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Che dire del nuovo codice degli appalti?
Il profilo funzionale originario della disciplina dei pubblici appalti era in sintesi quello di fare le opere, bene, presto, alle migliori condizioni e con la massima trasparenza negli affidamenti.
Non c’è dubbio che, nel tempo, per una serie di ragioni, diversi principi fondanti la disciplina degli appalti si siano progressivamente dispersi. Ed è innegabile sotto questo profilo lo sforzo del nuovo codice nel tentare di riaffermarli. Il problema tuttavia è che, perché un princìpio si affermi, non basta enunciarlo, ma occorrono due cose: la prima è che il corpo dell’intera disciplina si ispiri ad esso o meglio che i principi, piuttosto che essere enunciati, siano ricavabili dal corpo normativo; la seconda è che, quanto meno nello stesso corpo normativo che enuncia un principio, non vi siano istituti o norme che lo stravolgano o tradiscano in modo significativo. E mi sono dovuto arrendere nel constatare che pochi sono i princìpi declinati dal codice che si siano salvati nel confronto con la disciplina introdotta.
Partiamo dal principio del risultato, un principio che mi piace perché evoca l’originario spirito che pervadeva la legislazione delle opere pubbliche. Innanzitutto, un principio andrebbe enunciato nei suoi contenuti, non essendo sufficiente declinarlo mediante rinvio a principi costituzionali, perché così facendo vuol dire che non si è aggiunto molto in termini concreti.
In secondo luogo, nell’agganciare il principio di risultato all’art. 97 della Costituzione, ci si è dimenticati l’imparzialità amministrativa, recuperando dall’art. 97 solo buon andamento, efficienza ed efficacia. Quando invece imparzialità e buon andamento sono una endiadi che non può essere strappata. E il surrettizio ridimensionamento del principio di imparzialità viene portato anche sul piano del sindacato esercitato dal giudice amministrativo con l’art 1 comma 4 del codice, ove è stabilito che il potere discrezionale deve essere esercitato dando valenza prioritaria al principio del risultato, ovverosia alla volontà contrattuale della pubblica amministrazione. Operazione complessa e molto discutibile con evidenti rischi di derive autoritarie nell’interpretazione del principio del risultato per non aver considerato l’indissolubilità del matrimonio tra buon andamento e imparzialità dell’amministrazione.
Il paradosso è poi che lo stesso codice non sembra curarsi del principio di risultato in uno o più passaggi significativi e oltre al principio di risultato si finiscono per dimenticare principi altrettanto importanti, che hanno nei secoli guidato il legislatore e l’interprete in questo settore e che hanno contribuito anch’essi (loro sì) al cosiddetto risultato.
Si pensi alla distinzione fra la fase dell’evidenza pubblica e quella della esecuzione del contratto, con tutti i riflessi ormai consolidati e pacifici in tema di giurisdizione e si guardi all’articolo 122 del nuovo codice che consente alla stazione appaltante di risolvere un contratto già stipulato, se solo si avvede che l’appaltatore andava escluso dalla gara; determinando un vulnus alla certezza del diritto e un problema ai fini del riparto di giurisdizione.
La risoluzione era sì asservita alla funzione pubblica, ma si ricollegava pur sempre a patologie del rapporto di appalto, secondo uno schema prevalentemente privatistico di reazione all’inadempimento e non si poneva dunque un problema di giurisdizione. Problema che oggi si pone perché la risoluzione si basa sulla riedizione virtuale della fase di evidenza pubblica con l’ulteriore conseguenza dell’ampliarsi della platea degli interessati al giudizio se questo si svolge difronte al Giudice Amministrativo. Non più solo i contraenti, secondo lo schema tipicamente civilistico, ma chiunque abbia interesse alla risoluzione.
Per anni il processo amministrativo è stato ingiustamente ascritto tra le principali cause del ritardo nella realizzazione dei pubblici appalti. Le ragioni dei ritardi sono ben altre ma sull’onda emotiva di questa credenza popolare si è costruita l’introduzione di riti abbreviati e di termini giugulatori che talvolta compromettono il
diritto di difesa.
Che senso ha più tutto questo se in qualunque momento si può rimettere in discussione l’esito di una gara? E che fine fa l’inoppugnabilità dell’atto? Una fine misera se solo si pensa che la norma in questione non richiama nemmeno i limiti che l’ordinamento frappone all’esercizio dell’autotutela, l’interesse pubblico attuale e il rispetto del termine di dodici mesi. E anzi stabilisce espressamente che alla riedizione postuma della gara e alla conseguente risoluzione del contratto possa darsi corso senza limiti di tempo. Il tutto con buona pace del principio del risultato e di quello dell’affidamento. Sappiamo bene che la direttiva europea contiene l’indicazione della risoluzione in corso d’opera, ma non ci sarebbe voluto molto, per sterilizzarne gli effetti così disfunzionali, a rendere lo strumento compatibile con il nostro sistema e i suoi princìpi.
Ma abbiamo una naturale propensione alla pedissequa osservanza delle direttive solo quando recano danno al nostro paese.
Sorte analoga viene riservata al principio di fiducia che, seppur laconicamente, è declinato anche come fiducia negli operatori economici e non solo (come invece più volte ribadito) nell’operato dei pubblici funzionari. Il codice fa proprio l’indirizzo della giurisprudenza, in base al quale si ha illecito professionale anche per le semplici contestazioni di reato che nulla hanno a che vedere con l’attività dedotta in contratto dalla stazione appaltante. Attribuisce rilevanza normativa alla sola richiesta di rinvio a giudizio per fatti avulsi dallo specifico affidamento, o meglio anche alla semplice contestazione del reato, in relazione a tutti reati che, se accertati definitivamente, comportano l’esclusione.
L’effetto è quello di sollecitare nella migliore delle ipotesi gli operatori a dar corso a misure di self cleaning, rimuovendo dipendenti o amministratori quando ancora nessuno sa se sono colpevoli, e soprattutto di costringere le stazioni appaltanti ad un giudizio prognostico sulla colpevolezza dell’indagato, prescindendo del tutto dal materiale probatorio, ignoto all’amministrazione, e attribuendo rilevanza a fatti non
ancora accertati penalmente, che dunque non avrebbero rilevanza giuridica alcuna stando alle regole del diritto penale. Il tutto in spregio ai più elementari principi posti dall’ordinamento a tutela del soggetto cui i fatti sono ipoteticamente ascritti, ovverossia il rigore della prova e la presunzione di non colpevolezza, oltre al diritto ad essere giudicati dal giudice naturalmente competente, ovverossia da chi è culturalmente attrezzato per un certo tipo di valutazioni e offre al contempo garanzia di imparzialità. Quanto tutto questo, oltreché tradire la fiducia così enfaticamente affermata, pregiudichi il risultato, è fin troppo evidente se solo si pensa al contenzioso che ne può derivare.
Gli appalti sono diventati l’occasione per le pari opportunità, per le scelte ecologiche, per la non mobilità del lavoro (clausole sociali), per combattere le irregolarità contributive, quelle fiscali e le presunte corruzioni. Sacrosanti gli obiettivi quanto sbagliato il sistema scelto per raggiungerli.
Tutto ciò che l’ordinamento non è riuscito a fare prima, in modo ordinato, a mezzo di soggetti competenti e con le garanzie necessarie, viene occasionalmente ed in modo disorganico perseguito a mezzo degli appalti.
Le gare pubbliche diventano l’imbuto dove versare all’ultimo stadio tutto ciò che non si è riuscito ad ottenere a regime. Si pensi alle irregolarità fiscali e contributive; una possibile questione bagattellare tra stato e contribuenti diventa un problema esplosivo se travasato all’interno di procedimenti comparativi, dove si inseriscono gli interessi dei terzi partecipanti e dunque prolifera il contenzioso. Si pensi, ancora, all’esclusione dalle gare per fatti penalmente rilevanti, con conseguente violazione dei principi costituzionali e allargamento a dismisura della discrezionalità che rappresentano una miscela esplosiva per incentivare il contenzioso e ritardare le opere.
Le procedure di gara altro non sono che un filtro per l’accesso agli affidamenti, allo stesso modo con il quale un vigile urbano può essere preposto a limitare l’accesso ad una via a transito limitato ai soli soggetti autorizzati.
Cosa accadrebbe se gli fosse consentito o anzi richiesto di sindacare il ricorrere dei presupposti sulla base dei quali si è ottenuto il permesso di transito o addirittura la concreta idoneità alla guida del soggetto fermato, ancorché dotato di regolare patente di guida, o addirittura di verificare lo stato di usura degli pneumatici?
Anche se nessuno ha mai dubitato del fatto che alla regolarità dei permessi provvedano altri uffici ed al rilascio della patente di guida altri ancora, per non dire dello stato delle gomme. Attribuire questi compiti al vigile urbano significherebbe solo consegnarli a mani incapaci di svolgerli e creare un ingorgo all’ingresso della via a traffico limitato, che sconsiglierebbe chiunque dal tentare di percorrerla.
Se ci rassegnassimo all’idea che, in un paese ordinato, alla regolarità contributiva pensa l’INPS, a quella fiscale l’Agenzia delle Entrate e ai comportamenti che possono
assumere rilevanza penale provvede il giudice, peraltro dotato anche di poteri interdizione, forse potremmo pensare a disciplinare le opere e i servizi in modo che opere e servizi abbiano luogo davvero, occupandoci delle prestazioni oggetto di affidamento e senza la pretesa di rimettere ossessivamente in discussione, ad ogni occasione utile, la regolarità della “patente” di chi dette prestazioni è chiamato ad eseguire.
Ho apprezzato lo sforzo dei redattori del codice e anche le iniezioni di buon senso operate rispetto all’impianto previgente, come la nuova disciplina delle varianti; ed ho altresì compreso la difficoltà di scardinare il complesso di norme stratificate nel tempo.
Abbiamo fatto passi in avanti, ma restano cionondimeno senza risposta due domande che un giorno qualcuno si vorrà porre prima di prendere la penna in mano.
Quali princìpi generali vogliamo riaffermare stando poi attenti a non sfaldarli nella contraddizione delle singole disposizioni? Quale anima deve avere il corpo di norme da introdurre?
Perseguire il fine di realizzare le opere o perseguire altri fini anche a costo di non realizzarle mai?
Di Stefano Vinti – fonte: ilriformista.it