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Il tragico bilancio delle morti sul lavoro. Una strage che deve finire

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I dati statistici per il 2021 dicono di una media di tre lavoratori al giorno che hanno perso la vita in incidenti mortali, quasi mille casi. Ma i rilevamenti non comprendono ancora i casi di morte per contagio da Covid 19 contratto sui luoghi di lavoro o durante le ore di servizio. Le denunce di infortuni sul lavoro sono state 500mila circa, superando di parecchio quelle relative agli anni scorsi. Per contrastare il fenomeno non mancano gli strumenti legislativi, occorre solo farli rispettare e renderli efficaci  

di Augusto Lucchese

Da un po’ di tempo a questa parte stampa e televisione ci deliziano, quasi quotidianamente,  con una sorta di bollettino di guerra riguardante le numerose vittime provocate dal susseguirsi di funesti incidenti negli ambienti di lavoro, spesso mortali.  

Un fenomeno in espansione, dovuto a trascuratezze o disattenzioni umane – talvolta abbinate a disfunzioni meccaniche e tecniche – o trattasi solo di imponderabili circostanze e casualità?

Sembra giusto dire che sono due aspetti della stessa medaglia. L’uno trascina l’altro e addirittura si fondono in una sorta di concatenarsi di causa ed effetto, pur se nel verificarsi degli incidenti prevalgono  spesso errori derivanti dalla incuria e dalla probabile scarsa conoscenza dei rischi.

Non va dimenticato, comunque, il fatto che, ai fini di incrementare la produzione e di limitare il costo del personale, è predominante l’odierno e forse eccessivo ricorso all’impiego di ausiliari mezzi meccanici, di sofisticate apparecchiature, di macchinari robotizzati, di complicate attrezzature. Ciò si evidenzia, in maniera particolare e massiccia, nel campo della grande industria delle costruzioni, nel settore della edilizia abitativa, nel vasto campo dei lavori pubblici in appalto o in sub appalto ove operano anche aziende di piccole dimensioni approntate alla meno peggio e senza adeguate norme di sicurezza. Senza dire del pernicioso “edonismo imprenditoriale” che talvolta regna fra i vertici di comando o di responsabilità delle aziende di rilievo.

Un quadro generalizzato che, di massima, presuppone almeno due fattori di rischio. Il primo, il più importante, è quello della disattenta manutenzione degli apparati tecnici, non sottovalutando l’usura dei delicati congegni che li rendono operativi in relazione alle caratteristiche tecniche e agli scopi del loro utilizzo. Il secondo, non meno importante, sta nella incerta “competenza” (spesso solo superficiale o approssimata) e nella insufficiente “esperienza” (di regola affidata al tempo) del personale addetto al loro impiego e alla loro funzionalità.  

È lapalissiano che il bravo “operatore”, il valente “tecnico”, il capace “lavoratore”, non sono frutto di improvvisazioni o di avventurismi operativi  essenzialmente mirati all’accrescimento del lucro e dei profitti.  Alla luce della sofisticata odierna tecnica organizzativa aziendale, i ruoli di ciascuno vanno attentamente predisposti, programmati, elaborati, gestiti, fornendo  al personale  la debita preventiva formazione professionale abbinata alle nozioni indispensabili per la sicurezza personale e collettiva.  

Non si può ammettere o giustificare il fatto che per guadagnare maggiormente si vogliano abbattere, più o meno artatamente, gli oneri derivanti dalla idonea formazione del personale o, peggio ancora, che si voglia “risparmiare” sulla funzionalità delle attrezzature, dei complessi macchinari e dei mezzi meccanici, magari trascurando l’ovvia usura delle varie loro parti.  Un andazzo di cose  che, oltre a quanto detto prima, si concatena spesso con la precarietà e l’insalubrità degli ambienti di lavoro, favorendo l’insorgere di tipiche patologie. 

Ai fini della sicurezza sul lavoro, in ogni caso, occorre valutare se si ha da fare con strutture  produttive di rispettabili dimensioni, di lavori a catena di montaggio, di impianti parzialmente o essenzialmente robotizzati, oppure di piccole aziende – talvolta artigianali – in cui prevale l’apporto del singolo lavoratore, basato sulla personale capacità e intuizione. 

Nel primo caso la piena responsabilità di quanto accade all’interno degli stabilimenti ricade, ovviamente, sui quadri direttivi e organizzativi degli stessi, responsabilità che non può essere disattesa da motivazioni di natura amministrativa o economica (contenimento o riduzione degli oneri gestionali, per incrementare il profitto), da sistemi vessatori di cottimo, da scarso  coordinamento settoriale, specie se il tutto è dovuto a trascuratezza, superficialità o incompetenza.  La vita umana non può essere messa in gioco da simili fattori di rischio.  

Nel secondo caso l’eventuale colpevolezza è da attribuire al titolare della ditta o dell’esercizio che non ha saputo prevedere ed evitare le svariate cause (o concause) che potrebbero determinare  gravi o mortali incidenti. Ci si riferisce agli impianti elettrici non a norma, alla alimentazione energetica a combustibili fossili non installata secondo precise regole di sicurezza, agli approssimati o inesistenti sistemi antiscoppio e antincendio, alla mancanza di idonee attrezzature protettive e di pronto soccorso. 

Ecco spiegato il perché è da stupidi attribuire la maggiore responsabilità di ciò che avviene nei luoghi di lavoro alla scarsa attuazione di “controlli ispettivi” da parte dei competenti organi istituzionali, quali l’INAIL, l’Ispettorato del Lavoro, le polizie locali. È opinione diffusa, oltretutto, che in pochi casi tale tipo di controlli (già parecchio distanziati nel tempo) sono solo di natura formale o sono ammorbiditi da tacite acquiescenze o da influenze più o meno pilotate. In ogni caso non sembra producente fare leva sulla consueta tattica della repressione “a campione” e in corso d’opera.  È come cercare l’ago nel pagliaio.

Occorrerebbe, viceversa, una decisa azione preventiva volta a qualificare sul nascere le aziende in cui quotidianamente operano gli indifesi prestatori d’opera che lavorano per guadagnarsi da vivere.   Occorrerebbe responsabilizzare maggiormente i titolari delle aziende (piccole, medie o grandi) pretendendo una sistematica e costante certificazione, redatta da abilitati tecnici, attestante gli indispensabili periodici controlli  funzionali di apparecchiature, attrezzature e impianti.  Ciò a prescindere dalla occorrente preventiva qualificazione degli addetti al loro uso.  Dovrebbe essere drasticamente evitato, ancora,  il ricorso a mano d’opera occasionale o di ripiego (spesso non messa in regola o addirittura impiegata “in nero”), sottopagata e avviata al lavoro senza preventiva esperienza. 

Le leggi in materia esistono già e traggono origine dal contenuto degli articoli 32 e 35 della Costituzione che riguardano la salute ed il lavoro.  

La normativa in vigore  si basa poi sui  DPR 547/55, DPR 303/56 e DPR 164/56, riguardanti la sicurezza dei macchinari, degli impianti e delle attrezzature, mentre il Decreto legge 626/94 si occupa della sicurezza dei lavoratori.  Vige anche il  “Testo Unico sulla Salute e Sicurezza nei luoghi di Lavoro”  – D.Lgs. 09/04/2008 n. 81 –  successivamente integrato dal Decreto Legge 03/08/2009  n. 106 in cui sono recepite le “Direttive” del Consiglio Europeo,  emanate  dal  giugno 1989 in poi,  “riguardanti la prevenzione sugli infortuni e sulle malattie professionali, sulla valutazione dei rischi, sulla necessità di eliminare i fattori di rischio, sulla protezione dei lavoratori che vanno formati ed informati”.

Da ultimo è intervenuto il governo Draghi con il decreto approvato nello scorso mese di ottobre, che prevede una stretta sulle imprese che non rispettano le misure di prevenzione e che ricorrono a lavoratori in nero, l’aumento di risorse e organico degli ispettori dell’Inail fino all’incremento dei Carabinieri che avranno il compito di occuparsi di vigilanza. 

Come si vede non mancano gli strumenti legislativi sufficienti e idonei. Occorre solo fare di tutto per farli rispettare e renderli efficaci.

Non sembra ammissibile intervenire  solo a “disastro avvenuto” solo per ricercare i “colpevoli”, per aprire dei “dossier giudiziari”, per avviare processi destinati a perdersi nel tempo.  Il tutto per salvare la faccia o per giustificarsi dinanzi all’indignazione dell’opinione pubblica.   

Gli organi istituzionali  preposti dovrebbero assicurasi delle condizioni ottimali di sicurezza nel lavoro già al momento stesso della concessione della relativa autorizzazione di inizio attività. Se non perseguono tale adempimento, se talvolta sono più che permissive per motivi vari o poco trasparenti, se hanno la presunzione di ritenere che ogni cosa funzioni  sol perché sulla carta esiste una legge che disciplina la materia, di certo non si può giustificarli mentre, di fatto, diventano corresponsabili, se non proprio conniventi, delle tragedie che frequentemente colpiscono il mondo del lavoro. 

I dati statistici ci fanno sapere che nell’anno in corso una media di tre lavoratori al giorno hanno perso la vita in incidenti mortali.  Si è quasi giunti alla soglia dei mille casi. Trattasi, peraltro, di  rilevamenti  “provvisori”, in quanto non ancora comprensivi dei casi di morte per contagio da Covid 19 contratto sui luoghi di lavoro o durante le ore di servizio. Le denunce di infortuni sul lavoro si aggirano su 500/mila circa,  superando di parecchio quelle relative agli anni decorsi.  

I sindacati protestano, il Governo esprime cordoglio e annuncia provvedimenti al riguardo, la Confindustria alza le barricate, la gente è attonita ma, presumibilmente, ogni cosa seguiterà a procedere come sinora è stato. 

Alla stregua di quanto occorrerebbe fare anche nell’ambito di altri settori basilari della comunità nazionale, non sarebbe male che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro la si smettesse di chiacchierare a vuoto, magari atteggiandosi a sapientoni tutto campo, e ci si desse da fare responsabilmente, da parte di chi detiene le redini di comando, per passare ai fatti facendo rispettare le norme esistenti ed estirpando, senza tentennamenti, la gramigna che intralcia la difesa e la crescita del tessuto sano della Nazione. 

Non è dai pulpiti che si risolvono i problemi.