giugno del 1946 sopravvenne l’amnistia voluta dall’allora ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti che perorò l’emanazione di un “atto di clemenza” allo scopo di un “rapido avviamento del Paese a condizioni di pace politica e sociale”.
Rivisitando, senza alcuna preconcetta interpretazione di parte, fatti e avvenimenti di quegli anni, non sembra fuor di luogo porre in evidenza talune notorie non tanto casuali circostanze.
Nel giugno 1960, quando l’allora Presidente del Consiglio On. Tambroni permise che il congresso del MSI (Movimento Sociale Italiano), ritenuto erede di una certa ideologia di stampo mussoliniano, si svolgesse a Genova, l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e varie organizzazioni dei partiti di sinistra si posero alla testa di focose proteste e di manifestazioni unitarie di piazza che portarono alle dimissioni del Governo. La sommossa, per inciso, comportò la rapida dispersione dei delegati al congresso giunti a Genova da ogni parte d’Italia.
In quel periodo, un agguerrito settore della stampa dell’epoca, fra cui spiccavano, “L’Uomo qualunque” di Guglielmo Giannini (1944), “Candido” di Giovannino Guareschi (1945) e il combattivo “Il Borghese” (1950) di Leo Longanesi, in continua polemica con il fior fiore dei quotidiani e periodici di stampo CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), fra cui primeggiavano “L’Unità”, l’ “Avanti”, “Il Popolo”, “La voce libera”, s’era assunto il compito di “smitizzare”, poiché ritenuto pregiudiziale, l’antifascismo del mondo politico del cosiddetto “arco costituzionale” d’allora.
L’intento era anche quello di “screditare” la Resistenza, particolarmente la componente comunista all’interno di essa, accusata di violenze, ritorsioni e abusi.
I luoghi comuni a tal uopo sfoggiati vertevano sulla versione addolcita o addirittura travisata di taluni aspetti della lunga esperienza dittatoriale quali, ad esempio, quella degli squadristi che altro non erano che “ragazzi svelti di mano, allegroni, ignoranti come rape”, o quella di Mussolini che voleva “fare un po’ il russo anche lui” o quell’altra che i fascisti erano “molto più adatti a gozzovigliare” che “a praticare un regime di terrore” e che lo stesso Duce “era un brav’uomo, una pasta, in confronto a quello che c’era fuori in molte altre nazioni”.
Si voleva sostenere che “il Benito dell’epoca” aveva adoperato una sorta di “bonaria violenza per domare un Paese difficile, riottoso, litigioso, problematico”.
In prosieguo, con riferimento agli “anni di piombo” e alla “strategia della tensione”, che determinarono l’attentato terroristico di Piazza Fontana – Banca della Agricoltura – del 1969, quello di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974, quello al treno “Italicus” avvenuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974, culminati nella strage della Stazione Ferroviaria di Bologna dell’agosto 1980, si giunse anche, rincarando la dose, a mettere in circolazione la tesi (pur se in parte convalidata poi dalle indagini) secondo la quale era esistito un misterioso legame di taluni servizi segreti italiani con la CIA e con l’estrema destra eversiva.
In quegli anni accadde anche (7 e 8 dicembre 1970) che il fondatore del movimento neofascista Fronte Nazionale, Junio Valerio Borghese (già Presidente del Movimento Sociale Italiano dal 1951 al 1953) tentasse, in collaborazione con Avanguardia Nazionale, un “colpo di stato”.
Nel luglio 1970, il MSI fu inoltre protagonista della rivolta di Reggio Calabria quando insorse contro l’assegnazione a Catanzaro della qualifica di Capoluogo di Regione. Per domare la rivolta dovettero intervenire, oltre alla Polizia, i carri armati dell’’Esercito.
Nell’’anno di grazia 2022, impregnato di crisi pandemiche, bellicose ed energetiche, la cui natura e origine non è il caso di rimarcare in quanto arcinote, non sembra il caso di far rivivere, in un confusionario clima di paura per il domani, la tattica della “caccia alle streghe”, magari basata su parecchie esistenti analogie fra i sistemi di guida politica del passato e quelli del presente.
Potrebbe trattarsi, oltretutto, di “analogie strumentali”, tirate in ballo per evidenziare le assodate colpe della classe dirigente e politica degli ultimi due lustri in materia di interessati permissivismi, di deleteri giochi di potere, di pesanti conseguenze strutturali ed economiche, senza dire del pericoloso deterioramento della coscienza sociale.
I tempi cambiano, i ripensamenti sono ammessi, il trasformismo più o meno programmato è sempre palesemente di moda, il Quirinale (una sorta di moderna Canossa) è sempre pronto a “ricevere” il rispettoso inchino di sottomissione dei nuovi eletti agli inderogabili canoni di una apparente e mascherata normalità.
Scherzi della democrazia, specie di quella di casa nostra nella misura in cui è deviata su leggi elettorali a dir poco confusionarie e parecchio proclive a veicolare distorsioni di varia natura o fenomeni di “do ut des”.
Nella polemica politica internazionale (specie in Italia), tuttavia, i termini “fascisti” e “antifascisti” rimangono parecchio in uso per indicare posizioni che si ritengono di valenza radicale, populiste di destra e in parecchi casi estremiste.
Gli anni dal 1946 al 1994 circa sono quelli in cui il cosiddetto “paradigma antifascista” assurge alla valenza di quasi “dogma” nei riti della controversa “prima repubblica” e di un vero e proprio spartiacque (una sorta di emarginazione) per l’accesso gestionale in parecchi dei centri di potere della politica partitica, pur se i legalizzati “movimenti” di destra (più o meno estrema) ottengono significativi risultati elettorali.
Le accese battaglie verbali dei vari Almirante (poi sottoposto ad incriminazione per tentata ricostituzione del Partito fascista), Romualdi, Michelini, Mieville e poi di De Marsanich, Fini e, ancora in embrione, di Gasparri, Storace e dell’emergente La Russa, assumono talvolta il valore di aperto attacco ai decantati valori della Resistenza (rifiuto, ad esempio, della ricorrenza del 25 aprile) e al citato paradigma antifascista, specie nell’ambito di un progetto culturale che ha ambizioni politiche ed elettorali.
Il momento di sostanziale legittimazione giunge nel corso del passaggio dalla “prima” alla “seconda repubblica” (“mani pulite”), quando Silvio Berlusconi, nuovo uomo della Provvidenza, nel 1993 / 1994 imbarca nel suo dorato “carrozzone gitano”- targato “Polo delle libertà e del buon governo” – oltre alla antiromana Lega di un certo padano Bossi, l’emergente Gianfranco Fini e il suo Movimento Sociale Italiano, ospitale casa di parecchi più o meno illustri eredi e nostalgici del ben noto “ventennio”.
Il risultato, in definitiva, sembra essere quello di un accentuato “trasformismo”, formalmente basato su “dichiarazioni” di attuale velata condanna di taluni delittuosi e malvagi avvenimenti risalenti al tanto contestato periodo nazi-fascista, dichiarazioni che contrastano con il senso delle culture politiche risaputamente attribuibili, in passato, a taluni settori di destra.
Nessuno contesta i possibili ripensamenti evolutivi in materia di lettura dei decorsi “momenti” oltranzisti, purché si abbia il coraggio di non negare i propri antecedenti comportamenti e si affermi, con sincerità, di non mentire, oggi, nell’accettare l’inderogabile principio che l’antifascismo rappresenta un pilastro della Repubblica italiana, intrinsecamente valido e insostituibile almeno quanto quello della Resistenza.
È augurabile, per chiudere, che la “svolta” emersa dalla consultazione elettorale del 25 settembre apporti un sostanziale miglioramento della triste e pericolosa situazione economica e sociale della massa popolare italiana (da cui vanno esclusi, ovviamente, i “papaveri alti alti”, gli speculatori, i nababbi, ecc. ecc.) oltre che, essenzialmente, la vasta categoria produttiva delle piccole e medie aziende in atto con la corda al collo della crisi energetica.
Non sarebbe male, infine, che qualche controverso personaggio tuttora in lizza, abbia il buon senso di assumere spontaneamente la decisione di non calcare più le scene della politica, specie in funzione del fatto che i pregressi inverecondi mercanteggiamenti “ad personam” non sono più accetti, anche nell’ambito della saputa cerchia di interessati compagni di cordata.
16 ottobre 2022 Augusto Lucchese