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Il mito del posto fisso nella Pa si supera con la mobilità

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di Tink Tank TORTUGA

I dipendenti pubblici italiani sono quelli con la maggiore anzianità di servizio tra i grandi paesi europei, un fenomeno dovuto alla bassa mobilità. Le rotazioni di personale andrebbero pensate anche come uno strumento di sviluppo delle carriere.

Posto fisso tra leggende e realtà

Tradizionalmente associamo il lavoro pubblico al cosiddetto “posto fisso”, rappresentato vividamente da Checco Zalone che nel suo Quo Vado: pur di non perdere il contratto a tempo indeterminato con il pubblico, il protagonista del film accetta persino di essere trasferito in una stazione di ricerca al Polo Nord. Questa immagine del posto fisso, sia pure macchiettistica, non è del tutto slegata dalla realtà. Come sottolineano Pietro Garibaldi e Pedro Gomes nel loro “The Economics of Public Employment”, effettivamente il lavoro pubblico avvantaggia sia in termini di bilanciamento tra vita e lavoro sia in termini di sicurezza del posto di lavoro. Anche Daniele Checchi, Alessandra Fenizia e Claudio Lucifora sottolineano che i dipendenti pubblici europei percepiscono una maggiore sicurezza del posto di lavoro.

Se si guardano i dati della European Labour Force Survey, colpisce la differenza tra lavoratori privati e pubblici in termini di anzianità di servizio alle dipendenze dello stesso datore di lavoro. Nel 2019, il lavoratore mediano nella pubblica amministrazione italiana lavorava presso la stessa istituzione da più di 22 anni, contro i 10,5 del dipendente mediano privato (e i 17,5 del settore pubblico in senso esteso, includendo quindi anche sanità e istruzione). Il confronto internazionale è abbastanza impietoso: l’Italia presenta i numeri più elevati tra i grandi paesi europei; il gap è molto evidente nella Pa rispetto a Germania (16,1 anni medi di anzianità di servizio), Francia (16 anni), Spagna (17,9) e Regno Unito (11,9). La differenza si attenua nella pubblica amministrazione in senso esteso e tende a scomparire invece nel settore privato. Tenendo in considerazione la differente composizione demografica della forza lavoro in questi paesi, le differenze si riducono ma non scompaiono, e il divario rimane particolarmente ampio nella fascia di lavoratori con meno anzianità di servizio di cui la Pa italiana è carente rispetto ai nostri vicini

La mobilità intersettoriale e infrasettoriale

L’elevata permanenza all’interno della stessa pubblica amministrazione può essere pensata anche come conseguenza di una scarsa mobilità intersettoriale (da e verso il settore pubblico) e infrasettoriale (tra amministrazioni pubbliche).

Se si guardano per esempio i dati delle comunicazioni obbligatorie, emerge un gap nella probabilità di vivere un evento di mobilità intersettoriale: nel settore privato il 3,5 per cento dei contratti a tempo indeterminato attivati dal 2009 in poi si conclude con un evento di mobilità intersettoriale, mentre nella Pa sono solo l’1,4 per cento (e il 2,5 per cento nel settore pubblico in senso esteso). Inoltre, tra chi termina un lavoro nel settore privato, solo il 4 per cento si sposta verso il pubblico, mentre la percentuale “di permanenza” sale a oltre il 74 per cento tra chi parte dal pubblico in senso esteso e all’88 per cento tra chi parte dalla Pa in senso stretto. Allo stesso tempo, tra coloro che sono interessati da un evento di mobilità intersettoriale, meno dell’1 per cento di chi arriva dal privato approda alla Pa, percentuale che sale all’11 per cento tra chi arriva dal settore pubblico in senso esteso e a oltre il 65 per cento tra chi arriva dalla Pa stessa (e quindi vi ritorna).

Alla bassa mobilità intersettoriale se ne associa una altrettanto bassa infrasettoriale, all’interno del settore pubblico (propriamente, mobilità esterna). Secondo i dati del Conto annuale della Ragioneria generale dello stato, escludendo il 2016 e il 2017 (in cui si sono registrati numerosi interventi di riassetto istituzionale, specialmente nella sanità lombarda), dal 2010 i dipendenti pubblici che hanno cambiato datore di lavoro all’interno della Pa con l’istituto della mobilità esterna sono stati, in ciascun anno, meno del 2 per cento. Di questi, solo una minima parte ha cambiato comparto, per esempio da un comune a un’azienda sanitaria o a un ministero, limitando ulteriormente l’interscambio

Se ci limitiamo al solo personale dirigente negli enti locali e nelle amministrazioni centrali, la mobilità esterna si è attestata intorno al 3 per cento nell’ultimo decennio. La scarsa mobilità non è dunque propria soltanto del personale meno qualificato o senza compiti direttivi, che potremmo considerare meno incline a spostarsi tra amministrazioni, ma anche del personale direttivo. A questi dati occorrerebbe aggiungere coloro che non usufruiscono di una via facilitata di accesso rispetto agli esterni e transitano per le normali procedure di reclutamento, ovvero i concorsi, che sono tracciati nei dati utilizzati sopra e non nel conto annuale. C’è poi anche la questione dei movimenti all’interno delle singole amministrazioni (mobilità interna), tra uffici o dipartimenti diversi, sulla quale mancano totalmente dati.

Superare la staticità

Negli ultimi anni la Pa ha tentato di discostarsi dall’equivalenza tra lavoro pubblico e “posto fisso”, sia con interventi normativi che a livello “narrativo” (vedi ad esempio, Antonio Naddeo di Aran). Anche alcune rilevazioni in materia suggeriscono che “oggi i lavoratori danno meno importanza al ‘posto fisso’ in favore di aspetti come benessere, motivazione, formazione o lavoro agile” (Ricerca Fpa – Lavoro Pubblico 2023).

Un fronte su cui continuare a lavorare è proprio quello della mobilità. Oggi, è spesso utilizzata come uno strumento per venire incontro alle esigenze personali dei dipendenti, che necessitano ad esempio di avvicinarsi agli affetti familiari, oppure come mezzo per sopperire alle carenze di personale con le eccedenze altrui. Oltre a queste legittime casistiche occorrerebbe interpretare la mobilità come uno strumento di sviluppo delle carriere, che, a differenza della partecipazione ai concorsi, potrebbe permettere più rapidi e fluidi ricambi: in una organizzazione si possono raggiungere importanti guadagni di efficienza tramite una migliore riallocazione dei lavoratori.

Oggi, dunque, c’è bisogno di programmi ulteriori, che permettano alle persone che lavorano nella Pa di crescere e imparare a contatto con contesti diversi. Andrebbero immaginati percorsi di job rotation,rivolti specialmente ai nuovi assunti, affinché possano sperimentare alternativamente diversi settori (prima di specializzarsi) o lo stesso settore in diversi enti (per rafforzare la specializzazione). Si tratterebbe di concorsi integrati tra diverse amministrazioni, vincendo i quali il personale si vincolerebbe a lavorare nei diversi ambienti proposti. La Finlandia, ad esempio, ha investito in programmi di mobilità nel settore pubblico, con rotazioni di personale in diverse amministrazioni per periodi limitati oppure con scambi internazionali. Ci sono anche esempi di graduate programs in imprese private, che assumono e formano neo-laureati, facendogli fare esperienza in diversi uffici o sedi.

Occorre anche stimolare una mobilità specializzata, a livello dirigenziale e di funzionari, che possa diffondere buone pratiche e competenze. Come riporta una recente ricerca di Ipsos esistono diversi programmi di questo tipo a livello europeo, come l’Erasmus della Pa, che prevedono scambi sia tra diversi stati sia tra istituzioni nazionali e internazionali. Il nostro paese per il momento è decisamente meno coinvolto degli altri membri dell’Ue e beneficerebbe di una maggiore  partecipazione. Al di là degli scambi europei, che sono rivolti soprattutto a personale altamente specializzato, la Pa italiana dovrebbe fare tesoro dell’ampiezza del settore pubblico e degli strumenti per la gestione integrata del personale, per creare percorsi inter-istituzionali a tutti i livelli.