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IL TRAMONTO DI UN MITO

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In un saggio edito da Einaudi Sante Lesti esamina le origini e gli sviluppi di un richiamo identitario molto sentito da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. L’influsso di pensatori come Burke, de Bonald, Chateaubriand e Gioberti LA VISIONE DI PAPA FRANCE

Di Paolo Mieli

 L’antagonismo Durante la lotta alle invasioni turche, la cultura «si riappropria della contrapposizione tra libertà europea e dispotismo asiatico» La svolta Papa Wojtyla arricchisce il mito con una felice rivoluzione di genere e propone tre donne nel ruolo di «compatrone» del Vecchio Continente
Dove sono andate a nascondersi quelle parti sotterranee dell’albero europeo che dovrebbero avere il compito di nutrirlo e fissarlo al terreno? Già, — si domanda Sante Lesti in Il mito delle radici cristiane dell’europa. Dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri, che esce domani in libreria per i tipi dell’einaudi — che fine ha fatto quel tema che fu fondamentale per gli ultimi due Pontefici (oltre a molti intellettuali laici, a dire il vero) e ora è, o dovrebbe essere, nelle mani di papa Francesco? Lesti ritiene che, «come minimo», si possa dire sia stato «messo seriamente in discussione». Si può tranquillamente affermare, prosegue, che con papa Francesco il mito delle radici cristiane dell’europa è diventato, almeno in parte, «anacronistico». O, per meglio dire, è divenuto il «residuo» di «una Chiesa madre e maestra, se non sovrana» che «non esiste più». Una Chiesa che adesso, a detta dell’autore, preferisce presentarsi come un «ospedale da campo dopo una battaglia». Bergoglio, secondo Lesti, ha dato prova innumerevoli volte di considerare quel mito inadatto ai tempi in cui viviamo. Troppo grande è il rischio — ad esso connesso — di «dare una qualche legittimità, sia pure non intenzionalmente, al discorso identitario e antiimmigrati (quando non esplicitamente antiislamico) delle destre europee». E, cosa che potrebbe aver impensierito papa Francesco, di una parte non irrilevante del cattolicesimo europeo. A lui invisa.
Il concetto di Europa — come ben spiegò Federico Chabod in Storia dell’idea d’europa (Laterza) — precede di secoli l’avvento del cristianesimo. Nella Grecia del V e del IV secolo a.c. l’europa è la terra delle libertà contrapposta all’asia del dispotismo secondo una differenziazione mutuata da quella allora in voga «greci/barbari». Poi dovranno trascorrere duemila anni perché nel Cinquecento si abbia l’ingresso stabile del termine «Europa» nel lessico della cultura alta continentale. Stando alla classificazione proposta da Peter Burke — in Il Rinascimento europeo. Centri e periferie (Laterza) — nel XVI e XVII secolo le parole «Europa» ed «europeo» appaiono «per lo più in tre contesti (discorsivi): la minaccia turca; le scoperte geografiche; lo scontro continentale». Nel Seicento, «per denunciare il tentativo di qualche potenza di estendere il proprio dominio su tutto il continente (dapprima la Spagna con Filippo III e Filippo IV, poi la Francia di Luigi XIV)». Nel tentativo di resistere alle invasioni turche, l’idea di Europa «si riappropria della contrapposizione libertà europea/dispotismo asiatico» proiettando sul nuovo nemico, l’impero ottomano, l’immagine di quello persiano. Ed è qui che si affaccia l’elemento religioso.
Ma è solo alla fine del Settecento che comincia a farsi strada l’idea che le radici della «civiltà» europea affondino nel proprio passato cristiano. La primissima comparsa del «mito» può esser fatta risalire al 1795, quando esso «fa capolino» tra le righe di un esperimento letterario — poi non pubblicato — di un giovane autore, Pierre-simon Ballanche: l’epopea lionese (di cui resta un frammento conservato presso la Biblioteca municipale di Lione). Ma in quegli stessi anni di fine Settecento — come ha ben documentato Daniele Menozzi in La Chiesa cattolica e la secolarizzazione (Einaudi) — quello stesso mito prende consistenza in alcuni testi controrivoluzionari: le Riflessioni sulla Rivoluzione francese (Utet) di Edmund Burke e la Teoria del potere politico e religioso del visconte Louis de Bonald. Un testo a cui ha dedicato riflessioni assai acute Giorgio Barberis in Louis de Bonald. Potere e ordine tra sovversione e Provvidenza (Morcelliana). La fusione tra i Germani, portatori della monarchia, e i Romani portatori della religione cristiana, avrebbe segnato, secondo de Bonald, la nascita della civiltà e dell’europa.
Di qui il «mito» aveva pervaso l’opera di François-rené de Chateaubriand e a questo punto l’itinerario poteva considerarsi compiuto. Con un’appendice non irrilevante nel pensiero liberale (Claude-henri de Saint-simon, Augustin Thierry). Per essere però contrastato da personalità come l’abbé Augustin Sénac, grande rivalutatore del regime teocratico medievale e delle crociate. Il mito verrà fatto proprio anche da Joseph de Maistre (che lo aveva in un primo tempo respinto). Da Félicité de Lamennais al fine di «cattolicizzare il liberalismo». Da Vincenzo Gioberti per difendere il potere arbitrale del Papa. E da Jaime Balmes per fare entrare la religione di Roma nel lessico politico moderno.
Dopodiché il mito viaggia per tutto l’ottocento e il Novecento sopravvivendo e adattandosi a circostanze storiche sconvolgenti per l’europa stessa. Finché, caduto nel 1989 il Muro di Berlino, trovò il modo di avere una sistemazione definitiva in un sinodo — voluto appositamente da papa Wojtyla — che si concluse il 13 dicembre 1991. Al termine di una discussione assai complessa la Dichiarazione finale di quel sinodo stabilisce che non si sta discutendo di queste radici «per sostenere una coincidenza tra Europa e cristianesimo». Bensì per mettere in evidenza il fatto che «la religione cristiana ha dato forma all’europa, imprimendo nella sua coscienza collettiva alcuni valori fondamentali per l’umanità». Caduto il comunismo, mentre si avvia un processo di unità europea sempre più allargato ad Est, si intende sottolineare quanto il cristianesimo abbia contribuito a definire «il concetto nuovo e centrale della persona e della dignità umana»; «la fondamentale fraternità umana come principio di convivenza solidale nella stessa diversità degli uomini e dei popoli». La Dichiarazione denuncia altresì la secolarizzazione della cultura europea avvenuta negli ultimi cinque secoli: «Nell’europa occidentale e centrale, a partire dalle guerre di religione conseguenti alla rottura dell’unità ecclesiale dei secoli XVI e XVII, si è formata una visione della vita, soprattutto nella sua dimensione pubblica e sociale basata unicamente sulla ragione umana». Adesso, però, l’europa «non deve semplicemente fare appello alla sua precedente unità cristiana». Occorre, venne scritto a conclusione del Sinodo del 1991, «che sia messa in grado di decidere nuovamente del suo fu
turo nell’incontro con la persona e il messaggio di Gesù Cristo». Con una sottile contraddizione tra i due assunti, ben individuata da Sante Lesti. Che senso aveva affermare che si può essere europei senza essere cristiani (e viceversa) se poi si sostiene che il futuro dell’europa dipenderà dal suo incontro con Cristo? Il cardinal Martini — come nota Francesca Perugi in Storia di una sconfitta. Carlo Maria Martini e la Chiesa in Europa (19861993), edito da Carocci — trarrà, nei suoi appunti, conclusioni di un certo interesse: «L’europa non è solo una storia di valori da ricostruire! È un’area provvidenziale in cui il primato va dato ai Vangeli, non ai valori». Solo «partendo dal primato del Vangelo si potrà dire che si mettono a posto anche i valori!». L’europa «sarebbe chiamata a un’evangelizzazione comunque!». Ma che significa tutto ciò? Ci «interessa ciò che un tempo volevamo?», chiede il cardinal Martini. Non avevamo individuato «anche ragioni per distaccarci da quel passato?».
In ogni caso, al momento dell’allargamento dell’europa a Est, cioè a quei Paesi che fino a pochi mesi prima avevano vissuto sotto la dittatura comunista, Giovanni Paolo II indica un obiettivo politico che, per quanto «visionario» (così lo definisce Lesti), gran parte dell’europa fa suo. Ma c’è di più. Per oltre due secoli, il mito delle radici cristiane dell’europa era stato elaborato «da maschi per parlare di maschi ad altri maschi». Nel 1999, Giovanni Paolo II, con una felice intuizione, lo arricchisce di una «rivoluzione di genere» e propone tre donne «compatrone» d’europa. Da allora, «pur continuando a essere raccontato quasi esclusivamente da maschi, il mito parla anche di donne e alle donne». Un’iniziativa che, ad ogni evidenza, si colloca all’interno del programma di «riconoscimento della dignità» della donna promosso da Wojtyla sulla scia del Concilio Vaticano II come hanno notato Valentina Ciciliot in Donne sugli altari. Le canonizzazioni femminili di Giovanni Paolo II (Viella) e Adriana Valerio in Madri del Concilio. Ventitré donne al Vaticano II (Carocci).
Lo sottolinea lo stesso Pontefice nella Spes Aedificandi, la lettera apostolica con la quale il 1° ottobre 1999 proclama Santa Brigida di Svezia, santa Caterina da Siena e santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) compatrone d’europa accanto a san Benedetto nonché ai santi Cirillo e Metodio. Ma c’è di più: queste donne, in quanto vissute nel secondo millennio dell’era cristiana, «completano» la raffigurazione dei santi patroni d’europa anche sotto il profilo cronologico. Da quel momento nel Pantheon delle radici cristiane d’europa ci sono tre santi (uomini) del primo millennio e tre sante (donne) del secondo. In tal modo, sottolinea Lesti,
Giovanni Paolo II «conferisce al mito delle radici cristiane del continente un’inedita profondità storica e un inedito contenuto di genere».
Tutto ciò ha una ricaduta politica. Nel settembre 2003 il Partito popolare europeo — che fin dal 1992 ha menzionato i «valori giudaico-cristiani» nei propri programmi politici — presenta al Parlamento europeo un emendamento in cui chiede che un riferimento alle radici «giudaico-cristiane» entri nella Costituzione continentale. Due secoli dopo la nascita, il mito delle radici cristiane dell’europa «sfiora» l’ingresso nella Costituzione europea. Il cardinale Ratzinger — anche quando sarà papa Benedetto XVI — insisterà, sia pure con accenti diversi che si possono definire «arricchiti», lungo quella via. Ma con scarso successo.
Finché si arriva a Francesco, il primo Papa non europeo dopo 1282 anni. Il quale, secondo Lesti, si dà due obiettivi. Da una parte, intende «aggiornare (per l’ennesima volta) il mito, nel tentativo di sostenere la propria visione dell’europa. Dall’altra, cerca di «accantonarlo», per non offrire — come si è detto — sponde all’uso identitario delle destre continentali. Bergoglio esorta l’unione Europea a «non cadere» in una concezione «individualistica» dei diritti umani, «sorgente di conflitti e violenze». A cui «si associano», prosegue, «stili di vita un po’ egoisti, caratterizzati da un’opulenza ormai insostenibile». Spesso «indifferente nei confronti del mondo circostante, soprattutto dei più poveri».
Tesi che diventano esplicite il 6 maggio del 2016, allorché al Papa viene conferito quello stesso premio internazionale Carlo Magno che nel 2004 era stato assegnato a Giovanni Paolo II. Il Premio gli viene dato in nome del suo «straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori». Nel discorso di accettazione dell’onorificenza, nota Lesti, «non c’è alcuna traccia delle radici cristiane dell’europa». Ce n’è, casomai, «la negazione». «Le radici dei nostri popoli», afferma papa Francesco, «le radici dell’europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi le nuove culture le più diverse e senza apparente legame tra loro». L’identità europea, sostiene Francesco, «è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale». Il che «costituisce», secondo Sante Lesti, «una cesura epocale nella storia del mito». Francesco «lo espelle dal discorso papale sull’europa, con conseguenze dirompenti sull’europeismo sposato dalla Santa Sede». Tra l’altro quel discorso «non ha quasi nulla in comune con i precedenti interventi papali sull’europa». Compresi quelli che aveva fatto lo stesso Bergoglio fino a quel momento. Da quel momento il mito è rimasto «sospeso»: i prossimi Papi potranno lasciarlo in soffitta o riportarlo in auge a seconda delle necessità del momento. Ma proprio per questo non potrà mai più essere considerato un «mito» fondatore.

Fonte: Corriere