Dopo sette anni ritorna il cantautore genovese che De Andrè aveva definito “il più bravo”. Con questo nuovo lavoro si contraddistingue per l’uso dell’elettronica che in ogni caso non ha limitato l’impiego di archi, fiati, cordofoni e percussioni
di Gabriele Fazio – Fonte: AGI
“Il grido della fata” segna il ritorno di Max Manfredi, cantautore della scuola genovese, il più bravo addirittura, secondo quanto dichiarò in un’intervista del 1994 Fabrizo De Andrè. L’ultimo suo album risale infatti al 2014, si intitolava “Dremong” e mostrava uno stile progressive con influenze di world music.
Con questo nuovo lavoro si contraddistingue per l’uso dell’elettronica, “ce n’è una presenza ampia e variegata”, scrive in una nota, che in ogni caso non ha limitato l’impiego di archi, fiati, cordofoni e percussioni.
Si passa quindi dal violino al koto elettrico per dodici brani caratterizzati dalla poetica distintiva dell’artista genovese che spiega: “datare i brani di questo disco è impossibile, da tanto hanno sopravvissuto e per quanto sono stati reinventati. Vengono in mente i fossili di insetti o impronte conservati nell’ambra. Cosa c’è di più nuovo di un fossile riscoperto? Ancora più difficile sarà, per l’ascoltatore, distinguere i brani vecchi da quelli nuovi”.
Effettivamente l’ascolto riporta davvero a un’era che non c’è più ma della quale sentiamo un’affannosa nostalgia. Non si tratta di concept album, “non ne ho mai fatto uno”, spiega Max Manfredi, “ma tra queste canzoni si respira un’aria di buon vicinato, come tra i panni stesi dai dirimpettai”, altra caratteristica del cantautorato che fu, quello non appiattito dall’incidenza del computer, delle mega produzioni, di giovani musicisti da classifica che non sono in grado di piazzare due accordi di fila su un pentagramma vuoto.
Roberto Vecchioni dice di lui: “Uno che ha bazzicato col romanzo, con la poesia, col dialettale, con la canzone e senza, è uno spiritoso, uno capace, uno che non posso nemmeno limitare con il termine di cantautore: è un intellettuale”, ed è proprio quell’intellettualità, anche se mai dichiaratamente sbandierata, che si respira in tutto il disco, un disco che non racconta una sola storia, ma ne racconta tante, tutte però magistralmente legate da un unico filo conduttore, la poesia trovata negli angoli più assolati della nostra quotidianità, una bellezza antica mista a un’attenzione maniacale per la composizione armonica.
“Non avrei nemmeno pensato – dice Max Manfredi – di fare il mestiere del cantautore. Anche se dubito che avrei trovato un lavoro ‘onesto’. La laurea in tedesco l’ho presa, ma non l’ho nemmeno ritirata dalla segreteria. Invece sono andato al Club Tenco e lì ho scommesso sul mio futuro, nel senso che ho deciso di non fare altro se non le cose cui tenevo, e che so di poter fare bene, indipendentemente dai buoni esempi e dai molti cattivi. Se io poi abbia vinto, non lo so, diciamo che finora c’è stato un bel pareggio”.
(Nella foto: Il cantautore genovese Max Manfredi)