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Il problema è capire chi pagherà i danni del clima che cambia

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BUCHI NELL’ACQUA Giulio Boccaletti

Nell’ultima settimana l’italia è stata investita da temporali di intensità inusuale per il nostro paese. L’ultimo solo in ordine ti tempo è stato il nubifragio che ha investito Milano. Lampi, tuoni, vento, grandine, pioggia. Soffitti che cedono all’acqua, lampadari che si riempiono. E poi gli incendi, che inevitabilmente ci colpiranno dove non ha piovuto, come del resto sta succedendo in Grecia. Non siamo abituati.
La violenza dell’evento di Milano è sorprendente per noi, ma non per l’atmosfera che è capace di ben più violenza. Storicamente questi eventi erano talmente rari da potersene dimenticare. E invece ora sembra un continuo rincorrersi di apocalissi localizzate, da fiumi che scorrono per le strade cittadine a pinete in fiamme a matrimoni interrotti da grandinate che bucano i tendoni del rinfresco in giardino. Nella violenza dei fenomeni poi si scopre la nostra vulnerabilità. Vigili del fuoco che devono intervenire perché l’arredo urbano diventa un’arma contundente nelle mani di vento che supera i cento chilometri orari e così via.
Le ragioni contingenti dei disastri dell’ultima settimana non sono un mistero. L’alta pressione africana ha riscaldato il paese. Dal Mediterraneo in preda a una febbre, una pioggia invisibile dal basso verso l’alto ha caricato l’atmosfera di vapore. Appena si è inserita una perturbazione da nord, mescolando aria fredda con un catino di aria calda e carica di acqua, si sono scatenati i temporali. L’acqua, quando transita di fase è un carburante potentissimo. Gli abnormi chicchi di grandine sono il sintomo di un enorme rilascio di energia che può poi alimentare trombe d’aria e altro.
E’ lo stesso principio che produce le famose e distruttive trombe d’aria delle pianure americane, quelle che costringono le persone a costruirsi rifugi, o alimenta gli uragani. E’ la stessa atmosfera, la stessa fisica. E’ solo che da noi questi fenomeni erano climaticamente impensabili. Se le condizioni climatiche, le condizioni medie sulle quali si sviluppano i fenomeni meteorologici, cambiano, allora anche pioggia e vento possono rispondere in modo diverso. Ecosì fanno. Non è una novità.
Filippiche sul clima a parte (appropriate, badate, ma evidentemente inefficaci visto che continuiamo a stupirci), val la pena chiedersi che fare. E qui dobbiamo renderci conto che nei prossimi anni – qualsiasi sia il nostro destino climatico di lungo periodo, qualsiasi sia la nostra capacità di ridurre la concentrazione di gas che alterano le condizioni medie del clima del pianeta – questo treno viaggia su rotaie: nei prossimi due-tre decenni, le cose continueranno a cambiare. Questi eventi vanno gestiti, non osservati con stupefatta indignazione, perché continueranno a succedere.
In altre parti del mondo, dove fenomeni atmosferici violenti sono già molto più comuni che da noi, come la Florida, periodicamente sottoposta a uragani, il Giappone che con i tifoni ha una consuetudine quasi familiare, che si fa? Di cosa si discute? Su tre cose ci si concentra.
La prima, è quali difese si possano costruire per proteggersi. La risposta è: poche. Si possono mettere in sicurezza case o crescere in città alberi meglio adattati. Si possono costruire sistemi di gestione delle acque di scolo che siano in grado di gestire flussi enormi, ma non c’è società al mondo che sia in grado di difendersi sempre e pienamente da fenomeni atmosferici che dispiegano appieno la propria forza. Si deve fare anche altro.
Devono cambiare i comportamenti. Le persone devono imparare a stare in casa quando fuori c’è tempesta, lontano da alberi, non guidare nei sottopassaggi durante un’alluvione e così via. In un mondo più pericoloso, è responsabilità di tutti capire i rischi e prevenire.
E infine c’è la questione annosa di chi paga. In Italia, abituati a un clima benigno nel quale era legittimo considerare il danno atmosferico come un evento e ingestibile ci si è abituati a esigere un pagamento dalla collettività. Ma una sempre maggiore frequenza porrà la questione, legittima, di chiedersi fino a che punto si possa fare affidamento sulla collettività.
Come in Florida e in Giappone, il problema di chi copre le perdite di vulnerabilità sempre più evidenti sarà sempre più un problema politico. La patata bollente passerà dalla collettività alle spalle di coloro che possono e quindi devono accollarsi il costo dei loro rischi, con conseguente e inevitabile crescita di assicurazioni e altre coperture finanziarie.
Certo, costa. Certo, è un peso sul reddito di tutti e un freno sulla produttività. Per non parlare degli effetti sulla continuità di impresa. Certo, sarebbe meglio non doverlo fare. Ma questo è ciò che il cambiamento climatico fa. La retorica apocalittica a volte nasconde la pratica costosa e inevitabile di gestire il cambiamento. Poi viene un’altra tempesta e ci riporta alla realtà.