di Emanuele Ragnisco
In questo primo scorcio del XXI secolo, il sistema di governance internazionale, quello lentamente codificato all’indomani del secondo conflitto mondiale e, più recentemente, nel periodo post guerra fredda, è sottoposto a una serie di sfide e tensioni del tutto inedite. Storia e natura si stanno rispettivamente riappropriando di loro specifiche prerogative nei confronti di un’umanità inebriata da un eccesso di fiducia nelle proprie capacità.
L’11 settembre 2001, con l’onda lunga delle interminabili guerre statunitensi in Asia occidentale, e la crisi finanziaria del 2008 hanno progressivamente inflitto un duro colpo alle fino ad allora indiscusse credibilità ed egemonia globale degli Stati Uniti d’America. La pandemia e il cambiamento climatico hanno messo l’umanità dinanzi a rischi sanitari e ambientali senza precedenti e alla necessità di rivedere il modello di vita e di sviluppo e il connesso sistema produttivo in favore di una transizione verde che, conseguentemente, si sta riflettendo sulle catene di valore e le fonti di approvvigionamento energetico. Si va inoltre lentamente profilando una disarticolazione tra quella parte di umanità, il cosiddetto Occidente, che per cinquecento anni ha dominato il sistema internazionale, e il resto del mondo. In una ipersemplificazione: Global West contro Global Rest. Decenni di unipolarismo caratterizzati da una selettiva, quanto indiscutibile, guida statunitense stanno lentamente cedendo il passo a quello che si spera sia un autentico multipolarismo.
L’insieme di queste sfide è stato brillantemente sintetizzato con il termine “policrisi”,1 uno scenario in cui la risultante della loro interazione creerebbe una situazione assai peggiore della loro semplice sommatoria. Uno dei risultati più preoccupanti di questa interazione è rappresentato da tensioni crescenti tra le grandi potenze. La geopolitica, che per alcuni decenni era sembrata soppiantata dalla forza travolgente della globalizzazione, si sta ora riappropriando del suo ruolo sul palcoscenico della Storia.
L’ex segretario al Tesoro statunitense Larry Summers ha definito l’attuale periodo come «l’insieme di sfide più complesse, disparate e trasversali che io possa ricordare nei 40 anni in cui ho prestato attenzione a questi temi». Un recente studio commissionato dal Pentagono alla Rand Corporation2 in merito alla rivalità sino-americana è arrivato a definire il mondo attuale come “neo-medievale”, essendo contrassegnato da Stati nazione indeboliti, società frammentate, economie squilibrate, minacce pervasive e informalizzazione della guerra.
Il sistema economico improntato sul modello capitalistico liberale o neoliberale, a lungo esemplificato dall’acronimo TINA (There Is No Alternative), un modello da ultimo caratterizzato da tassi di interesse e di inflazione prossimi allo zero, bolle speculative basate sulla finanziarizzazione dell’economia e sulla stampa di denaro e approvvigionamenti energetici dalla Russia a basso costo, è ormai saltato. Potrebbe presto saltare in buona parte anche quello legato alle catene di valore collegate alla Cina. Verrebbe da dire che, per pochi la festa sia finita mentre per i molti altri, purtroppo, non è mai iniziata. Gli stessi strenui fautori del neoliberalismo e della globalizzazione, gli Stati Uniti d’America, sembrano ora ripudiare entrambi.3 O si sono sbagliati fin dall’inizio, oppure i loro interessi esclusivi non sono più tutelati.
Nessuno meglio di papa Francesco ha fotografato la situazione attuale quando, all’indomani delle drammatiche accelerazioni determinate dalla pandemia, ha affermato solennemente nella lettera enciclica “Fratelli tutti” che: «Chiunque pensi che l’unica lezione da imparare sia stata la necessità di migliorare ciò che stavamo già facendo, o di perfezionare i sistemi e i regolamenti esistenti, nega la realtà».4 Naturalmente le parole del Santo Padre, che risalgono al 2020, andavano ben oltre la semplice contingenza creata dal Covid-19.
Coloro che per decenni hanno cavalcato il cosiddetto «ordine mondiale basato sulle regole», che erano tuttavia decise da un gruppo ristretto di paesi (Stati Uniti e affiliati del Global West), e la cui interpretazione e applicazione erano parimenti prerogativa di questi ultimi, tratteggiano ora una nuova era di «competizione tra grandi potenze».5 Ovviamente ignorano, o fanno finta di ignorare, che l’attuale competizione tra grandi potenze è in larga parte dovuta a una seriale applicazione distorta di queste stesse “regole” sulla base dell’inguaribile doppio standard che da sempre caratterizza il processo decisionale del Global West. Fino a qualche tempo fa i paesi del Global Rest subivano tale situazione con malumore, ora la contestano apertamente.
Secondo il Global West siamo giunti a un punto di flesso della storia, con l’umanità e le democrazie soggette alla crescente minaccia rappresentata dalle autocrazie (Cina, Russia, Iran ecc.). Si tratta, allo stesso tempo, di un evocativo strumento retorico fondato sul consueto e ben collaudato metodo di governare attraverso la paura, e di un’abile scorciatoia. È una tesi che consente infatti di ignorare il cosiddetto “elefante nella stanza”, ovvero che la principale minaccia alle odierne democrazie è essenzialmente interna e non esterna. I segnali che la nazione leader delle democrazie, gli Stati Uniti, hanno offerto negli ultimi anni sembrano incontrovertibili. Tralasciando l’assalto al Congresso del gennaio 2021, basti pensare che il maggior numero di americani uccisi ogni anno in conflitti a fuoco avviene per mano di altri americani ossessionati dal possesso di armi da fuoco, e che, con il 5% della popolazione mondiale, il paese consuma l’80% degli oppiacei prodotti in tutto il pianeta. Il semplice buon senso leggerebbe questi due dati – ma se ne potrebbero citare molti altri – come un irreversibile segnale di decadenza, ma i poderosi apparati mediatici occidentali sono concentrati altrove.
La tesi della contrapposizione tra democrazie e autocrazie, peraltro, non riesce a fare breccia nemmeno tra le opinioni pubbliche occidentali, più divise e polarizzate che mai, e che faticano a individuare Russia e Cina come le principali minacce che incombono su di loro. La matrice di riferimento per analizzare lo scenario globale sta quindi mutando. Si profila la contrapposizione tra Global West (USA e rispettivi alleati e partner nelle diverse configurazioni: G7, NATO, UE, QUAD e AUKUS), e il Global Rest, ovvero tutto il resto del mondo nelle variegate configurazioni che si stanno delineando. Queste includono i BRICS, i BRICS plus, la Shanghai Cooperation Organization (SCO), l’EurAsian Economic Union (EAEU). A queste ultime si vanno aggiungendo una serie di raggruppamenti regionali e organizzazioni tecniche che si distinguono per l’assenza degli Stati Uniti. Si tratta della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) che, sotto l’informale leadership cinese, ricomprende Asia orientale e sud-orientale facendone una delle maggiori aree di libero scambio al mondo. L’Asian Infrastructure and Investment Bank (AIIB), che sempre sotto la leadership di Pechino si profila come un potenziale alter ego della Banca mondiale e, da ultimo, la New Development Bank che i cinque paesi che hanno costituito i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) stanno promuovendo. Sullo sfondo permane la Belt and Road Initiative (BRI), la Nuova Via della Seta, il mega progetto infrastrutturale cinese, oltre 1000 miliardi di dollari, per realizzare una serie di assi infrastrutturali e commerciali che collegherebbero Asia ed Europa alterando completamente la geopolitica e la geoeconomia dell’Eurasia degli ultimi cinque secoli. Stati Uniti e Global West stanno tentando di ostacolare in ogni modo questo progetto che, tra le altre cose, ridimensionerebbe uno dei cardini del potere occidentale nel mondo: il controllo delle grandi rotte commerciali marittime euroasiatiche.
Lo spartiacque geopolitico e il catalizzatore più importante in questa crescente contrapposizione e/o diversificazione del contesto internazionale è ovviamente, da più di un anno a questa parte, il conflitto in Ucraina. Le implicazioni di quest’ultimo sono andate ben oltre le storiche recriminazioni bilaterali tra Mosca e Kiev, che meriterebbero ben altra disamina che la semplice distinzione tra “aggressore e aggredito”. Le élites del Global West sono rimaste sconcertate per la tiepida solidarietà del Global Rest nel condannare la Russia e per l’indisponibilità ad adottare massicce sanzioni contro Mosca. Tale disappunto denota quanto queste e i relativi establishment di riferimento siano ormai completamente avulsi dalla realtà, e completamente prive di qualsiasi empatia cognitiva.
Agli shock della tiepida condanna e della mancata adesione alle sanzioni, se ne è aggiunto un terzo ancora più forte: il mancato crollo della Russia, pronosticato già poche settimane dopo l’avvio della sciagurata Operazione militare speciale. Al contrario, scricchiola, e non poco, il motore economico dell’Europa, la Germania, soprattutto a causa delle sanzioni alla Russia e di quelle che si potrebbero presto profilare verso la Cina. Il conflitto ucraino è divenuto quindi l’epicentro di un sistema internazionale che si allontana progressivamente dalla matrice dominante degli ultimi decenni, e la cartina al tornasole del disagio del Global Rest verso l’egemonia del Global West. Si sta profilando una transizione verso un sistema ibrido, non ancora ben delineato e nel quale si intravedono alcune linee tendenziali ancorché non ancora ben consolidate.
Il Global Rest non deve essere sommariamente bollato come una coalizione di paesi animata da una pervicace ostilità nei confronti delle democrazie occidentali, da anacronistiche velleità terzomondiste o da pura rivalsa contro il colonialismo del XIX e XX secolo. Non è questa l’intenzione né, tantomeno, molti di questi paesi potrebbero agevolmente permettersi una tale posizione. Piuttosto, il Global Rest tenta di sottrarsi alla crescente competizione tra le grandi potenze ma lo fa anche inviando un netto messaggio contro le agende politiche bellicose che hanno caratterizzato il Global West negli ultimi decenni (Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria). Prova, per quanto possibile, a rimanere neutrale o comunque non intaccato eccessivamente da questa crescente competizione che il Global West ha elevato a parametro di riferimento per la concettualizzazione dell’attuale sistema internazionale, all’insegna dell’intramontabile “o con noi o contro di noi”. Il Global Rest è alquanto eterogeneo, include il cosiddetto Global South, ma anche paesi che da decenni “resistono” all’egemonia occidentale: Cina, Russia, Iran, Venezuela, Nicaragua, Cuba, Siria ecc. La circostanza che questi paesi non rappresentino fulgidi esempi di governance democratico-liberale non sembrerebbe condizionare più di tanto gli altri membri del Global Rest, almeno per il momento. Sarebbe tuttavia una forzatura eccessiva attribuire all’attuale, crescente, concertazione russo-cinese una leadership del Global Rest paragonabile a quella esercitata dagli Stati Uniti nel Global West.
I segnali di distacco dal Global West si intensificano. In occasione del recente vertice UE-CELAC il 17-18 luglio scorso, i paesi latinoamericani e caraibici si sono opposti sia all’esplicita condanna dell’invasione russa dell’Ucraina sia al consueto videomessaggio del presidente ucraino Zelensky che ormai da oltre 18 mesi contraddistingue qualunque tipo di grande evento che si svolge nel Global West.
Un dato di fatto appare piuttosto esplicativo. Tra le cosiddette economie emergenti, apparentemente nessuna aspira a entrare a far parte del G7 (questi ultimi, peraltro, si sono ormai arroccati in una distopica visione del mondo), mentre vi è una lunga lista di paesi intenzionati ad aderire al gruppo BRICS. Sono ormai a diciannove e il numero appare in costante aumento. Vi figurano, tra gli altri, Messico, Venezuela, Argentina, Algeria, Egitto, Etiopia, Nigeria, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kazakistan, Indonesia. Recentemente la rivista “Foreign Policy”6 ha ripreso un rapporto dell’Eurasia Group indicando sei Stati cruciali il cui orientamento futuro potrebbe determinare la geopolitica globale: Arabia Saudita, Brasile, India, Indonesia, Sudafrica e Turchia. Tre di questi sono già membri del BRICS (Brasile, India e Sudafrica), la Turchia è l’unico membro della NATO che riesce ancora a concepire una politica estera in qualche modo autonoma dalle linee guida impartite dagli USA. Arabia Saudita e Indonesia stanno diventando cruciali per l’evoluzione degli assetti in Medio Oriente e Sud-Est asiatico.
L’India è oggetto di un corteggiamento serrato da parte degli Stati Uniti con il chiaro intento di disarticolare il BRICS e contenere la Cina contando anche sulle storiche rivalità tra Pechino e New Dehli. L’India è il paese che in questo momento sta creando i maggiori problemi nella concertazione tra i BRICS. Non è ancora chiaro se per compiacere Washington, se per una maggiore consapevolezza della sua accresciuta rilevanza strategica (adesione al QUAD Indo-Pacifico con Stati Uniti, Giappone e Australia) o per l’insofferenza verso la storica rivalità con la Cina.
L’Indonesia è invece soggetta a un significativo incremento degli investimenti cinesi mentre Pechino – complici le tensioni geopolitiche – sta riducendo in modo consistente quelli nei paesi occidentali,7 calati del 25% rispetto al picco registrato nel 2016.
Per il momento, il summit dei BRICS svoltosi in Sudafrica il 22-24 agosto scorsi ha deliberato l’ampliamento del gruppo a ben sei paesi: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran.8 Una svolta storica, con ben tre grandi produttori energetici del Medio Oriente e uno dei principali partner statunitensi nella regione come l’Egitto. Se prossimamente aderiranno anche altri paesi in lista come Algeria, Messico, Nigeria, Kazakistan, Venezuela si andrà configurando un cartello di grandi produttori e consumatori energetici accomunati da una crescente insofferenza verso la fin qui indiscussa egemonia del Global West. Le implicazioni per il mercato globale dell’energia e i relativi circuiti finanziari (ruolo del dollaro come valuta di riserva globale) potrebbero essere notevoli. Parimenti questi stessi paesi vantano un ruolo importantissimo sia nella disponibilità delle “terre rare” necessarie per la transizione energetica verde sia per la capacità manifatturiera nello stesso settore.
Diversi paesi del Global Rest hanno da tempo iniziato a destreggiarsi meglio nei complessi scenari geopolitici che si stanno delineando e contrariamente alle logiche dell’era unipolare iniziano a giocare sempre più disinvoltamente su molteplici scacchieri nell’esclusivo perseguimento dei loro interessi nazionali. Essi manifestano sempre meno sensibilità rispetto alle molteplici agende di volta in volta imposte dal Global West sulla base del cosiddetto “ordine mondiale basato sulle regole”. Uno dei paesi che si è finora maggiormente profilato in questo ambito è proprio l’Arabia Saudita. Sembrano ormai finiti i tempi in cui la monarchia degli Al Saud sincronizzava alla perfezione le proprie scelte con gli interessi degli Stati Uniti nella regione e in ambito energetico. Con l’avvento del principe della Corona Mohammed bin Salman (MbS) il paese sta registrando il primo vero cambiamento generazionale da decenni a questa parte; non riguarda solo la Corte reale ma anche la società. La visione Saudi 20309 delineata da MbS è una terapia shock e a tappe forzate verso la modernizzazione del paese. Dopo una serie di iniziative a dir poco maldestre, tra l’intensificazione del conflitto in Yemen, il sequestro del primo ministro libanese Saad Hariri, l’arresto e il confinamento di parte della famiglia reale al Ritz Carlton di Riad, il blocco del Qatar e il truculento assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, il principe da qualche tempo non ha più sbagliato una mossa. In sintesi, o MbS è cambiato (la sua età anagrafica, del resto, lo consentirebbe ancora) o ha saggiamente cambiato i suoi principali consiglieri. L’uomo forte del Regno ha intensificato il coordinamento con la Russia nel cosiddetto formato OPEC plus per mantenere alti i prezzi globali del greggio infischiandosene delle intimazioni statunitensi di aumentare la produzione per farne precipitare il prezzo e danneggiare la Russia. L’anno scorso ha intascato una stupefacente “visita a Canossa” del presidente Biden che lo aveva precedentemente messo all’indice per l’omicidio di Khashoggi. Biden si è recato a Riad ma è restato tuttavia con un pugno di mosche in mano, specie sulla questione del prezzo del petrolio. Riad ha addirittura operato una convinta apertura verso la Cina di cui è diventato uno dei principali fornitori energetici preparandosi alla commercializzazione del greggio in renminbi cinese. Quest’ultima mossa potrebbe progressivamente assestare un colpo alla primazia globale del dollaro come valuta di riserva degli scambi mondiali, intaccare uno dei pilastri del potere statunitense nel mondo, per non parlare dei potenziali effetti catastrofici sulla sostenibilità dello stratosferico debito USA.
Il parziale affrancamento dal dollaro come valuta di riserva degli scambi mondiali verso un paniere di valute dei BRICS è una delle iniziative perseguite più convintamente da questi ultimi. È ancora in una fase embrionale ma il percorso sembra tracciato. Le cosiddette valute R5 (rial brasiliano, rand sudafricano, rupia indiana, rublo russo e renminbi cinese) potrebbero facilitare schemi di scambi commerciali denominati in queste valute per le quali non si esclude addirittura un loro aggancio all’oro. L’Arabia Saudita, essendo uno dei massimi produttori mondiali di petrolio, potrebbe esercitare un’influenza notevole nel propiziare questa evoluzione nella misura in cui rafforzerà il ricorso al renminbi e riuscirà a trascinare altri membri dell’OPEC verso questa scelta.
Il presidente cinese Xi Jinping ha visitato l’anno scorso il regno saudita dove ha incontrato anche tutti gli altri leader del Consiglio di cooperazione del Golfo e ha addirittura offerto la piazza finanziaria di Shangai come una piattaforma per il trading globale di petrolio e gas. Più recentemente, MbS ha aperto un dialogo del tutto inaspettato con l’Iran, clamorosamente propiziato dalla mediazione della Cina, e si è adoperato per riammettere la Siria nella Lega Araba infischiandosene10 delle obiezioni statunitensi. Il principe della Corona saudita ha da tempo lasciato intendere11 che gli Stati Uniti non rappresentano più il principale punto di riferimento nelle scelte di politica estera del Regno.
Washington sta precipitosamente tentando di correre ai ripari. Le visite di emissari USA a Riad si moltiplicano: all’inizio dell’estate si sono alternati il segretario di Stato Blinken, il consigliere per la Sicurezza nazionale Sullivan e l’uomo di punta della Casa Bianca per il Medio Oriente McGurk. L’Amministrazione Biden starebbe intensificando gli sforzi per indurre l’Arabia Saudita ad aderire agli Accordi di Abramo siglati da Trump nel 2020, per i quali l’adesione di Riad sarebbe un vero game-changer, anche per indebolire la crescente presa cinese sul paese.
Secondo l’editorialista principe del “New York Times”, Thomas Friedman, 12 l’Amministrazione Biden, in cambio dell’adesione saudita alle intese di Abramo, sarebbe pronta a offrire un accordo di mutua sicurezza saudo-americano e, contestualmente, si adopererebbe per fare in modo che Israele faccia «concessioni ai palestinesi che preservino la possibilità della soluzione dei due Stati». Attenzione alla semantica, non si tratterebbe della realizzazione di tale soluzione, ma solo della preservazione teorica di tale possibilità. Ovvero l’ennesima presa per i fondelli ai danni dei palestinesi. Che l’Amministrazione Biden possa poi ancora nutrire qualche illusione sulla sua capacità di influenzare l’attuale compagine governativa israeliana e sulla disponibilità di quest’ultima verso la soluzione dei due Stati la dice lunga sulle stratosferiche dissonanze cognitive che la caratterizzano.
L’Arabia Saudita potrebbe anche abboccare. Tuttavia, per gli Emirati Arabi Uniti l’esperienza dell’adesione agli Accordi di Abramo si è finora rivelata molto deludente in termini di contropartite ricevute; circostanza che non dovrebbe essere passata inosservata alla Corte reale di Riad. MbS, in cambio, avrebbe chiesto a Washington aiuto per sviluppare un programma nucleare civile e consistenti forniture militari; è plausibile ritenere che Israele ostacolerà entrambe le richieste. Se MbS dovesse aderire agli Accordi di Abramo – circostanza comunque difficile anche alla luce delle costanti provocazioni della destra religiosa israeliana sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme – ma, successivamente, né Israele né gli USA dovessero mantenere i loro impegni come accaduto con Abu Dhabi, allora il fossato tra Washington e Riad potrebbe allargarsi in modo irreversibile.
Fonte: Italianieuropei