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IL PECCATO DI FACEBOOK

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di Adrienne Lafrance ·

La sera del 6 gennaio Zuckerberg si disse “rattristato da questa violenza di massa”. I dipendenti di Facebook però non erano tristi. Erano arrabbiati, ed erano molto arrabbiati soprattutto con Facebook Documenti sorprendenti: il loro volume è incredibile, e lasciano poco spazio ai dubbi sul ruolo cruciale avuto da Facebook nel promuovere la causa dell’autoritarismo in America e nel mondo
“La storia non ci giudicherà con gentilezza”. I documenti interni dell’azienda mostrano come il social network abbia messo in pericolo la democrazia americana. E i suoi stessi dipendenti lo sapevano. La fame di potere sul mercato e la confusione tra libertà di parola e amplificazione algoritmica. Un’ inchiesta
Prima di dirvi cosa è successo esattamente alle 14.28 di mercoledì 6 gennaio 2021 alla Casa Bianca – e la reazione molto precisa, a quasi quattromila chilometri di distanza, a Menlo Park, in California – è necessario ricordare il caos di quel giorno, l’esu – beranza della folla che è diventata violenza, e come cose diverse sembrassero accadere tutte insieme. Alle 14.10, un microfono acceso ha catturato la voce di un assistente del Senato in preda al panico: “I manifestanti sono nell’edificio”, ed è cominciata l’evacuazione di entrambe le camere del Congresso. Alle 14.13, il vicepresidente Mike Pence è stato portato fuori dall’aula del Senato e dalla Camera. Alle 14.15 si sono sentiti dei cori fragorosi: “Impiccate Mike Pence! Impiccate Mike Pen
ce!”. Alla Casa Bianca, il presidente Donald Trump guardava l’insurrezione in diretta tv. Lo spettacolo lo eccitava. Ciò ci porta alle 14.28, il momento in cui Trump ha condiviso con i suoi 35 milioni di follower su Facebook un messaggio che aveva appena twittato: “Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare ciò che avrebbe dovuto per proteggere il nostro paese e la nostra Costituzione… Gli Stati Uniti chiedono la verità!”.
Persino per gli americani abituati agli sfoghi del presidente, l’attacco di Trump al suo stesso vicepresidente – in un momento in cui Pence era braccato dalla folla che Trump aveva mandato al Campidoglio – apparve come una cosa completamente diversa. I dipendenti di Facebook, inorriditi, si affrettarono a mettere in atto misure di emergenza, misure da adottare perché la piattaforma non venisse utilizzata ulteriormente per incitare alla violenza. Quella sera, Mark Zuckerberg, fondatore e ceo di Facebook, pubblicò un messaggio sulla chat interna di Facebook, chiamata Workplace, sotto il titolo “Employee FYI”.
“Questo è un momento buio per la storia della nostra nazione”, ha scritto Zuckerberg, “e so che molti di voi sono spaventati e preoccupati per quello che sta accadendo a Washington. Sono personalmente rattristato da questa violenza di massa”.
I dipendenti di Facebook però non erano tristi. Erano arrabbiati, ed erano molto arrabbiati soprattutto con Facebook. Il loro messaggio era chiaro: questa è colpa nostra.
Il Chief Technology Officer Mike Schroepfer chiese ai dipendenti di “tenere duro” mentre l’azienda organizzava una risposta. “Abbiamo tenuto duro per anni”, disse una persona. “Dobbiamo esigere più azione dai nostri capi. A questo punto, la sola fiducia non è sufficiente”.
“Con tutto il rispetto, davvero non abbiamo avuto abbastanza tempo per capire come gestire tutto questo senza contribuire alla violenza?”, rispose un altro membro dello staff. “Abbiamo alimentato questo fuoco per molto tempo e ora non dovremmo essere sorpresi che sia fuori controllo”. “Sono stanco di luoghi comuni; voglio azioni concrete”, scrisse un altro membro dello staff. “Non siamo un’entità neutrale”.
“Uno dei giorni più bui nella storia della democrazia e dell’autogoverno”, scrisse ancora un altro membro. “La storia non ci giudicherà con gentilezza”.
I dipendenti di Facebook hanno capito da tempo che la loro azienda mina le norme e gli equilibri democratici in America e in tutto il mondo. Le ipocrisie di Facebook e la sua fame di potere e di dominio del mercato non sono segrete. Né lo è la confusione dell’azienda tra libertà di parola e amplificazione algoritmica. Ma gli eventi del 6 gennaio si sono dimostrati per molte persone – compresi molti dipendenti di Facebook – un punto di rottura.
L’atlantic ha avuto modo di esaminare migliaia di pagine di documenti di Facebook, tra cui conversazioni interne e ricerche condotte dalla società, dal 2017 al 2021. Frances Haugen, la whistleblower ed ex ingegnere di Facebook che ha testimoniato davanti al Congresso all’inizio di ottobre, ha presentato prima della sua testimonianza una serie di rivelazioni alla Sec ( la versione americana della Consob) e al Congresso. Versioni ridotte di questi documenti sono state ottenute da un consorzio di più di una dozzina di agenzie stampa, tra cui l’atlantic. I nomi dei dipendenti di Facebook sono per lo più oscurati.
I documenti sono sorprendenti per due motivi: primo, perché il loro volume è incredibile. Secondo, perché questi documenti lasciano poco spazio ai dubbi sul ruolo cruciale di Facebook nel promuovere la causa dell’autorita – rismo in America e nel mondo.
Adrianne Lafrance è executive editor dell’atlantic ed ex direttrice di Atlantic. com. Prima di lavorare per questa celebre rivista americana ha pubblicato su altre testate numerose inchieste su politica, tecnologia e media. E’ una grande esperta di estremismo online. L’atlantic è una delle testate che ha avuto accesso ai Facebook Papers.
L’autoritarismo precede l’ascesa di Facebook, naturalmente. Ma Facebook rende molto più facile per i leader autoritari vincere. I documenti di Facebook mostrano che i dipendenti hanno più volte lanciato allarmi sui pericoli posti dalla piattaforma: come Facebook amplifica l’estre – mismo e la disinformazione, come incita alla violenza, come incoraggia la radicalizzazione e la polarizzazione politica. E più volte i membri dello staff fanno i conti con i modi in cui le decisioni di Facebook alimentano questi danni, e supplicano il management di fare di più. E più volte, dicono i dipendenti, i capi di Facebook li ignorano. Al tramonto del 6 gennaio 2021, l’assedio era stato spezzato, anche se non senza vittime. Il sindaco di Washington aveva emesso un coprifuoco in tutta la città e la Guardia nazionale pattugliava le strade. Facebook annunciò che avrebbe bloccato l’account di Trump, impedendogli di fatto di postare sulla piattaforma per 24 ore.
“Pensate davvero che 24 ore siano un divieto significativo?”, scrisse un dipendente di Facebook su una bacheca interna, per poi riferirsi, proprio come altri, agli anni di fallimenti e di inazione che avevano preceduto quel giorno. Come ci si aspetta che possiamo ignorare quel che accade quando il management preferisce servire gruppi che incitano la violenza come accaduto oggi invece che ricerche basate sui dati? I dipendenti di ogni settore hanno fatto la loro parte per indicare i cambiamenti e i miglioramenti possibili per la piattaforma, ma sono stati respinti. Potete darci una ragione per cui possiamo aspettarci che questo cambi in futuro”.
La domanda era senza punto interrogativo. L’impiegato sembrava già sapere che non ci sarebbe stata una risposta soddisfacente.
Facebook ha poi esteso il ban a Trump almeno fino alla fine del mandato presidenziale, e poi, quando l’oversight Board ha deciso di non imporre un divieto indefinito, ha esteso il divieto temporaneo fino al 7 gennaio 2023. Ma per alcuni dipendenti di Facebook, questo divieto su Trump arrivava ridicolmente in ritardo. Facebook ha finalmente agito, ma per molti nell’azienda era troppo poco e troppo tardi. Per mesi, Trump aveva incitato l’insurrezione, in bella vista, su Facebook.
Facebook ha respinto l’allarmismo dei propri dipendenti in vari modi. Un portavoce mi ha detto che una delle tattiche più intelligenti è stata quella di sostenere che i dipendenti che lanciavano allarmi sui danni fatti dal loro datore di lavoro stavano semplicemente godendo della “cultura molto aperta” di Facebook, in cui le persone sono incoraggiate a condividere le loro opinioni. Questa posizione permette a Facebook di rivendicare trasparenza ignorando la sostanza delle denunce, e quel che le denunce implicano, cioè che molti dipendenti di Facebook sono convinti che la loro azienda operi senza una bussola morale.
“I dipendenti hanno insistito a gran voce per mesi per cominciare a trattare i politici di alto livello nello stesso modo in cui ci trattiamo a vicenda sulla piattaforma”, ha scritto un dipendente nella chat del 6 gennaio. “Questo è tutto ciò che chiediamo… Oggi è stato tentato un colpo di stato contro gli Stati Uniti. Spero che le circostanze, la prossima volta che ci confronteremo, non saranno ancora più tragiche”.
Torniamo indietro di due mesi, al 4 novembre 2020, il giorno dopo le elezioni presidenziali. L’esito delle elezioni era ancora sconosciuto quando un attivista politico trentenne creò un gruppo su Facebook chiamato “Stop the Steal”, fermate la ruberia. “I democratici stanno tramando per minare il diritto di voto e annullare i voti dei repubblicani”, si legge nel manifesto del gruppo. “Sta a noi, il popolo americano, combattere e porre fine a tutto questo”. Nel giro di poche ore, “Stop the Steal” prese a crescere a un ritmo sorprendente. A un certo punto aggiungeva 100 nuovi membri ogni 10 secondi. Ben presto diventò uno dei gruppi con un tasso di crescita più veloce nella storia di Facebook.
Quando “Stop the Steal” si diffuse, i dipendenti di Facebook iniziarono a scambiarsi messaggi sulla chat interna, esprimendo ansia per il loro ruolo nella diffusione della disinformazione elettorale. “Non solo non facciamo niente per la disinformazione elettorale che si amplifica nei commenti”, un impiegato ha scritto il 5 novembre, “noi li amplifichiamo ancora di più e diamo loro una diffusione più ampia. Perché?”.
A quel punto, meno di 24 ore dopo la creazione del gruppo, “Stop the Steal” era arrivato a 333.000 membri, e l’amministratore del gruppo non riusciva a tenere il passo con il ritmo dei commenti. I dipendenti di Facebook erano preoccupati che i membri di “Stop the Steal” stessero incitando alla violenza, e il gruppo arrivò all’attenzione dei dirigenti. Facebook, a suo merito, prontamente chiuse il gruppo. Ma oggi sappiamo che “Stop the Steal” aveva già raggiunto troppe persone, troppo velocemente, per essere contenuto. Il movimento è quindi saltato da una piattaforma all’altra. E anche quando il gruppo è stato rimosso da Facebook, è rimasto un nucleo cruciale per coordinare l’attacco al Campidoglio.
Dopo che il più noto gruppo Facebook “Stop the Steal” è stato smantellato, sono sorti gruppi di imitatori. Per tutto il tempo il movimento è stato incoraggiato dal presidente Trump, che ha postato su Facebook e Twitter – a volte una dozzina di volte al giorno – la sua denuncia, sempre la stessa: lui aveva vinto e Joe Biden aveva perso. Anche la sua richiesta era sempre la stessa: era giunta l’ora che i suoi sostenitori combattessero per lui e per il loro paese.
Mai prima d’ora nella storia del dipartimento di Giustizia un’indagine è stata tanto aggrovigliata con i social media. Facebook è onnipresente nei documenti giudiziari correlati, si intreccia alle storie di come le persone sono state coinvolte inella rivolta, per riapparire poi nel bilancio finale del caos e dello spargimento di sangue. Più di 600 persone sono state accusate di reati in relazione al 6 gennaio. I documenti del tribunale specificano anche come Facebook abbia fornito agli investigatori informazioni identificative sui propri utenti, così come i metadati che gli investigatori hanno utilizzato per confermare la posizione dei presunti colpevoli quel giorno. Presi nel complesso, i documenti giudiziari del 6 gennaio sono essi stessi un feed di Facebook pieno di selfie postati sulle applicazioni di Facebook nel corso dell’insurrezione.
In un freddo e luminoso mercoledì, settimane dopo l’insurrezione, quando finalmente arrivarono al Russell Dean Alford’s Paint & Body Shop a Hokes Bluff, in Alabama, gli agenti dell’fbi dissero che la reazione di Alford fu questa: “Mi chiedevo quando sareste arrivati. Immagino che abbiate visto i video sulla mia pagina Facebook”. Alford si è dichiarato non colpevole delle quattro accuse federali, tra cui l’ingresso consapevole in un edificio in cui era vietato l’accesso e il comportamento atto a turbare l’ordine pubblico.
Non solo i rivoltosi trasmettevano in livestreaming i loro crimini mentre li commettevano, ma i registri del tribunale federale mostrano che chi è stato incriminato ha passato molte settimane ad alimentare la violenza su Facebook con post come: “NESSUNA SCUSA! NESSUNA RITIRATA! NESSUNA RESA! PRENDETE LE STRADE! RIDATECI IL NOSTRO PAESE! 1/ 6/ 2021= 7/ 4/ 1776” e “Tirate fuori le palle e riprendetevi il vostro governo!”.
Quando si mettono insieme le storie che hanno attraversato il periodo tra l’elezione di Joe Biden e il suo insediamento, è facile vedere quanto Facebook sia stato strumentale all’attac – co del 6 gennaio. ( Un portavoce mi ha detto che la nozione che Facebook abbia giocato un ruolo strumentale nell’insurrezione è “assurda”).
Considerate, per esempio, il caso di Daniel Paul Gray. Secondo la dichiarazione giurata di un agente dell’fbi, Gray ha pubblicato diversi post su Facebook nel mese di dicembre a proposito dei suoi piani per il 6 gennaio, commentando un post: “Il 6 una cazzo di fiumana di noi starà andando a Washington per chiudere l’intera città. Sarà pazzesco, non vedo letteralmente l’ora”. In un messaggio privato, si è vantato di essersi appena unito a una milizia e ha anche inviato un messaggio dicendo: “Sarete a Washington il 6 come Trump ci ha chiesto di fare?”. Gray è stato poi incriminato con nove capi d’imputazione, tra cui ostruzione di un procedimento ufficiale, partecipazione ad atti di violenza, ingresso violento, aggressione e ostruzione delle forze dell’ordine. Si è dichiarato non colpevole.

fonte: il foglio quotidiano