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Il menu’ fisso salverà i ristoranti italiani?

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Cari clienti, o ci veniamo incontro oppure la ristorazione come la conoscevamo non sarà nelle condizioni di esistere più”. È l’atto di “verità” e umiltà che Massimiliano Tonelli, direttore della rivista “Artribune”, fondatore del sito “Romafaschifo” ed ex direttore editoriale del “Gambero Rosso”, trasferitosi a Milano per insegnare allo Iulm, grande esperto di tendenze in senso lato, chiede ai ristoratori italiani per correggere il tiro dei propri affari, raddrizzare la barra e uscire dalla crisi pandemica che da due anni li stringe d’assedio tra chiusure, posti limitati al chiuso, stringenti regole del green pass.

Tonelli chiede al mondo della ristorazione di darsi una scossa, di uscire dal torpore in cui è precipitato perché “per far fronte all’ineluttabile incremento dei costi fissi, ogni azienda prima di alzare definitivamente bandiera bianca dovrebbe valutare attentamente se ci sono spazi di ottimizzazione per rendere sostenibile ciò che non sembra più esserlo. Per quanto riguarda una significativa fascia di luoghi della ristorazione (non tutti, ma molti), questo lavoro riorganizzativo ancora non è stato fatto e dunque i margini di miglioramento sono lì, alla portata”.

In un intervento sul sito Il Gusto, Tonelli chiede che i ristoratori italiani facciano una svolta, cambino passo per una razionalizzazione dell’organizzazione in cucina passando al “menù fisso”, introducendo la cena su due turni – uno alle ore 19 e uno alle 21.30 –, con prenotazione del tavolo solo in digitale. Insomma, Tonelli chiede “uno shift culturale da fare tutti insieme per un beneficio condiviso” e ai ristoratori di non essere succubi delle abitudini e delle pigrizie dei propri clienti. L’Agi lo ha intervistato per farsi spiegare in cosa consistano effettivamente le sue proposte.

“Innanzitutto quella del menù fisso – premette Tonelli – non è una mia idea, ma una cosa che esiste già anche se in misura contenuta. Tuttavia, ci sono dei casi di applicazione che possono essere misurati, analizzati per capire pregi e difetti. Non è un salto nel buio. È una cosa che alcuni ristoranti già fanno in Italia e che in altri paesi, per esempio la Francia ma anche il sistema della ristorazione di Londra, già adotta in maniera abbastanza diffusa”.

Ma quali sarebbe, in concreto, i vantaggi del menù fisso? Non si ordina più quel che si vuole?

“I vantaggi sono che avendo una scelta molto contenuta di pietanze a menù fisso, che sarebbe l’optimum, si riesce a minimizzare, se non annullare, tutta una parte di sprechi della ristorazione. Che, di fatto, è un settore industriale un po’ strano e poco interessato a efficientare i propri processi come fanno invece tutti i settori industriali. Forse perché molti di coloro che fanno ristorazione in Italia non sono dei professionisti”.

E cosa sono, improvvisatori? Accusa grave…

“Sono persone che a un certo punto, per passione, mancanza di alternative o altro, si sono buttate a fare i ristoratori e ciò fa sì che ci sia una grandissima fetta d’imprenditori che lo è di fatto ma non nella logica, negli approcci, nella mentalità. Alla fine si accontentano di guadagni minori, di andare in paro o molto spesso ci perdono proprio perché non individuano i punti di efficientamento. Uno di questi riguarda l’approvvigionamento delle materie prime e gli sprechi. Se si offre un menù fisso non si fa più la spesa a casaccio, tutto ciò associato a un sistema di prenotazioni intelligente. Non esiste più da nessuna parte al mondo che si prenoti telefonando, ormai è quasi tutto digitale e quasi sempre si tratta d’una prenotazione prepagata con carta di credito che si lascia a titolo di garanzia”.

Si paga prima?

È un patto di lealtà. La ristorazione, soprattutto in Italia, fa invece fatica a imporre questa usanza ai clienti. È chiaro che oppongono resistenza, ovvio, ma l’industria deve avere pure la forza, alleandosi tra imprenditori, di imporre certe innovazioni. Il discorso è associato al sistema smart di prenotazione, che dà la possibilità di fare acquisti molto precisi, di non sprecare nulla, di puntare di più sulla qualità. Se si ha la possibilità di acquistare quei dati etti di dado vegetale e si sa che non se ne sprecherà neanche un grammo, si avrà il massimo della qualità. A quel punto si offre il servizio migliore. Significa avere meno tempi di realizzazione della linea in cucina, che è più diretta: fare quella serie di piatti per quei determinati commensali. Punto. Si prepara la linea e la si prepara precisa, né abbondante né su per giù. E poi non si è costretti a dover stoccare le cose che non si sono utilizzate”.

Cosa c’entra lo stoccaggio?

“È un altro aspetto ancora. Che corrisponde molto al tema dell’aumento delle materie prime e dei costi energetici. I ristoratori che hanno fatto questa scelta – io ho parlato con alcuni di loro – dicono: avevo quattro celle fredde e adesso ne ho solo una accesa, perché ottimizzo e non mi serve tutto quello spazio di stoccaggio. Spegnere due o tre frigoriferi in un ristorante significa per l’imprenditore un risparmio a fine dell’anno significativo, che può cambiare il conto economico dell’azienda. Se poi lo si declina su tutta l’industria della ristorazione significa anche emissioni e impatto ambientale straordinariamente inferiore, qualità maggiore a un prezzo minore. Con il menù fisso si offre un prezzo ottimizzato, si salvaguarda l’ambiente e si diminuisce il numero delle aziende della ristorazione in difficoltà economica, tema clou. Poi c’è l’aspetto del personale: se si affronta la clientela al buio, sulla base di ciò che potrebbe ordinare o meno, c’è bisogno di una persona in più o anche di due o tre in più in cucina. Se invece si ottimizza, si fa con meno personale. E non è certo un invito alle aziende a licenziare, semmai è una risposta al fatto che ora il personale non si trova. Tutte le aziende sono in difficoltà per questo motivo”.

Ma i ristoratori sarebbero preparati e disponibili a una simile evenienza?

“I ristoratori tutti i giorni si lamentano sui social perché la gente prenota e poi non si presenta. Oppure si lamentano perché non trovano personale. Su Facebook notavo che la metà dei post sono di ristoratori che cercano un cuoco, ma quel cuoco nemmeno gli servirebbe se avessero delle preparazioni più razionali, più organizzate. Lo stesso vale per la sala: quando si ha una grande sala con 20, 25, 30 tavoli, un conto è dire: seduti e si parte, possibilmente tutti alla stessa ora come accade ormai in tutto il mondo, un altro conto è che ogni tavolo negozi con un cameriere. Alla fine del mese sono ore e ore-uomo in più. Sapere di sedersi al ristorante e quello è il menù del giorno significa sedersi e iniziare. Non c’è da chiedere nulla, non c’è da aspettare nulla, non si aspetta il cameriere per ordinare. Ciò permette una persona in meno in sala ed è un sicuro risparmio”.

E questo fa il paio con i turni pranzo e cena?

“Assolutamente. Sono la stessa cosa. Si fanno in tutto il mondo, da questo punto di vista noi siamo rimasti un po’ indietro, perché i nostri imprenditori – non essendo veri imprenditori – hanno delle difficoltà ad attuare politiche e scelte precise. E soprattutto allearsi per farle passare al pubblico, che per altro si abitua facilissimamente. Ma va educato. Del resto, gli stessi clienti che in Italia dicono “no, io non andrei mai a mangiare alle 7”, sono poi gli stessi che quando vanno all’estero prenotano pure alle 6 per cenare in quel locale perché vedono sull’app che la disponibilità c’è solo alle 6 oppure alle 10,30”.

Qui in Italia è invece tutto improvvisato?

“Esattamente. E il risultato qual è? Che c’è un’inefficienza totale a parità di prezzo di affitto di quel locale, ma si usa il locale a metà. E nell’arco di una serata, che può partire dalle 6.30-7 e arrivare fino a mezzanotte, si utilizza soltanto la parte che va dalle 9 in poi con le persone che arrivano a quell’ora”.

Da cosa dipende questa refrattarietà dei ristoratori a cambiare?

“Dalla mancanza di coraggio. Bisogna che siano le città a prendere l’iniziativa. A fare un po’ da apripista e che alcuni ristoratori che si alleino. Se parte un singolo è molto rischioso e ci va a perdere. Il cliente non ha sempre ragione, ha invece bisogno di essere indirizzato in un ecosistema dentro il quale muoversi. Se il sistema non è organizzato il cliente non cambia mai, rimane sempre il cliente anni Settanta o Ottanta, il che è un po’ surreale e molto autodistruttivo. Cambiare è una necessità, così come è messo il settore chiude e per come si sono messe le cose non ha più personale, i costi degli affitti non si sono abbassati, i costi dell’energia rischiano di decuplicare se non triplicare mentre le persone non sono disposte a duplicare o triplicare il conto finale. In questo momento storico per mangiare una pizza si dovrebbero pagare 55 € a persona, ma nessuno è intenzionato a fare questo passaggio”.

La ristorazione è in un cul de sac? Che fare allora?

“Delle due l’una. Bisogna organizzare le risorse umane e l’offerta. Mi sembra una lettura di buon senso. Oltretutto è anche una lettura post-pandemica. Altrimenti il rischio è grosso. C’è una grossa concorrenza, anche per la forte presenza del delivery. Una volta che le persone sino abituate al delivery non tornano al 100% a sedere fuori casa. Si deve offrire una motivazione per far tornare le persone al ristorante. Questo è il momento giusto per fare delle innovazioni”.

L’Italia è fuori dal mondo quanto a ristorazione?

“Le condizioni cui ho accennato esistono ovunque. Non stiamo parlando di fare la rivoluzione. In Italia è diverso, dicono molti imprenditori, ma non è assolutamente vero che sia così. C’è invece molta pigrizia, posizioni sedimentate e dovute al fatto che i ristoratori per lo più non sono veri e propri imprenditori. All’estero è difficile che ci sia il ristorante a conduzione famigliare…  Ora non sono contro la gestione famigliare, ma la logica dev’essere d’impresa, non artigianale. Perché con la logica artigianale basta l’aumento delle bollette che l’azienda non funziona più. Ed è un peccato, perché si rovinano decenni di storia, patrimonio culturale di questi ristoranti che sono sempre lì lì con l’acqua alla gola e basta che l’acqua salga un millimetro e non respirano più. Non si può vivere in questo modo, ci sono ancora margini per rendere le aziende efficienti e fare in modo che siano tranquille, Se aumenta la bolletta di 3 mila euro chi se ne frega, tanto è un’azienda che guadagna e nessuna azienda si può spaventare per 3 mila euro in più o in meno sulla bolletta. Poi magari, invece, in un giorno o in una settimana ci sono 3 mila euro di perdite in persone che hanno dato buca e non sono state registrate e non hanno fornito la carta di credito come atto fiduciario perché si teme si possano offendere… Sono abitudini che vanno innescate. Ci si deve solo svegliare. Basta che alcuni tra i ristoranti più influenti di Roma ei Milano si mettano in testa di fare minime innovazioni che poi seguono tutti, in automatico. Basta partire e superare il concetto che s’è sempre fatto così”.

Source: agi