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Il ruolo di moderazione della Corte costituzionale

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di Pasquale Pasquino

La Corte costituzionale italiana dal 1956, quando ha iniziato i suoi lavori, è stata uno dei cardini del sistema politico italiano, garantendone la moderazione. Questo termine va inteso qui e nel seguito di queste note, nel senso in cui esso veniva usato da Montesquieu, che nello “Spirito delle leggi” opponeva i governi “moderati” all’assolutismo; cioè la capacità dei primi di evitare estremismi e abuso del potere. Questa funzione è particolarmente importante anche nei regimi democratico-rappresentativi, dove il potere è in larga misura esercitato da maggioranze che sono ormai non solo espressione di una sola parte della società, ma in realtà della maggiore (e non tanto grande) minoranza della società, se si tiene conto del crescente astensionismo e di leggi elettorali, dette maggioritarie, che insieme a garantire in qualche misura governi stabili, trasformano minoranze di voti popolari in maggioranze di seggi in Parlamento.

In realtà la Corte costituzionale italiana è stata in grado di garantire la moderazione, nel senso appena esplicitato, grazie in larga parte alle norme che regolano la nomina dei giudici suoi membri. Grazie a queste e allo spirito di moderazioni esercitato dagli attori preposti alla nomina dei giudici. Come è noto i quindici membri, scelti per un mandato di nove anni non rinnovabile, devono essere tutti esperti giuristi. Essi sono nominati per un terzo dalle alte Corti (Cassazione, Consiglio di stato e Corte dei conti), per un terzo dal Presidente della Repubblica e per un terzo dal Parlamento, con una maggioranza che implica l’accettazione del candidato da parte non solo della maggioranza ma anche dell’opposizione.

I magistrati professionisti che hanno lavorato alla Corte hanno portato non solo la loro esperienza di giudici di lungo corso (si tratta infatti di scrivere delle “sentenze”), ma sono caratterizzati dalla provenienza di una carriera indipendente e in certo senso distante dalla politica di parte. Gli altri sono stati per lo più professori delle varie branche del diritto, scelti grazie alle loro competenze e alla loro reputazione accademica. Nel caso dei giudici nominati dal Presidente della Repubblica, in virtù della saggezza di coloro che hanno occupato e occupano quella posizione, si è trattato praticamente sempre di studiosi competenti e con posizioni moderate (di nuovo nel senso suddetto). Ciò è accaduto per lo più anche nel caso dei giudici scelti dai parlamentari.

La norma che impone la maggioranza qualificata, quindi l’accordo di almeno una parte dell’opposizione, ha fortunatamente spinto i partiti politici a convergere e scegliere candidati, certo come è inevitabile con sensibilità politiche diverse, ma non dei militanti partigiani, che l’opposizione, come è accaduto talvolta, ha rifiutato di approvare.

La qualità e la moderazione dei membri della Corte ha favorito il funzionamento il più possibile consensuale di un collegio di decisori che nella Camera di consiglio cerca di svolgere il ruolo che la Repubblica assegna loro: quella di organo che esercita un “potere neutro e regolatore” (l’espressione è di Benjamin Constant, con Montesquieu uno dei padri del liberalismo moderno tipico dell’Occidente) nei confronti delle maggioranze elette.

Questo potere, indipendente dalle parti politiche in competizione nella vita dei regimi democratico-rappresentativi, non può essere sotto il controllo delle maggioranze elettorali, poiché ha tra l’altro la funzione di garantire la possibilità dell’alternanza di queste al governo del paese. Ciò che in primo luogo caratterizza un regime democratico – alla differenza di regimi come quelli che esistono – con le loro specifiche differenze – in Russia, Cina, o Arabia Saudita – è la possibilità per chi governa di perdere le elezioni. Chi sa di poter diventare minoranza (che chiamiamo alternanza al potere) ha interesse a garantire un sistema nel quale nessuna maggioranza abbia un potere senza limiti.

La Corte può peraltro svolgere questo ruolo di moderazione se i suoi membri sono in grado di proteggere il regime dell’alternanza e i diritti dei cittadini se cioè rappresentano questo fine che la Costituzione assegna loro invece che una parte politica, la quale ha legittimità a cercare di imporsi nella competizione elettorale. Nel momento in cui il Parlamento è chiamato a scegliere ben quattro membri della Consulta è importante per il bene di tutte la parti politiche che vengano scelti membri in base al più ampio consenso possibile evitando in particolare la lottizzazione delle nomine. Di tutto il paese ha bisogno fuorché di una micro-terza camera partigiana. Lo spirito consensuale che ha caratterizzato quasi sempre il lavoro e le decisioni della Corte costituzionale che siede di fronte al Quirinale sulla collina più alta di Roma va preservato perché è nell’interesse non solo dei cittadini ma di tutte la parti politiche.

Tra il 1946 e il 1948 l’Italia ha fatto due scelte fondatrici della sua identità. La prima, attraverso un referendum popolare, ha dato origine alla forma repubblicana, ripudiando la monarchia; la seconda, fatta dalla Assemblea costituente, ha dato al paese una costituzione rigida, cioè un ordinamento che impone limiti al potere delle maggioranze elette. La corte è il guardiano di questo limite.

Questo è peraltro oggetto di interpretazione anche tenuto conto dell’evoluzione culturale del paese e dell’opinione pubblica. Solo la deliberazione consensuale dei giudici costituzionali può essere garanzia della natura limitata del potere delle maggioranze e a questo fine la moderazione dei suoi membri è una condizione essenziale, nel comune interesse di tutti. Nel prossimo futuro gli attori politici eletti dovranno dar prova nella scelta dei giudici costituzionali della loro comune fedeltà alla scelta dei padri fondatori a favore di un regime di potere diviso e limitato.